Pubblicato in: New York Daily Tribune, 16 settembre 1857.
La rivolta dei sepoys (truppe indigene comandate dagli inglesi) iniziò ad aprile a Meerut col rifiuto della guarnigione d'unger col grasso di vacca (l'animale sacro degli induisti) le cartucce del nuovo fucile modello Enfield; ma fu l'esito d'una serie di minori atti di insubordinazione causati dal profondo malcontento appo le classi superiori indiane per la politica d'annessione degli Stati indigeni (Oudh, 1856), per l'uso di truppe indigene in guerre estere e per l'accerchiamento e la spoliazione degli ultimi principati semi indipendenti. Il 16 maggio i sepoys occuparono Delhi proclamandovi restaurato l'impero dei Mogol: ben presto tutta l'India fu in fiamme, e gli inglesi poterono riconquistar i centri principali della rivolta solo in novembre e nel marzo successivo mercé le gelosie fra i potentati e l'appoggio del rajah dei mahratta, ma la liquidazione degli ultimi focolai di resistenza si protrasse fino a tutto il 1859. La rivolta, sanguinosissima e conclusa da una spietata repressione, fornì l'atteso pretesto per l'annessione pure formale dell'India britannica (1° novembre 1858). Sull'atrocità Engels ha scritto Il sacco di Lucknow (N.Y.D.T., 25 maggio 1858). In tutta la serie degli scritti sul 1857-58 indiano, Marx non cela la brutalità della rivolta né la sua natura conservatrice e tradizionalista, ma attribuisce la prima alla rapacità e la violenza della colonizzazione britannica e la seconda al favoreggiamento delle classi superiori dell'India feudale a opera della borghesia inglese, nonché dissolve implacabile le giustificazioni addotte da quest'ultima e espone gli arbitrii da essa perpetrati durante e dopo l'ammutinamento sotto il manto della giustizia e della riforma.
Tradotto direttamente dalla versione in inglese presente sul MIA e trascritto da: Leonardo Maria Battisti, aprile 2018
Londra, 4 settembre 1857
Le violenze commesse dai Sepoys in India sono invero atroci, mostruose, indicibili come ci si aspetta di trovarne solo in guerre insurrezionali, di nazionalità, di razza, e soprattutto di religione. Insomma sono come quelle che un inglese per bene soleva plaudir allorché commesse dai Vandeani sui Bleus1, dai guerriglieri spagnoli sugli infedeli francesi, dai serbi sui vicini tedeschi e ungheresi, dai croati sui ribelli viennesi, la Garde Mobile di Cavaignac e i Décembristes di Luigi Bonaparte sui figli e le figlie della Francia proletaria. Benché infame, la condotta dei Sepoys è che il riflesso, in forma concentrata, della stessa condotta degli inglesi in India, nonché durante il periodo di fondazione del loro impero orientale, durante l'ultimo decennio di dominio consolidato, caratterizzabile dicendo solo che la tortura formava un istituto organico della politica finanziaria del governo2. C'è nella storia umana un che di simile alla legge di compensazione di cui un passo è che il suo strumento sia forgiato non dagli oppressi, ma dagli oppressori.
Il primo colpo alla monarchia francese venne dai nobili, non dai contadini. La rivolta indiana non inizia coi ryot torturati, insultati e denudati dagli inglesi, ma dai Sepoys ch'essi avevano vestito, nutrito, adulato, pasciuto e corteggiato. Per trovar paragoni alle atrocità dei ribelli non serve risalir al Medioevo come dice la stampa londinese, né uscir dalla storia dell'Inghilterra contemporanea. Basta studiare la prima Guerra dell'oppio: un evento di ieri, per così dire. Allora la soldatesca britannica commise orrori per il solo gusto di commetterli, non essendo le sue passioni santificate dal fanatismo religioso, né esacerbate dall'odio per una tracotante razza conquistatrice, né alimentate dall'estrema resistenza di un nemico eroico. Lo stupro, l'uccisione a fil di spada dei bambini, il rogo dei villaggi, furono allora sollazzi gratuiti, narrati dagli stessi ufficiali e funzionari inglesi, non dai mandarini.
Pure nella catastrofe presente sarebbe un errore imperdonabile dar ai Sepoys il monopolio della crudeltà e alla parte avversa quello della carità. Le lettere degli ufficiali inglesi trasudano malvagità. Scrivendo da Peshawar, narrando il disarmo del 10° cavalleria irregolare (rea di non aver caricato la 55ª fanteria indigena come ordinatogli) un ufficiale esulta perché, nonché disarmati, gli uomini sono stati privati dei vestiti e delle scarpe e, ricevuti 12 scellini a testa, spinti in colonna alla riva del fiume, imbarcati e spediti alle foci dell'Indo, nelle cui rapide ogni figlio di donna potrebbe annegare, come allo scrittore piace immaginare. Un altro informa che alcuni abitanti di Peshawar, rei di procurato allarme notturno avendo fatto esploder delle cartucce per uno sposalizio (un costume nazionale), l'indomani furono legati e «ricevettero un'indimenticabile dose di nerbate». Giunta notizia da Pindee che tre capi indigeni stessero complottando, Sir John Lawrence3 reagì ordinando a una spia di sorvegliarli e in base al suo rapporto scritto spedì un semplice messaggio: «Impiccateli». I tre furono impiccati. Un funzionario dell'amministrazione civile scrive da Allahabad: «Abbiamo potere di vita e di morte e vi assicuriamo che non lo lesiniamo». Un altro dalla stessa città: «Non passa giorno senza che ne infilziamo da dieci a quindici [di non combattenti]». Un ufficiale scrive esultando: «Holmes li impicca 20 per volta come un mazzo». Un altro, alludendo all'esecuzione sommaria di parecchi indigeni: «Allora sì che inizia lo spasso!». E un terzo: «La corte marziale sta nella nostra sella: infilziamo o fuciliamo ogni negro che incontriamo». Da Benares risulta che trenta zâmindâr furono impiccati per il vago sospetto di simpatie per i connazionali e interi villaggi furono inceneriti per lo stesso capo di accusa. Sempre da Benares, in lettera pubblicata dal Times, un ufficiale scrive: «Posti dinanzi agli indigeni, i soldati europei divengono in demoni».
Inoltre non va scordato che le atrocità degli inglesi sono pubblicizzate come atti di vigor marziale (descritti semplicemente, rapidamente, negligendo particolari disgustosi) mentre le indubbie atrocità dei ribelli sono esagerate apposta. Es. Chi ha fatto il racconto circostanziato delle atrocità commesse a Delhi e a Meerut, apparso prima sul Times e poi diffuso da tutta la stampa londinese? Un parroco codardo residente a Bangalore, Mysore, cioè a più di mille miglia in linea d'aria dal teatro dell'azione. I resoconti ufficiali trasmessi da Delhi provano che un parroco anglicano può immaginar orrori inimmaginabili per un indù ribelle. Invero pella sensibilità europea le orribili mutilazioni inflitte dai Sepoys (il taglio di nasi, seni etc.) sono peggio del lancio di palle infocate sulle case di Canton a opera di un segretario della manchesteriana Società della pace4 o il rogo di arabi stipati in caverne per ordine di un maresciallo francese5, o il gatto dalle sette code che scortica vivi i soldati britannici giudicati per direttissima da corti marziali, o qualsiasi altro arnese filantropico usato nei penitenziari britannici. La crudeltà come tutte le cose ha le sue mode diverse a seconda del tempo e del luogo. Cesare, il raffinato uomo di cultura, narra candidamente di aver dato ordine di tagliar la mano destra a molte migliaia di guerrieri galli. Napoleone ne sarebbe arrossito: preferiva inviar reggimenti sospetti di simpatie repubblicane a Santo Domingo, a morir di peste o per mano di negri.
Le orrende mutilazioni dei Sepoys ricordano una delle tante pratiche del cristiano impero bizantino, o gli articoli del codice penale di Carlo V, o le pene inglesi per alto tradimento descritte dal giudice Blackstone6. Agli indù, resi dalla religione virtuosi nell'arte di torturare sé stessi, tali torture inflitte a nemici della loro razza e della loro fede appaiono naturali come dovevano apparir agli inglesi che in anni recenti solevano fare profitti dalle cerimonie nel tempio di Jaggernaut, proteggendo e favorendo i riti sanguinari d'una religione crudele.
Le urla frenetiche del «bloody old Times7» (così chiamato da Cobbett), il suo recitar la parte del personaggio collerico del Ratto dal Serraglio di Mozart (che nel finale si scioglie nella più melodiosa aria di Osmino all'idea d'impiccare il nemico, poi arrostirlo, poi squartarlo e metterlo allo spiedo e infine scuoiarlo vivo; quel ridurre la passione della vendetta in cenci e brandelli), tutto ciò apparirebbe stupido senza veder dietro il pathos della tragedia i trucchi della commedia. Caricando la sua parte, il Times, nonché terrorizzar, dà alla commedia un personaggio ignoto pure a Molière: il Tartufo della vendetta. Il suo scopo è solo giustificar le spese in bilancio e coprir il governo: poiché Delhi non è caduta al primo soffio di vento come le mura di Gerico, John Bull deve esser sommerso di grida di vendetta fino alle orecchie, per scordarsi che il suo governo è responsabile del male causato e delle dimensioni colossali che gli si è lasciato prendere.
1. Bleus: soldati dell'esercito repubblicano fedele alla Convenzione e al Comitato di salute pubblica (il nome vale per tutti i partigiani del Comitato). In Vandea ci fu una rivolta regalista.
La Guardia mobile di Cavaignac fece spedizioni punitive nel 1848-49 e gli uomini della Società del 10 dicembre (la personale milizia di partito di Luigi Napoleone) nel 1850-52.
Durante il 1848-49 austriaco i rancori nazionali dei serbi e dei croati furono sfruttati contro i rivoluzionari di Vienna e di Budapest.
↩
2. In un articolo pubblicato il 17 settembre 1857 nel N.Y.D.T., Marx riproduce le testimonianze dei Libri Azzurri inglesi 1856 e 1857 e dello stesso lord Dalhousie sull'uso vigente della tortura in India per far pagar le imposte: «Se gli inglesi sono capaci di simili cose fatte a sangue freddo, come stupirsi che gli indù, nella furia della rivolta, si rendano colpevoli dei delitti e delle crudeltà loro attribuiti?».↩
3. Sir John Lawrence [1811-79]: alto funzionario in India, governatore del Punjab dal 1853 al 1857, governatore generale dell’India dal 1863 al 1869, soffocò con energia implacabile la rivolta dei sepoys.↩
4. Sir John Bowring [1792-1872]: accanito liberoscambista che Marx ricorda nel Discorso sul libero scambio che andasse predicando nei comizi: «Gesù Cristo è il free trade; il free trade è Gesù Cristo». Nominato console a Canton nel 1849 e più tardi plenipotenziario, governatore e comandante della piazza di Hong Kong, era divenuto uno dei più accesi difensori degli interessi inglesi in Estremo Oriente, confermando l'esito previsto da Marx del liberoscambismo e della sua dottrina sull'armonia fra gli Stati, come fra le classi, derivante dalla libertà di commercio: «Tutti i fenomeni distruttivi che la concorrenza fa nascere all'interno di un Paese si riproducono in proporzioni più gigantesche sul mercato dell'universo». Bowring era stato anche segretario della «Peace Society»; ma nelle sue postume Autobiographical Reflections [1877], p. 217, si legge: «Nessuno è stato più di me un ardente pacifista... Ma, con nazioni barbare e, ahimè, talvolta anche con nazioni civili, le parole di pace son buttate al vento». Come plenipotenziario britannico in Cina a Bowring succedé James Bruce VIII conte di Elgin [1811-63]: artefice del Trattato di Tientsin 1858, il corso della terza Guerra dell'oppio, e l'incendio del Palazzo d'Estate a Pechino nel 1860. ↩
5. Con questi e altri mezzi il generale Aimable Jean Jacques Pélissier [1794-1864] represse l'insurrezione algerina del 1845: sette anni dopo sottomise il sud dell'Algeria, e dal 1860 alla morte tenne il governatorato della colonia.↩
6. Sir William Blackstone [1723-80]: giurista e storico del diritto inglese, noto soprattutto pei suoi Commentaries on the Laws of England e come promotore d'una prima riforma del sistema penale britannico.↩
7. Bloody old Times (dannato vecchio Times) è un doppio senso: bloody significa letteralmente «sanguinario».↩
Ultima modifica 2019.05.02