Pubblicato in: New York Daily Tribune, n° 3816, 1853.07.11.
Tradotto direttamente dalla versione in inglese presente sul MIA e trascritto da: Leonardo Maria Battisti, novembre 2018
Londra, 24 giugno 1853
Il dibattito sulla proposta di lord Stanley di rinviar la legislazione sull'India è stato aggiornato a stasera. Pella prima volta dal 1783 la questione indiana diviene in Inghilterra una questione di governo. Perché?
L'inizio effettivo della Compagnia delle Indie orientali non può farsi risalire a epoca più lontana del 1702, allorché le varie società aspiranti al monopolio del commercio con l'India si fusero in una sola. Finallora l'esistenza stessa dell'originaria Compagnia fu più volte messa in pericolo: fu sospesa alcuni anni sotto il protettorato di Cromwell; fu minacciata di scioglimento ad opera delle Camere sotto Guglielmo III. Fu con l'ascesa al trono di tale principe olandese (quando i whig divennero gli artefici dei redditi dell'impero; quando fu creata la Banca d'Inghilterra; quando il sistema protezionistico fu sancito in Inghilterra; quando fu definitivamente assicurato l'equilibrio delle potenze in Europa) che il Parlamento riconobbe l'esistenza di una Compagnia delle Indie orientali1. Quest'era di libertà apparente fu invero un'era di monopoli, non creati da concessioni regali (come ai tempi di Elisabetta I e Carlo I) bensì autorizzati dalla sanzione delle Camere. Quell'epoca della storia d'Inghilterra è molto simile all'epoca di Luigi Filippo in Francia: la vecchia aristocrazia terriera sconfitta; la borghesia incapace di occuparne il posto se non sotto la bandiera della plutocrazia o “haute finance”2. Alla gente comune furono negati il commercio indiano dalla Compagnia delle Indie orientali e la rappresentanza parlamentare dalla Camera dei comuni. In questo come in altri casi, la prima decisiva vittoria della borghesia sull'aristocrazia feudale coincide con la massima reazione contro il popolo (fenomeno che spinse più d'uno scrittore popolare come Cobbett3 a cercar la libertà popolare nel passato anziché nel futuro).
L'unione fra la monarchia costituzionale e l'interesse finanziario monopolistico, fra la Compagnia delle Indie orientali e la Gloriosa Rivoluzione del 1688, fu promossa dalla stessa forza che in tutti i tempi e in ogni Paese avvicinò e alleò gli interessi liberali e una dinastia liberale: la forza della corruzione: questa primo e ultimo motore della monarchia costituzionale, angelo custode di Guglielmo III e demone fatale di Luigi Filippo. Già nel 1693 da inchieste parlamentari risultò che le spese annue della Compagnia delle Indie orientali in prebende agli uomini al potere (che prima della rivoluzione di rado superarono le 1200£) erano a più di 90.000. Il duca di Leeds fu messo in stato di accusa per aver accettato 5000£, e lo stesso virtuoso sovrano fu riconosciuto colpevole di averne accettate 10.000. Oltre a tali forme dirette di corruzione, si eliminarono le compagnie rivali dando al governo prestiti enormi a interesse irrisorio e comprando i direttori di società concorrenti per togliersi dai piedi. Per conservare il potere acquisito con la corruzione la Compagnia delle Indie orientali fu costretta a corrompere ancora (come già fece la Banca d'Inghilterra). Ogni volta che il suo monopolio stava per scader poté ottenerne il rinnovo solo con nuovi prestiti e doni al governo.
Gli eventi della Guerra dei sette anni mutarono la Compagnia delle Indie orientali da potenza mercantile a potenza territoriale e militare. Furono allora gettate le basi dell'Impero britannico di Oriente. Le azioni della Compagnia delle Indie orientali salirono a 263£; i dividendi distribuiti al 12,5%. A questo punto apparse un nuovo nemico della Compagnia: non società rivali, bensì ministri rivali e concorrenti privati. Si dichiarò che i territori della Compagnia erano stati conquistati dalla flotta e dall'esercito inglese, e che niun suddito britannico poteva esercitare sovranità territoriali indipendenti dalla corona. I ministri e maggiorenti di allora chiesero la loro parte di «mirabili tesori» che si stimava arrecati dalle più recenti conquiste. La Compagnia si salvò col patto del 1767 accettando di versare allo Scacchiere 400.000£ ogni anno.
Ma anziché onorare i patti la Compagnia ebbe difficoltà finanziarie tali da chieder sussidi alle Camere anziché pagare il tributo al popolo inglese. Il risultato di ciò furono serie modifiche alla Carta4. Ma la nuova situazione non servì a migliorar gli affari e al contempo l'Inghilterra perse le colonie del Nordamerica, onde iniziò a sentir sempre più l'uopo di riconquistare altrove un impero coloniale. Nel 1783 l'illustre signor Fox credette giunto il momento di presentar alle Camere il famoso India Bill per abolire le Corti dei direttori e degli azionisti e affidare l'intero governo dell'India a sette commissari eletti dal Parlamento5. Il disegno di legge fu respinto grazie all'influenza esercitata sulla Camera dei Lord dal re folle (Giorgio III) e divenne un'arma per rovesciar il gabinetto di coalizione Fox e Lord North e metter il famoso Pitt a capo del governo. Costui nel 1784 fece votar una nuova legge che istituiva l'Ufficio di controllo, composto di sei membri del Consiglio privato6, col compito di «vagliar, sovrintender e controllar tutti gli atti, operazioni e affari comunque concernenti il governo civile o militare, o i redditi dei territori e possedimenti della Compagnia delle Indie orientali». A tal proposito, lo storico Mill scrive:
«Tale legge perseguiva due scopi: per evitare l'accusa dell'obiettivo recondito attribuito alla Legge Fox, era d'uopo che la parte essenziale del potere paresse lasciata in mano ai direttori; per gli interessi del governo era uopo che invero il potere fosse loro tolto. La legge del signor Pitt pretendeva di differenziarsi da quella del rivale che distruggeva il potere dei direttori, lasciando tale potere quasi intatto. Con la Legge Fox, i poteri dei ministri sarebbero stati detenuti apertamente; con la Legge Pitt, tali poteri erano detenuti proditoriamente e in segreto. Il Bill del signor Fox trasferiva il governo della Compagnia nelle mani di commissari di nomina parlamentare; il Bill del signor Pitt lo trasferì a commissari di nomina regia»7.
Gli anni 1783 e 1784 furono così i primi (finora gli unici) in cui la questione indiana diventò questione di governo. Passata la Legge Pitt, la Carta della Compagnia delle Indie orientali fu rinnovata e per 20 anni la questione dell'India fu negletta. Ma nel 1813 la guerra antigiacobina e nel 1833 il Reform Bill8 resero secondari tutti gli altri problemi politici. Così mai prima o dopo il 1784 la questione indiana assunse caratteri di una questione politica perché prima la Compagnia delle Indie orientali dovette anzitutto rafforzare la sua esistenza e importanza, e dopo l'oligarchia ne avocò tutti i poteri che poté senza assumere responsabilità; infine negli anni di rinnovo della Carta (1813 e 1833) il pubblico inglese era preso da altre questioni più importanti.
Guardiamo ora le cose da un secondo punto di vista.
La Compagnia delle Indie orientali iniziò dal creare filiali per i suoi agenti e depositi per le sue merci. Per proteggerli costruì tanti forti. Pur avendo dal 1689 l'idea di crearsi un dominio in India il cui gettito fiscale divenisse una sua fonte di reddito, fino al 1744 la Compagnia si era assicurata solo piccole e insignificanti teste di ponte intorno a Bombay, Madras e Calcutta. Le guerre poi scoppiate nel Carnatic, dopo alterne vicende, la resero la sovrana visuale di quella parte dell'India. Con la guerra del Bengala e le vittorie di Clive ottenne risultati ancor più sostanziali: l'occupazione del Bengala e del Bihar e dell'Orissa. Infine con la Quarta guerra anglo-mysore contro Tippu Sahib la Compagnia accrebbe assai il suo potere9 ed estese il sistema sussidiario10. Negli anni Dieci dell'800 fu raggiunta la prima frontiera utile: il deserto11. Solo allora l'Impero britannico in Oriente si installò nella regione asiatica che in ogni tempo è la sede del potere centrale in India. Ma il punto più vulnerabile da cui l'India era sempre stata invasa ogni volta che nuovi conquistatori espellevano gli antichi (la barriera della frontiera nord-occidentale) non era ancora in mano inglese. Fra il 1839 e il 1849, con le guerre contro i Sikh e gli afghani12, il dominio britannico prese definitivo possesso dei confini etnici, politici e strategici del subcontinente annettendo con la forza il Punjab e il Sindh, indispensabili per respingere ogni invasione dall'Asia centrale e per arginare l'avanzata russa verso la Persia. Nell'ultimo decennio al territorio dell'India britannica sono state aggiunte 167.000 miglia quadrate, con una popolazione di 8 572 630 anime. Tutti gli Stati indigeni all'interno erano ormai: circondati da possessi inglesi; sottoposti variamente alla sovranità inglese; isolati dalla costa (tranne il Gujrat e il Sind). Verso l'esterno l'India britannica era completa. E solo dal 1849 esiste un grande impero indobritannico unito.
Insomma: il governo inglese combatté per due secoli sotto il nome della Compagnia fino a raggiungere le frontiere naturali dell'India. Allora si capisce il perché della congiura del silenzio fra tutti i partiti (pure fra chi promise di gridare il proprio ipocrita pacifismo) finché non fosse conclusa la creazione dell'Impero di Oriente unito: per poter sottoporre l'impero alla loro filantropia acuta serviva prima conquistarlo. In quest'ottica si capisce perché quest'anno la questione indiana sia diversa dalle precedenti date di scadenza della Carta.
Guardiamo ora la cosa da un terzo punto di vista.
Capiremo ancor meglio le peculiarità della crisi nella legislazione sull'India ripercorrendo la storia del commercio indobritannico nelle sue varie fasi. Sotto il regno di Elisabetta, all'inizio delle sue attività, la Compagnia delle Indie orientali ottenne, per svolger con profitto il commercio con l'India, di poterci esportar 30.000£ all'anno in barre d'oro o d'argento o in moneta metallica estera. Ciò violò tutti i pregiudizi dell'epoca: a Thomas Mun (in: Una trattazione sul commercio dell'Inghilterra con l'India [1621]) toccò gettar le basi del «sistema mercantilistico» concedendo che: benché i metalli preziosi siano l'unica vera ricchezza di un Paese, si può consentirne senza rischi l'esportazione purché la bilancia dei pagamenti sia favorevole alla nazione esportatrice.
A tale scopo Mun sostenne che le merci importate dall'India erano da riesportar in altri Paesi dai quali si otteneva una massa di metalli preziosi superiore a quella ch'era stata necessaria al loro acquisto.
Nello stesso spirito sir Josiah Child scrisse: Trattato in cui si dimostra che il commercio con l'India orientale è il più nazionale di tutto il commercio estero13. Tosto i sostenitori della Compagnia si fecero più arditi ed in questa buffa storia indiana è una notevole curiosità che i monopolisti in India furono i primi predicatori del libero scambio in Inghilterra.
Dalla fine del ‘700 l'intervento delle Camere contro la Compagnia delle Indie orientali fu esatto quasi di continuo, non dal cesto mercantile bensì dal cesto industriale, sostenendo che l'importazione di cotonerie e seterie indiane rovinava i poveri fabbricanti britannici, opinione espressa da John Pollexfen in: L'inconsistenza industriale dell'Inghilterra e dell'India orientale (1697), titolo che un secolo e mezzo dopo sarà confermato in senso ben diverso. Con le ordinanze 11 e 12 (comma 10) di Guglielmo III si vietò di portare tessuti di seta e cotone, stampati o tinti, provenienti da India, Persia, Cina, e si comminò una multa di 200£ a chiunque li usasse o rivendesse. Analoghe leggi furono emanate sotto i tre re Giorgio per le ripetute proteste di quei fabbricanti inglesi che più tardi saranno tanto «illuminati». Così per quasi tutto il ‘700 i prodotti indiani furono importati in Inghilterra per esser rivenduti in Europa e fuori dal mercato inglese.
Oltre a tale intervento parlamentare contro la Compagnia delle Indie orientali, sollecitato dagli avidi industriali inglesi; in ogni anno di rinnovo della Carta i mercanti di Londra, Liverpool e Bristol cercarono di rompere il monopolio commerciale della Compagnia per partecipare a quel traffico, stimato una miniera d'oro. Esito di tali sforzi fu che la legge del 1773 prolungò la Carta fino al 1° marzo 1814 ma permise a privati cittadini britannici d'esportar in India e a dipendenti della Compagnia d'importar in Inghilterra quasi ogni tipo di beni. Ma tale concessione ai mercanti privati d'esportar in India fu sottoposta a condizioni vanificanti i suoi effetti. Infine nel 1813 la Compagnia non poté più resister alla pressione del commercio generale e (salvo il monopolio del commercio cinese) il traffico con le Indie britanniche si aprì a certe condizioni alla concorrenza privata14. Pure tali ultime restrizioni caddero al rinnovo della Carta nel 1833: fu vietata ogni attività commerciale alla Compagnia che perse il suo carattere mercantile e il privilegio di escludere sudditi inglesi dal territorio indiano.
Intanto il commercio con le Indie orientali aveva subìto profonde metamorfosi che mutarono posizione ai vari interessi britannici nei suoi confronti. In tutto il ‘700 i tesori affluiti dall'India in Inghilterra derivavano, nonché dal commercio (relativamente modesto), dallo sfruttamento diretto di quel Paese, estorcendo grandi fortune da spedir in Inghilterra15. Ma con l'apertura del commercio indiano all'iniziativa privata nel 1813, oltre a più che triplicare il commercio in breve tempo, mutò il carattere di tale commercio. Fino al 1813, l'India era stata un Paese perlopiù esportatore; ora diventò importatore, e così tosto che nel 1823 il cambio della rupia scese (dal solito 2 scellini e 6 pence) a 2 scellini. L'India, da tempo immemore grande centro di produzione cotoniera mondiale, si trovò sommersa da filati e tessuti di cotone britannici. Dopo che i suoi prodotti erano stati esclusi dall'Inghilterra (o ammessi solo alle condizioni più dure), le merci inglesi la invasero pagando dazi esigui o solo nominali causando la rovina dei tessuti indigeni un tempo così famosi. Nel 1780 prodotti finiti e semifiniti inglesi esportati in India raggiungevano solo 386.152£ e al contempo l'esportazione di metallo prezioso raggiunse 15.041£: poiché il valore complessivo delle esportazioni era 12.648.616£ allora il commercio con l'India rappresentava solo 1/32 dell'intero commercio estero britannico. Invece nel 1850 le esportazioni di Gran Bretagna e Irlanda in India raggiunsero un valore di 8.024.000£, di cui 5,22 milioni costituiti da soli cotonami: cioè più di 1/4 di tutte le esportazioni cotoniere e più di 1/8 delle esportazioni in genere. Ma l'industria cotoniera occupava un ottavo della popolazione britannica e valeva 1/12 di Pil. Dopo ogni crisi commerciale il traffico con l'India diveniva sempre più importante pei cotonieri britannici e il subcontinente indiano divenne il loro mercato più redditizio. Nella stessa misura in cui l'industria cotoniera diveniva vitale per l'intera struttura sociale britannica, l'India diveniva vitale per l'industria cotoniera inglese.
Finallora erano proceduti paralleli gli interessi della plutocrazia britannica (che mutò l'India in una sua proprietà terriera), dell'oligarchia (che la conquistò coi suoi eserciti) e dell'industriocrazia (che la sommerse di suoi prodotti). Ma se gli interessi industriali venivano a dipendere dal mercato indiano allora serviva loro crear in India nuove forze produttive dopo averne dissolto l'industria locale. Non si può continuare a invadere un Paese coi propri prodotti senza renderlo atto a fornire dei prodotti in cambio. Gli industriali capirono che il loro commercio declinava anziché svilupparsi. Nel quadriennio finito nel 1846 le esportazioni britanniche in India equivalsero a 261 milioni di rupie; nel quadriennio fino al 1850 scesero a 253 milioni, mentre le importazioni dall'India nei due periodi calavano da 274 a 254 milioni di rupie. Così si capì che in India era crollato al livello più basso il potere di consumo dei prodotti inglesi, che all'anno e a testa valeva circa 9 pence, contro i circa 14 scellini delle Indie occidentali, i 9 scellini e 3 pence del Cile, i 6 scellini e 5 pence del Brasile, i 6 scellini e 2 pence di Cuba, i 5 scellini e 7 pence del Perù e i 10 pence dell'America centrale. Poi ci fu nel 1850 il cattivo raccolto cotoniero statunitense che fece perdere £11 milioni ai produttori britannici, stufi di dipendere dall'America anziché trarre dall'India una massa bastevole di cotone grezzo. Inoltre capirono che ogni tentativo di investire capitali laggiù si scontrava con gli ostacoli e i cavilli delle autorità indiane. Così l'India divenne il campo di battaglia nel duello fra interessi industriali e interessi della plutocrazia e dell'oligarchia. Oggi, consci del loro crescente potere in Inghilterra, gli industriali chiedono di abolire tali interessi rivali in India, di distruggere tutto il vetusto sistema di governo indiano, di chiudere la Compagnia delle Indie orientali.
Passiamo ora al quarto punto di vista, l'ultimo da cui giudicare la questione indiana.
Dal 1784 le finanze indiane si son trovate sempre più in difficoltà. Oggi il debito nazionale ammonta a £50 milioni; al continuo calo delle fonti di entrata corrisponde un aumento delle spese difficilmente controbilanciabile dal precario dazio sull'oppio, passibile di estinzione se la Cina iniziasse a coltivare il papavero da sola.
La situazione è aggravata dalle spese esatte dall'inutile guerra birmana. Scrive Dickinson:
«Stando così le cose, se la perdita dell'impero indiano rovinerebbe l'Inghilterra, l'uopo di conservarlo ci sta rovinando le finanze»16.
Così ho provato che (per la prima volta dal 1783) la questione indiana è divenuta una questione della nazione e del governo britannici.
Karl Marx (New York Daily Tribune, 25 giugno 1853)
1. L'East India Company fu fondata nel 1600 con la denominazione “The Governor and Company of Merchants of London trading into che East Indies” e ricostituita nel 1612 come società per azioni. Sotto Carlo I e nei primi anni del protettorato cromwelliano, l'East India Company dovette sventare la minaccia della concorrenza privata finché raggiunse un assetto stabile quando i whig (inventori della Banca d'Inghilterra nel 1694) la usarono per legare con prestiti e donativi il governo alla loro politica. Sotto i regni di Guglielmo III e Anna i tory crearono una Compagnia rivale (e una banca: Land Bank), ma le due si fusero nel 1708 nella “United Company of Merchants of England trading to che East Indies”, divenuta nel 1711: English East India Company. In Capitale I, 24 si spiega il nesso fra l'inizio del grande commercio coloniale & il sistema del debito pubblico e delle banche di Stato (fonti di accumulazione primitiva del capitale). ↩
2. Perfino un campione liberale come Tocqueville caratterizza il regno di Luigi Filippo nei termini usati da Marx per i whig:
«Nel 1830 il trionfo della classe media era stato così definitivo e completo che tutti i poteri politici, tutte le franchigie, tutte le prerogative, tutto il governo si trovarono chiusi e come pigiati nei limiti stretti di questa sola classe, essendo tutto ciò che era inferiore ad essa escluso di diritto e tutto ciò che era stato al di sopra escluso di fatto. Così non solo fu la direttrice unica della società, ma ne divenne si può dire l’appaltatrice: occupò tutti i posti, anzi aumentò prodigiosamente il loro numero e si abituò a vivere del pubblico tesoro quanto della sua industria» [Ricordi]. ↩
3. William Cobbert (1763-1835) difese la tradizionale azienda artigiana e contadina e i costumi patriarcali erosi dall'industria meccanizzata. Marx lo cita spesso come testimone dei lutti dell'accumulazione primitiva in Inghilterra, senza negar l'ingenuità delle sue concezioni economiche e sociali e il fondo conservatore delle sue filippiche contro i «nababbi» della plutocrazia e del commercio. ↩
4. Nel 1772 i direttori denunziarono un deficit di £1,3 milioni e chiesero al premier inglese lord North un prestito urgente di 1 milione, aumentato l'anno dopo a 1 milione e mezzo, per coprirlo. Il prestito fu accordato per un totale di £1,4 milioni ma accompagnato da una revisione della Carta, specie in merito alle funzioni e alla durata in carica dei direttori e all'organizzazione territoriale dei possedimenti indiani.↩
5. Il disegno di legge proposto da Fox nel 1783 tentava di metter lo Stato al posto dei privati azionisti nell'esercizio del commercio con l'India e nell'amministrazione dei nuovi territori conquistati in India.↩
6. In realtà i consiglieri segreti dell'Ufficio di controllo erano quattro più il cancelliere dello Scacchiere e un ministro in carica.↩
7. James Mill: The History of British India, London 1858, vol. V, pp. 64-65.↩
8. Si allude agli strascichi della riforma elettorale varata nel 1832 su iniziativa di lord Grey e ai dibattiti intorno alla legge sulle fabbriche proposta da lord Ashley nel 1833, preludi all'era di riforme liberali in Inghilterra.↩
9. L'annessione del Carnatic fu completata nel 1801; l'occupazione del Bengala e del Bihar nel 1765; quella di Orissa nel 1803; lo smembramento del Mysore nel 1799. ↩
10. Subsidiary system: trattati secondo cui i prìncipi indiani dovevano mantenere le truppe indigene sotto il comando della Compagnia che stazionavano sui loro territori o pagare tributi.↩
11. L'occupazione definitiva della pianura gangetica a ovest del Thar in seguito alle ultime guerre coi maratha (1802-18) e alla guerra coi pindaridi.↩
12. Le guerre coi sikhs vanno dal 1842 al 1849. Il Sind fu annesso nel 1843. Con la prima guerra con gli afgani (dal 1838 al 1842) fu raggiunta e consolidata la frontiera nordoccidentale dell'India britannica.↩
13. Josiah Child [1630-1699]: mercante, più volte direttore della Compagnia delle Indie. «Josiah Child è il padre della stock jobbery (speculazione in borsa). Così, autocrate della Compagnia delle Indie Orientali, egli ne difese il monopolio in nome della libertà del commercio» [Capitale III, 36]. La teoria mercantilista è analizzata da Marx in Capitale IV.↩
14. Charter Act [1813]: prolungava per un ventennio alla Compagnia il possesso degli acquisti territoriali in India e il godimento dei relativi redditi «senza pregiudizio dell'indubitabile sovranità della corona [...] in essi e sopra di essi», dichiarava libero con qualche limitazione il commercio con l'India, e riconosceva alla Compagnia il solo monopolio del commercio con la Cina e dell’importazione del tè.↩
15. Lo «scandalo» di tali estorsioni segnò la vita parlamentare nell'ultimo trentennio del ‘700.
«La Compagnia delle Indie orientali britanniche ottenne, oltre al dominio politico sulla penisola, il monopolio assoluto del commercio del tè, del commercio con la Cina in generale e del trasporto di merci dall'Europa all'Asia e viceversa. Ma la navigazione costiera in India e interinsulare e gli scambi all'interno dell'India divennero monopolio dei funzionari alti della Compagnia. I monopoli di sale, oppio, betel e di altre merci erano inesauribili miniere di ricchezze. I funzionari stabilivano i prezzi e scorticavano a piacere gli infelici indù. A tale commercio privato partecipava il governatore generale, i cui favoriti ottenevano contratti a condizioni tali da crear l'oro dal nulla meglio degli alchimisti. Grandi patrimoni nacquero come funghi, l'accumulazione primitiva si compì senza l'anticipo di uno scellino. Il processo contro Warren Hastings brulica di simili episodi. Uno fra tanti. Un tale Sullivan stipula un contratto di fornitura d'oppio al momento di partire (per incarichi ufficiali) verso una parte dell'India lontana dai centri di produzione dell'oppio. Sullivan cede il suo contratto a un tale Binn per 40.000£; lo stesso giorno Binn lo rivendé per 60.000£ e l'ultimo acquirente che provvederà alla fornitura dichiara di aver ricavato comunque un guadagno enorme. Secondo una lista sottoposta al Parlamento, dal 1757 al 1766 la Compagnia e i suoi funzionari si fecero donare dagli indiani £6 milioni! Dal 1769 al 1770 gli inglesi fabbricarono una carestia comprando tutto il riso e rivendendolo solo a prezzi favolosi» [Capitale I, 24].
16. Da: India, its Government under a Bureaucracy (London 1852). John Dickinson [1815-76]: animatore della brightiana India Reform Association e autore nel 1853 di una serie di India Reform Tracts. La seconda guerra in Birmania [1852] aveva sì portato all'occupazione del distretto di Pegu, ma nel 1853 teneva ancora impegnate le forze britanniche in quel settore. ↩
Editoriale pubblicato senza data né titolo in: New York Daily Tribune, n° 5384, 24 luglio 1858.
Tradotto direttamente dalla versione in inglese presente sul MIA e trascritto da: Leonardo Maria Battisti, novembre 2018
Londra, 9 luglio 1858
L'ultimo India Bill1 è passato ai Comuni ed essendo improbabile che i Lord (dominati dall'influenza di Derby) lo ostacolino, il destino della Compagnia delle Indie orientali sembra finora segnato. Essa non muore da eroe, diciamolo. Ha ceduto il suo potere un pezzo alla volta, di nascosto come se ne era appropriato, al modo degli uomini d'affari. L'intera sua storia è una serie di compravendite: iniziò comprando sovranità e finisce vendendola. È caduta (non in battaglia campale ma al colpo di martello del banditore all'asta pubblica) nelle mani del miglior offerente. Nel 1693 ottenne dalla corona un privilegio valido ventun anni pagando grosse somme al duca di Leeds e ad altri pubblici ufficiali. Nel 1767 prolungò di due anni l'esercizio del suo potere promettendo di versare al tesoro britannico 400.000£ all'anno. Nel 1769 concluse un contratto analogo per cinque anni ma poco dopo, in cambio dell'abbuono da parte dello Scacchiere dell'annualità pattuita e un prestito di 1,4 milioni con interesse al 4%, alienò qualche pezzo di sovranità, lasciando al Parlamento la nomina in prima istanza del governatore generale e di quattro consiglieri, e cedendo affatto alla corona la nomina del lord Chief Justice e dei suoi tre giudici, e accettando di convertir la Corte dei proprietari da corpo democratico a corpo oligarchico. Nel 1858, dopo essersi impegnata verso la Corte dei proprietari ad opporsi con tutti i mezzi costituzionali al trasferimento alla corona britannica dei poteri direttivi della Compagnia delle Indie orientali, accetta quel principio e dà parere favorevole a una legge letale per la Compagnia ma assicurante emolumenti e incarichi ai suoi direttori. Se come dice Schiller la morte d'un eroe è come il tramonto del sole, l'exit della Compagnia delle Indie è più come un compromesso fra un fallito e i suoi creditori.
Il Bill affida i principali compiti di governo a un segretario di Stato assistito da un consiglio (proprio come un governatore generale assistito da un consiglio disbriga gli affari a Calcutta2). Ma ambi i funzionari (il segretario di Stato in Inghilterra e il governatore generale in India) sono autorizzati a rifiutar il parere dei loro consiglieri e a far come ritengono. Inoltre il segretario di Stato è investito di tutti i poteri finora esercitati dal presidente dell'Ufficio di controllo tramite il Comitato segreto: in particolare il potere di dar ordini all'India nei casi urgenti senza star a chiedere pareri al suo Consiglio. Ma per comporre tale consiglio si è stimato uopo ricorrere alla Compagnia delle Indie orientali come unica sorgente pratica di nomine oltre a quelle fatte dalla corona. Così i membri elettivi dell'India Council saranno scelti dai direttori dell'ex Compagnia fra loro stessi.
Così il nome della Compagnia delle Indie orientali britanniche sopravvive alla sua sostanza. All'ultima ora, il governo Derby ha ammesso che il suo Bill non ha alcuna clausola d'abolizione della Compagnia delle Indie orientali, in quanto rappresentata dalla Corte dei direttori3, bensì intende ridurla al suo carattere originario di Società di azionisti che distribuisce i dividendi garantiti dalle varie disposizioni di legge. La legge Pitt del 1784 aveva di fatto assoggettato il governo della Compagnia al potere del governo inglese mercé l'Ufficio di controllo4. Il Bill del 1813 le tolse il suo monopolio commerciale, tranne per gli scambi con la Cina. Il Bill del 1834 ne distrusse completamente il carattere mercantile. Il Bill del 1854 dissolse l'ultimo residuo di potere nelle sue mani benché restasse in possesso dell'amministrazione dell'India. Così per la rotazione della storia la Compagnia delle Indie orientali (mutata in società per azioni nel 1612) ora ritorna allo stato originario: solo che è una società commerciale senza commercio, e una società per azioni che non ha più fondi da amministrare bensì solo dividendi fissi da percepire.
La storia dell'India Bill è contrassegnata da mutamenti drammatici più numerosi di ogni altra legge uscita da un Parlamento moderno. Quando scoppiò la rivolta dei sepoys, il grido «Riforme in India!» si levò da tutte le classi della società britannica. La fantasia popolare fu eccitata dai rapporti sulla tortura; l'interferenza del governo nel culto dei nativi fu denunciata a gran voce da alti funzionari militari e civili in India; la rapace politica di annessioni seguita da lord Dalhousie (semplice strumento di Downing Street); il fermento suscitato in Asia dalle piratesche guerre in Persia e in Cina (guerre dichiarate e condotte per ordine personale di lord Palmerston); le deboli misure con cui si fronteggiò la rivolta usando per il trasporto velieri anziché piroscafi e la circumnavigazione del Capo di Buona Speranza anziché il passaggio dall'istmo di Suez; tutti tali lagnanze esplosero al grido «Riforme in India!»: riforma dell'amministrazione indiana della Compagnia, riforma della politica indiana del governo. Palmerston afferrò tale richiesta popolare ma per volgerla a suo esclusivo profitto. Avendo sia il governo sia la Compagnia miseramente fallito, si sarebbe sacrificata la Compagnia e reso onnipotente il governo. Si sarebbero trasferiti i poteri della Compagnia al dittatore del giorno che pretendesse di rappresentare la corona contro il Parlamento e il Parlamento contro la corona per assorbire nella sua persona i privilegi dell'una e dell'altro. Con l'esercito indiano alle spalle, col tesoro indiano in pugno, col controllo delle carriere nell'amministrazione indiana assicurato, la posizione di Palmerston sarebbe divenuta inespugnabile.
In effetti il suo disegno di legge passò trionfalmente ai Comuni in prima lettura, ma la sua carriera fu stroncata dal famoso Conspiracy Bill, e al potere salirono i tory5.
Il giorno stesso in cui riapparvero sui banchi del governo, i tory dichiararono che per rispettare la volontà sovrana dei Comuni avrebbero rinunciato ad opporsi al trasferimento del governo dell'India dalla Compagnia alla Corona. L'aborto legislativo di lord Ellenborough6 parve affrettare il ritorno di Palmerston, quando John Russell (per forzare il dittatore a un compromesso) intervenne e salvò il governo proponendo che l'India Bill non fosse approvato per decreto legge del governo ma per decisione delle Camere. Il successivo dispaccio di lord Ellenborough sul'Oudh, le sue precipitose dimissioni, e il disordine che ne seguì in campo governativo, furono prontamente sfruttate da Palmerston. Era tempo di ricacciare i tory nell'ombra fredda dell'opposizione, dopo che avevano impiegato la loro breve permanenza al governo per infrangere le resistenze del loro stesso partito alla confisca della Compagnia delle Indie orientali. Ma si sa come questi bei calcoli finirono in nulla: anziché risorgere dalle ceneri della Compagnia delle Indie orientali, Palmerston ne fu sepolto. Per tutto il dibattito sull'India, i Comuni parvero godere nell'umiliare il Civis Romanus7. Tutti i suoi emendamenti, grandi e piccoli, furono ignominiosamente battuti; le allusioni più sgradite (sulla guerra persiana, la guerra cinese) gli furono rovesciate addosso; e la clausola del signor Gladstone che toglieva al ministro dell'India il potere di avviare guerre oltre i confini indiani (interpretata come un voto generale di censura alla politica estera di Palmerston) passò con una maggioranza schiacciante (malgrado la furiosa resistenza di costui). Ma pur gettando l'uomo a mare, il principio in complesso ha vinto. Pur frenato dal diritto di veto dell'Ufficio di consiglio (che è lo spettro ben pagato dell'ex Corte dei direttori), il potere dell'esecutivo risulta così potenziato dalla formale annessione dell'India che per ristabilire l'equilibrio servirà gettare sulla bilancia parlamentare un contrappeso democratico8.
(New York Daily Tribune, 24 luglio 1858)
1. Il disegno di legge, ironicamente proposto da un governo tory presieduto da lord Derby, fu definitivamente approvato dalle Camere il 1858.08.02 come «Atto per il miglior governo dell’India». Esso sopprimeva la Compagnia delle Indie orientali, lasciandola sussistere solo nominalmente fino al 1874 (per la liquidazione delle sue pendenze finanziarie) e devolvendone alla corona le proprietà e le forze di terra e di mare, e istituiva un segretario di stato all'India assistito da un Consiglio di 15 membri, di cui 8 di nomina regia e 7 di nomina direttoriale. Il successivo «proclama solenne» (1° novembre 1858) emanato dal governatore generale, poi viceré lord Ch. J. Canning (1852-62), diede poi alla struttura politica dell'India la sistemazione resa definitiva dalla Legge 1861. ↩
2. L'Atto di regolarizzazione del 1773 aveva subordinato le presidenze di Madras e di Bombay a quella del Bengala, divenuta sede del Governor-General dell'India assistito dal suo Consiglio e direttamente dipendente da Londra. Il Bill del 1853 (proseguendo nell'opera di accentramento dell'amministrazione indiana sotto controllo governativo britannico) separò il Governatorato generale dal Governatorato provinciale del Bengala. Con l'annessione anche formale dell'India (1858) Calcutta divenne provvisoriamente sede del viceré inglese dell'India.↩
3. La Compagnia delle Indie orientali britanniche era tradizionalmente governata dalla Court of Proprietors (Corte dei proprietari, o assemblea degli azionisti) e dalla Court of Directors (Corte o Assemblea dei direttori). La corte dei direttori era composta di 24 membri eletti dagli azionisti fra i possessori di almeno duemila sterline di azioni della Compagnia e rieleggibili dopo il primo anno di carica. Nel corso degli anni la corte dei direttori aveva assunto una posizione sempre più indipendente dalla Corte dei proprietari, divenendo una specie di giunta di governo con poteri quasi illimitati. Il Bill del 1853 ridusse il numero dei direttori a 18 e stabilì che 6 di questi fossero eletti dalla corona, altro passo verso la liquidazione della Compagnia e il passaggio del governo dell'India alle dipendenze dirette di Londra. ↩
4. Nel 1784 il governo britannico assunse la sovrintendenza della Compagnia delle Indie orientali creando un Board of Control (Ufficio di controllo) con sede a Londra formato da sei membri: 4 consiglieri privati di nomina regia; il cancelliere dello Scacchiere; uno dei ministri in carica. Così nacque il doppio governo dell'India: la Compagnia e il governo metropolitano (che andò esautorando la prima).↩
5. Palmerston, primo ministro in carica allo scoppio della rivolta, unì alla brutalità della repressione le blandizie del riformismo, cercando così di rafforzare quella che Marx chiama più la sua «dittatura». Dopo il voto contrario delle Camere al suo disegno di legge contro i cospiratori politici in Inghilterra, fu sostituito da un governo tory (1858) che ne adottò la politica fino a cadere nel giugno 1859, facendolo ritornare.↩
6. Ellenborough, da presidente dell'Ufficio di controllo reagì agli abusi di autorità del governatore generale Canning dissolidarizzando pubblicamente dalla sua politica soprattutto e (dopo la presa di Lucknow nel maggio 1858) confiscando tutte le proprietà terriere nell'Oudh per devolverle alla corona di Inghilterra. L'esercito tolse agli indigeni sola la proprietà personale; il governo britannico gli tolse i beni immobili. Infatti la confisca delle terre completò l'annessione del regno dell'Oudh. Il governo tory che nominò Ellenborough lo destituì e eliminò i provvedimenti contro gli eccessi del governo metropolitano a danno dei nativi.↩
7. Nel gennaio 1850 Palmerston ordinò il blocco navale del Pireo per ottener le riparazioni per danni subìti chieste da David Pacifico al governo di Atene che cedette in aprile, minacciato dalle cannoniere. Al che Palmerston pronunziò l'orgoglioso discorso del «Civis Romanus sum», rivolto non tanto alla Grecia, quanto alla Russia e alla Francia operanti nel Levante. ↩
8. Il contrappeso democratico sarà gettato nel 1859, ma a favore di lord Palmerston, impegnato nella seconda e nella terza Guerra dell'oppio. Ironicamente Gladstone farà parte del suo governo.↩
Ultima modifica 2019.05.02