[indice de " La difficile questione dei tempi "]
capitolo terzo
I tempi dello sviluppo capitalistico
I tempi di Trotsky
I tempi lunghi dell'imperialismo
I tempi fra le due guerre
I tempi di Bordiga
I tempi del dopoguerra
I tempi della mitica scadenza
I tempi degli anni cinquanta
Il lungo sviluppo capitalistico
Il lungo sviluppo capitalistico dei primi decenni
Il lungo sviluppo capitalistico nella grande crisi
Il lungo sviluppo capitalistico nella prospettiva storica
I tempi dello sviluppo capitalistico
La riproduzione del capitale sociale è il fondamento dello sviluppo capitalistico e dei rapporti tra le classi. Riproduzione del capitale sociale significa riproduzione della classe che detiene i mezzi di produzione e della classe che detiene la forza-lavoro.
Alla concezione del romanticismo economico, che sopravvive nel soggettivismo incapace di analizzare il processo del capitale sociale, si può ripetere l'osservazione che Lenin rivolge a Sismondi e al populismo russo:
"Non urlate tanto sul cinismo ! Il cinismo non sta nelle parole che descrivono la realtà, ma nella realtà stessa !".
Sismondi ha attaccato Ricardo perché aveva dichiarato:
"che per la "società" è importante soltanto il reddito netto, cioè la grandezza del profitto. Ma Ricardo diceva la pura verità: inn effetti le cose stanno in questi termini".
Lenin dà la seguente definizione:
"Il reddito complessivo della società consta del salario + il profitto + la rendita. Il reddito netto è il plusvalore" e cita "Il Capitale", III:
"Se si considera il reddito di tutta la società, il reddito nazionale è costituito dal salario più il profitto, più la rendita, ossia il reddito complessivo. Ma questa concezione è soltanto un'astrazione, nel senso che tutta la società fondata sulla produzione capitalistica, assume un punto di vista capitalistico e considera come reddito netto solo il reddito composto dal profitto e dalla rendita".
E commenta:
"L'autore accetta quindi pienamente Ricardo e la sua definizione di "reddito netto" della "società" nonché la stessa definizione che ha provocato la "celebre obiezione" di Sismondi ... "Come? La ricchezza è tutto e gli uomini nulla? (II, p. 331). Nella società moderna è proprio così".
Se il processo di riproduzione del capitale complessivo sociale è, per Marx, la riproduzione del capitale, la questione dei tempi è, in sostanza e in questo senso, il tempo della riproduzione del capitale complessivo sociale.
Separare produzione e distribuzione, non tanto come aspetti di svolgimento del ciclo quanto come condizioni permanenti del mondo capitalistico di produzione, significa impedire la possibilità oggettiva di una analisi scientifica dei tempi del processo di produzione del capitale complessivo sociale. Significa porre la questione dei tempi in termini soggettivistici che rendono impossibile una corretta strategia rivoluzionaria.
Alla fine del 1910 Lenin fa una importante considerazione in uno scritto dedicato alla "Struttura capitalistica dell'agricoltura moderna" e pubblicato nel 1932 per la prima volta:
"La statistica sociale in generale, e quella economica in particolare, hanno fatto molti progressi negli ultimi venti-trent'anni. Parecchi problemi, e inoltre i più importanti, concernenti la struttura economica degli Stati moderni e il suo sviluppo, che venivano risolti in base a considerazioni generali e a dati approssimativi, non possono oggi essere elaborati più o meno seriamente senza tener conto dei dati massicci raccolti in tutto il territorio di un determinato paese secondo un programma ben definito e compendiati da statistici specializzati".
Lenin utilizza abbondantemente, rielaborandola in altri casi, la statistica sociale ed economica che è andata progredendo con lo sviluppo del capitalismo e la centralizzazione del capitale seguita dalla concentrazione dei mezzi di produzione; la utilizza a partire dal dibattito sulla "questione dei mercati" per giungere alla questione agraria, agli scioperi, all'imperialismo. In questo modo risolve parecchi problemi non più "in base a considerazioni generali e a dati approssimativi" bensì in base ad una quantificazione dei fenomeni che precisa il movimento delle tendenze generali di sviluppo e, soprattutto, permette una più rigorosa verifica della loro velocità, accelerazione o rallentamento.
E' un utilizzo di strumenti tecnici dei quali solo parzialmente potevano disporre Marx ed Engels se è vero, come è vero, quello che dice Lenin e cioè che solo a cavallo del secolo la statistica sociale e la statistica economica hanno fatto molti progressi.
Di ciò bisogna tener conto quando si analizza il pensiero di Marx e di Engels sullo sviluppo del mercato mondiale.
Tale avvertenza è ancora più valida oggi per cui si può ripetere, con Lenin, a distanza di settanta anni, che parecchi problemi non possono essere elaborati più o meno seriamente senza tener conto dei dati statistici accumulati in proporzioni sempre più vaste.
A questo punto diventa sempre più necessario un prefezionamento degli strumenti tecnici a disposizione della teoria marxista, in modo che l'analisi delle tendenze di sviluppo non debba essere ricavata da considerazioni generali e da dati approssimativi, come in altri momenti storici poteva essere confrontata, rafforzata e, infine, verificata, in base a quantificazioni e grandezze sempre più precise.
"Nella nostra epoca travagliata le previsioni che si realizzano sono il più delle volte quelle inverosimili", dice Trotskiy. E' vero ma non nel senso che lui intende.
I travagliati anni '30 si concludevano con l'inizio della seconda guerra mondiale imperialista. La previsione realizzata non era quella inverosimile; la crisi del capitalismo sfociava nella guerra come previsto linearmente da Lenin e dallo stesso Trotsky. Anche le inevitabili imprecisioni non furono maggiori di quelle riscontrate, in precedenti occasioni, nel pensiero di Marx, Engels, Lenin. Anzi, su questo particolare aspetto l'analisi di Trotsky è esemplare ed è ormai parte integrante ed insostituibile del prezioso patrimonio della scuola marxista.
L'errore di fondo è, invece, nella analisi delle grandi linee di sviluppo del capitalismo mondiale ed è qui che la previsione realizzata era proprio quella che sembrava inverosimile al movimento rivoluzionario dell'epoca. La seconda guerra mondiale non segnava il declino dell'imperialismo ma un nuovo balzo impetuoso e contraddittorio della sua espansione mondiale. La stessa analisi della crisi degli anni '30, isolata dall'analisi delle grandi linee di sviluppo del capitalismo nel tempo lungo secolare, aveva finito con l'aggravare l'incapacità di cogliere la "previsione inverosimile".
Posta fuori dalle coordinate storiche, la questione dei tempi si trovava inevitabilmente, prigioniera di false alternative.
Lev Trotsky, di fronte alla seconda guerra mondiale imperialista, pone una falsa alternativa quando, ne "L'URSS in guerra" del 25 settembre 1939, scrive:
"Se si ammette, invece, che l'attuale guerra non provochi una rivoluzione, ma un declino del proletariato, allora ci sarebbe un'altra alternativa: l'ulteriore decadimento del capitalismo monopolistico, la sua ulteriore fusione con lo Stato e la sostituzione della democrazia - dove ancora è sopravvissuta - con un regime totalitario.
L'incapacità del proletariato a prendere nelle sue mani la direzione della società potrebbe condurre attualmente, in tali condizioni, allo sviluppo di una nuova classe sfruttatrice dalla burocrazia fascista bonapartista.
Secondo tutte le indicazioni, questo sarebbe un regime di declino, che segnerebbe un'eclissi della civiltà".
Trotsky, come si vede, pone in alternativa alla rivoluzione proletaria internazionale un ulteriore decadimento del capitalismo monopolistico. Non ponendosi il problema dei tempi della diffusione del capitalismo su scala mondiale, giunge a conclusioni sulla evoluzione delle forme politiche estranee alla concezione materialistica della politica.
L'arbitrarietà soggettivistica risalta dal passo seguente:
"La seconda guerra imperialista pone i compiti non risolti a un livello storico più elevato. La guerra mette alla prova non solo la stabilità dei regimi esistenti, ma anche la capacità del proletariato a sostituirli. I risultati di questa prova avranno indubbiamente un significato decisivo per la nostra valutazione dell'epoca moderna come epoca della rivoluzione proletaria".
In sostanza, per Trotsky la valutazione dell'epoca della rivoluzione proletaria dipende dalla capacità soggettiva del proletariato:
"Se, contro tutte le probabilità, la rivoluzione d'ottobre, durante la guerra attuale e subito dopo, non riesce a estendersi a qualche paese avanzato; e se, al contrario, il proletariato è ributtato indietro su tutti i fronti - allora dovremo indubbiamente porci la questione della revisione della nostra concezione dell'epoca presente e delle forze motrici di quest'epoca.
In tal caso non si tratterà di appiccicare un'etichetta all'URSS o alla cricca staliniana, ma di riesaminare la prospettiva storica mondiale per i prossimi decenni, se non per i prossimi secoli: "siamo entrati nella fase della rivoluzione sociale e della società socialista o al contrario in una fase di una società declinante di burocrazia totalitaria?".
Ancora una volta la tesi del capitalismo declinante conduce Trotsky a non vedere le basi oggettive della strategia rivoluzionaria di lungo periodo.
Eppure, ad un certo punto, una sua osservazione sulla questione dei tempi dovrebbe aiutarlo:
"Un quarto di secolo si è rivelato un lasso di tempo troppo breve per il riarmo rivoluzionario dell'avanguardia proletaria mondiale e troppo lungo per conservare intatto il sistema sovietico in un paese arretrato in condizioni di isolamento. L'umanità sta ora pagando per questo il prezzo di una nuova guerra imperialista; ma il compito fondamentale della nostra epoca non è mutato per la semplice ragione che non è stato assolto. Una gigantesca eredità dell'ultimo quarto di secolo e un inestimabile pegno per il futuro sono costituiti dal fatto che uno dei distaccamenti del proletariato mondiale è stato capace di dimostrare nell'azione come il compito debba essere assolto".
Ben detto: un quarto di secolo, spesso, è un lasso di tempo troppo breve per attrezzare il movimento rivoluzionario mondiale. A maggior ragione lo è per un giudizio definitivo sui compiti storici di una classe.
Le ipotesi di Trotsky non potevano che essere ipotesi senza fondamento. Erano, però, la dimostrazione di quanto possa influire negativamente la mancanza di una analisi scientifica del ciclo mondiale del capitalismo. Ma nel grande rivoluzionario Lev Trotsky le risorse erano infinite.
Prima di morire sotto i colpi della controrivoluzione staliniana riesce, il 14 febbraio del 1940, a proiettarsi nel tempo lungo che lo collega ai nostri compiti:
"L'alternativa posta dall'attuale guerra è se l'economia mondiale sarà ricostruita sulla base di una pianificazione o se il primo tentativo in questo senso sarà soffocato in una convulsione sanguinosa e l'imperialismo potrà godere di una nuova proroga sino alla terza guerra mondiale che potrebbe diventare la tomba della civiltà"
I tempi lunghi dell'imperialismo
Alla proiezione nel tempo lungo fa ostacolo, nello scritto del 25 settembre 1939, proprio ciò che sembrerebbe facilitarla: lo sviluppo delle forze produttive nell'area slava. Trotsky ritiene che:
"la seconda guerra mondiale è cominciata. Ciò dimostra in maniera incontrovertibile che la società non può vivere più a lungo sulla base del capitalismo. Così sottopone il proletariato ad una nuova prova, forse decisiva.
Se la guerra provoca, come noi crediamo fermamente, una rivoluzione proletaria, porterà inevitabilmente al rovesciamento della burocrazia nell'URSS e al ritorno della democrazia sovietica su di una base economica e culturale assai più elevata che nel 1918. In questo caso la questione se la burocrazia staliniana fosse una "classe" o una escrescenza di uno Stato operaio, sarà risolta automaticamente. Ad ognuno sarà chiaro che nel processo di sviluppo della rivoluzione mondiale la burocrazia sovietica è stata solo un'episodica ricaduta".
L'internazionalista Trotsky rimane prigioniero di una visione parziale del mercato mondiale. La crisi degli anni '30, che produce la guerra imperialista alla quale affida il ruolo di sottoporre il proletariato ad una nuova prova rivoluzionaria, ha investito le metropoli occidentali ma non tutto il mondo. Il modo capitalistico di produzione, nella forma di capitalismo statale, si è contemporaneamente diffuso a forte ritmo nell'area slava. Non è una questione che riguardi solo la definizione della burocrazia russa; è una questione che riguarda, invece, l'analisi dello sviluppo delle forze produttive mondiali.
Quantitativamente le forze produttive del capitalismo sono aumentate, malgrado le crisi in Occidente, con l'apporto di una quota addizionale di mezzi di produzione nell'area slava e, in generale, asiatica.
Qualitativamente questa quota addizionale di capitale è matura per un balzo imperialistico. Il capitalismo statale russo è divenuto ormai, con il suo rapido ritmo di sviluppo in contrasto con il calo dello sviluppo del capitalismo occidentale, uno dei fattori che concorrono a fare precipitare nella guerra generale le contraddizioni dell'imperialismo.
La dinamica del sistema mondiale non segue i tempi della disputa ideologica sulla definizione delle "sostanze infiammabili" che si sono aggiunte nella miscela esplosiva. Le trascina nel vortice della deflagrazione mondiale. Al fuoco della guerra, il capitalismo statale russo matura in imperialismo e partecipa alla nuova ripartizione guidata dall'imperialismo americano dominante, derivata dalla sconfitta degli imperialisti giapponesi, tedeschi, italiani e dall'indebolimento di quelli inglesi e francesi.
Il proletariato internazionale, messo alla prova, si trova di fronte ad un'imperialismo mondiale rafforzato dalla potenza russa che compensa il vuoto delle potenze sconfitte e agisce, di conseguenza, nell'impedire che la guerra si trasformi in rivoluzione come era accaduto nel 1917. Lo stalinismo da forza nazionale si è ormai trasformato in forza internazionale controrivoluzionaria.
I tempi lunghi dell'imperailismo hanno risolto nel loro implacabile procedere, la "questione russa".
I tempi della realtà hanno una logica che, spesso, non è quella dei tempi del pensiero. Una questione specifica, come quella russa, non poteva essere congelata in un limbo storico.
I tempi della guerra mondiale e della rivoluzione proletaria internazionale dovevano invece essere, per Trotsky, anche i tempi della soluzione della "questione russa" e della "natura sociale" dell'URSS.
Gli scritti del 1939 e del 1940 si collegano, per questo particolare aspetto, al dibattito del 1926 richiamato da Amadeo Bordiga. La "questione dei tempi", mancando di una corretta analisi dello sviluppo capitalistico di lungo periodo, alimenta la oscillazione nella previsione di un futuro che non vede la rivoluzione proletaria: "società declinante di burocrazia totalitaria" o "proroga sino alla terza guerra mondiale" per l'imperialismo?
Le forze in campo che determinano la seconda guerra portano già in grembo la "proroga sino alla terza guerra mondiale" perché sono le forze che hanno superato la ripartizione di Versailles e che preparano la ripartizione di Yalta.
L'ineguale sviluppo del capitalismo, che si accentua tra le guerre, provoca un conflitto proporzionalmente superiore a quello precedente e ne prepara un altro nella stessa progressione di proporzioni sviluppate. Solo un "totalitarismo declinante" a sviluppo equilibrato potrebbe placare tale ascesa distruttiva di forze produttive accresciute in una società dove la classe dominata lo sarebbe per tempo indefinito.
Preguerra, guerra e dopoguerra sono, invece, anello di una catena ininterotta di ineguale sviluppo capitalistico. Quindi, anche di ineguale sviluppo capitalistico. Quindi, anche di ineguale sviluppo del proletariato.
Nello scritto "Ripiegamento e tramonto della rivoluzione bolscevica" del 1956, Bordiga dice:
"Non è grave che il rivoluzionario veda la rivoluzione più prossima di quello che è: la nostra scuola la ha già tante volte attesa: 1848, 1870, 1919. Visioni deformate la hanno aspettata nel 1945.
Grave è quando il rivoluzionario mette un termine per ottenerne la prova storica: mai l'opportunismo ha avuto altra origine, mai ha altrimenti condotto le sue campagne di sofisticazione, di cui quella del socialismo in Russia è la più velenosa".
E' vero: non è grave che il rivoluzionario anticipi, è solo un errore.
Se errore, per un rivoluzionario, mettere un termine per ottenere la prova storica dei cicli politici delle lotte delle classi, errore ancora più grave è prefissarne la durata dei tempi lunghi dello sviluppo capitalistico che determina i cicli economici e i cicli politici della produzione e della distribuzione.
Lo sviluppo ineguale del capitalismo è alla base della maturità imperialistica di intere sezioni dell'economia mondiale le quali raggiungono un grado talmente elevato di centralizzazione del capitale e di concentrazione dei mezzi di produzione da generare un eccedenza di capitale mentre altre sezioni sono ad un grado arretrato nel processo di accumulazione ed hanno carenza di capitali.
Nella sua analisi dell'imperialismo Lenin, durante la prima guerra mondiale, scoprì che la legge dell'ineguale sviluppo capitalistico avrebbe portato, nella fase imperialistica, ad una più estesa e più rapida diffusione del modo capitalistico di produzione nel mondo. Registrando la validità della legge dell'ineguale sviluppo capitalistico, elaborata scientificamente da Marx, anche nella fase imperialistica Lenin non solo si contrapponeva ad altri studiosi dell'imperialismo che la negavano, non ne tenevano conto o non la ritenevano più valida, ma ricofermava la previsione di Marx sullo sviluppo del bacino del Pacifico.
Se la maturità imperialistica, che aveva provocato la prima guerra mondiale, non solo non bloccava lo sviluppo capitalistico ma addirittura lo accelerava, questi avrebbe proseguito la sua marcia nel bacino del Pacifico, ossia nell'area più popolata del globo e nella quale si sarebbe giocato il destino della rivoluzione proletaria internazionale.
La previsione di Marx trovava così una collocazione concreta nei tempi della storia delle lotte delle classi. Se la fase imperialistica avesse, invece, come alcuni pretendevano, comportato una stagnazione delle forze produttive ne sarebbe derivato che la marcia del capitalismo nel bacino del Pacifico poteva essere considerato un processo abortito come era occorso, parecchi secoli prima, a quello del bacino del Mediterraneo.
La tesi di Lenin doveva rappresentare una potente traduzione in sede politica contro ogni forma di socialimperialismo, ossia contro coloro che sostenevano un riformismo pacifista per sviluppare le forze produttive che l'imperialismo non avrebbe più sviluppato e contro coloro che sostenevano che l'imperialismo, sviluppando le forze produttive, compiva comunque un'opera progressista.
Lenin dimostra contro queste forme di opportunismo, che l'imperialismo sviluppa le forze produttive nel mondo ma che questo sviluppo non è progressista poiché prepara ed allarga un maggiore parassitismo ed una maggiore distruzione in crisi e in guerre.
Non aver raccolto le indicazioni strategiche di Lenin ha significato per il proletariato rivoluzionario, tra le due guerre, durante e dopo la seconda guerra mondiale, aggrava la sua sconfitta.
Malgrado la crisi delle metropoli imperialistiche del bacino dell'Atlantico, lo sviluppo capitalistico è proseguito nel bacino del Pacifico degli anni '30.
G.C. Allen, uno dei più conosciuti storici dell'economia asiatica, nella sua opera sul Giappone, pubblicata in Gran Bretagna nel 1980, valuta che alla fine degli anni '30 il reddito nazionale reale del Giappone era più di quattordici volte superiore a quello dell'inizio dell'era Meiji ed aveva progredito ad un ritmo del 4,5% nel corso dei 40 anni precedenti. Nello specifico degli anni '30, cioè degli anni della grande crisi, sostiene che:
"Alla fine del decennio, il Giappone aveva un'economia più sviluppata che nel 1929, un potenziale tecnologico e commerciale superiore, e aveva al suo attivo numerosi trionfi sui mercati di esportazione".
Al termine del decennio della grande crisi due potenti aree di industrializzazione crescente dimostravano quanto la previsione di Lenin interpretasse correttamente la tendenza del tempo lungo dell'ineguale sviluppo.
Russia e Giappone diventavano due componenti fondamentali della miscela esplosiva della guerra.
La vittoria teorica di Lenin non aveva, però, un movimento reale che la trasformasse in vittoria politica. Era capitato tante volte ai suoi maestri, Marx ed Engels, da vivi e da morti.
A. Bordiga traccia, al finire della guerra, le prospettive del dopoguerra e le pubblica nell'ottobre 1946 in "Prometeo":
"L'avanguardia rivoluzionaria del proletariato intende chiaramente che alla situazione di guerra è succeduta, per ora, una situazione di dittatura mondiale della classe capitalistica, assicurata da un organismo di collegamento dei grandissimi Stati che hanno privato di ogni autonomia e di ogni sovranità gli Stati minori ed anche molti di quelli che venivano prima annoverati fra le "grandi potenze".
Questa grande forza politica mondiale esprime il tentativo di organizzare in un piano unitario l'inesorabile dittatura della borghesia, mascherandola sotto la formula di "Consiglio delle Nazioni Unite", di "Organizzazione della sicurezza".
Essa equivale, qualora riesca nel suo scopo, al maggior trionfo delle direttive che andavano sotto il nome di fascismo e che, secondo la dialettica reale della storia, i vinti hanno lasciato in eredità ai vincitori".
A. Bordiga vede una forma di superimperialismo che domina il mondo. Lo sviluppo ineguale del capitalismo è, almeno per un certo periodo, cancellato da un tempo non ha più contraddizioni. Anche il tempo di Lenin, nella dottrina di A. Bordiga, è innavertitamente relegato prigioniero nei sotteranei dell'ONU.
Oltre che cancellato, il tempo di Lenin è soggetto, nelle tesi di A. Bordiga dell'ottobre 1946, ad una marcia a ritroso. La dialettica, beninteso, non si scandalizza, come fa il piatto progressismo, se il percorso storico delle forze produttive e delle lotte sociali e politiche delle classi registra profonde ricadute e indietreggia per decenni e, addirittura di secoli. Non sta scritto nelle tavole del materialismo storico il grafico della ascesa inarrestabile. Il tempo lungo è, appunto, il diagramma delle massime punte in alto e in basso.
Ma il grafico deve essere il prodotto di una analisi scientifica d'ordine quantitativo e qualitativo e non la semplice espressione di una considerazione generale di metodo.
Che una guerra mondiale imperialista potesse provocare una tale distruzione delle forze produttive da degradare il capitale costante di intere aree economiche, come l'Europa occidentale, l'Europa orientale e il Giappone, a livelli molto bassi era una ipotesi legittima e sulla quale si poteva tentare una analisi. Andava, però, dimostrata oltre che affermata, prima di trarne conclusioni politiche.
Indipendentemente dalla imprecisione di calcoli e di valutazioni possibili e disponibili è evidente in Bordiga una abnorme sopravvalutazione della forza degli Stati Uniti, della debolezza dell'Europa e della distruzione di capitale fisso mondiale.
Dall'articolo "America" pubblicato su "Prometeo" nel maggio-giugno 1947, si possono vedere i calcoli che fa Bordiga: " le devastazioni della guerra, secondo un calcolo, raggiungono 150 miliardollari " e Truman ha dichiarato " che la guerra è costata agli Stati Uniti 341 miliardollari ".
Questo "investimento" deve, secondo i piani di Henry A. Wallace, procurare un profitto ricavabile attraverso un prestito per investire nella produzione di ciò che è stato distrutto. Wallace "suppone che nei capitali locali si possa trovarne 50 da investire, mentre gli altri cento miliardollari sarà l'America a prestarli al resto del mondo".
Bordiga spiega così la linea di Wallace:
" Le garanzie saranno puramente legali. In via di costruire il Superstato che abbia su scala mondiale le stesse funzioni che ha lo Stato, sovrano nel suo territorio, per cittadini ed enti privati, si farà funzionare in campo internazionale il sistema delle ipoteche. Strutture e impianti nei paesi debitori garantiranno con il loro valore e con la loro attività i versamenti a saldo del credito ".
In questo modo, l'imperialismo americano con 100 miliardollari comprerà il lavoro di 200 milioni di persone produttive.
All'Europa andrebbero 50 miliardollari, dei quali da 10 a 17 alla Russia, e se "potessero, il che è certo impossibile, essere di colpo anticipati e investiti, in due anni l'Europa avrebbe rinnovata la sua attrezzatura, ma tutto l'utile del capitale che questa produrebbe "per sempre" sarebbe di diritto americano per i due terzi".
Lo stesso Bordiga avverte che "le cifre sono molto discutibili", ma è significativa più la sua impostazione che la sua riserva. In questa luce diventa più chiaro ciò che aveva scritto nell'articolo dell'ottobre 1946:
"La possibilità di questa prospettiva più o meno lunga di governo internazionale totalitario del capitale è in relazione alle opportunità economiche che si presentano alle impalcature pressoché intatte dei vincitori - primissima quella americana - di attuare per lunghi anni proficui investimenti nell'accumulazione capitalista follemente progressiva nei deserti creati dalla guerra e nei paesi che le distruzioni di essa hanno ripiombato dai più alti gradi dello sviluppo capitalistico ad un livello coloniale".
In sintesi: le distruzioni della guerra hanno ridotto una serie di metropoli imperialistiche al livello di colonie, e rendono possibile all'imperialismo americano un lungo periodo di investimenti sotto la sorveglianza di un Superstato totalitario.
Prima ancora che la possibilità di un tale prospettiva di lungo periodo, andava messa in discussione la premessa: la esistenza di opportunità economica di un lungo investimento.
La guerra mondiale era stata il risultato delle insanabili contraddizioni dell'imperialismo. La fine della guerra non era la fine delle contraddizioni ma la continuazione delle stesse contraddizioni in una nuova situazione.
La concezione materialistica della politica non poteva essere rovesciata.
La durata del ciclo politico di un "governo internazionale totalitario del capitale", ossia di una specie di superimperialismo americano, è determinata nelle tesi di A. Bordiga del 1945, dalle "opportunità economiche" di "lunghi anni" di "investimenti nell'accumulazione" del capitale distrutto dalla guerra in Europa e in Asia. Ci troviamo di fronte ad una particolare interpretazione della "questione dei tempi". Ad un ciclo internazionale di accumulazione di capitale corrisponderebbe un ciclo internazionale della politica imperialistica che vede una inedita forma di dominazione, la quale annulla temporaneamente l'acutezza dei contrasti interimperialistici che hanno provocato , cinque anni prima, una guerra mondiale.
Conclusa la guerra mondiale imperialista, la "questione dei tempi", nella visione di Bordiga, divanta la questione dei "lunghi anni" di dominazione economica e politica dei vincitori americani. C'è il pericolo che i "lunghi anni" siano intesi addirittura nella accezione più negativa.
Bordiga sente il dovere di precisare che:
"La prospettiva fondamentale deiu marxisti rivoluzionari è che questo piano unitario di organizzazione borghese non può riuscire ad avere vita definitiva, perché lo stesso ritmo vertiginoso che esso imprimerà alla amministrazione delle risorse e delle attività umane, con lo spietato asservimento delle masse produttrici, ricondurrà a nuovi contrasti e a nuove crisi, agli urti fra le opposte classi sociali e, nel seno della sfera dittatoriale borghese, a nuovi urti interimperialistici tra i grandi colossi statali".
La precisazione era tanto necessaria quanto più i "lunghi anni", in primo luogo, non potevano impedire una futura ripresa degli "urti fra le opposte classi sociali". La distruzione del capitale aveva, per Bordiga, bloccato la lotta fra le classi, fra la borghesia e il proletariato e fra le borghesie.
In via teorica un tale grado di catastrofe sociale e di regresso delle classi non lo è - lo abbiamo già detto - da escludersi, anche se la dinamica delle lotte delle classi sociali non è destinata a seguire meccanicisticamente il corso generale, come dimostra F. Engels nella sua magistrale ricostruzione storica del '500 tedesco.
I cicli politici sono determinati dai cicli economici, ma non li ricalcano nei loro zig-zag del breve termine.
Il ciclo economico della seconda guerra mondiale non costituiva una eccezione. Alfred Sauvy, in "La vie economique des Français de 1939 a 1949", scrive che:
"l'intensità di distruzione non è stata così disastrosa come si poteva ritenere". La Francia era stato teatro di guerra, in generale, di grandi battaglie, in particolare. Per l'Italia, anch'essa investita da cinque anni di bombardamenti e da tre anni di scontri militari, Pasquale Saraceno, uno dei massimi dirigenti dell'IRI, valuta che:
"l'economia italiana usciva dalla guerra con un sistema industriale solo parzialmente distrutto".
La sua valutazione è che lo sia stato del 10%.
Anche tenendo conto della Germania, la distruzione, la distruzione non ha creato "deserti" di capitale, tanto è vero che in un quinquennio la ricostruzione del capitale era compiuta in Europa Occidentale. La distruzione era stata di decine di milioni di uomini, e quelli più nessuno li ha ricostruiti.
Pur negando "vita definitiva" al "piano unitario" del capitale, Bordiga calcola che:
"Non può tuttavia prevedersi che, finita ormai la guerra, tale complesso ciclo possa svolgersi in modo acceleratissimo ...".
La differenza che esiste fra un "ritmo vertiginoso" e uno "acceleratissimo" è, forse, d'ordine letterario ma è irrilevante per la "questione dei tempi".
Il fatto è che il ciclo politico di tipo superimperialistico, immaginato da Bordiga, non poggia neppure su di un ciclo economico di enorme distruzione di capitale.
Il prodotto lordo del capitalismo occidentale, incluso quello giapponese, che nel complesso raggiunge la punta massima nel 1944, per discendere nel 1946 e nel 1947 al livello del 1939, quasi la riconquista nel 1950 e la supera nel 1951.
Il ciclo economico della seconda guerra mondiale acuisce tutte le contraddizioni dell'imperialismo e serba sorprese ad una attenta analisi scientifica. I tempi dei movimenti strutturali e della dinamica politica ne risultano accelerati, come aveva previsto Lenin.
In più occasioni, nel ventennio che segue la fine della seconda guerra mondiale imperialista, A. Bordiga cerca di collegare le prospettive future alla già citata discussione del 1926 sulla "questione dei tempi".
Nel 1956, in "Ripiegamento e tramonto della rivoluzione bolscevica", si collega alla tesi di Trotsky sulla attesa cinquantennale della rivoluzione internazionale per indicare nel 1976 il possibile avvento della grande crisi generale del capitalismo.
Nel 1957, in "Quarant'anni di una organica valutazione degli eventi di Russia", si collega alla tesi di Lenin sulla possibilità di 20 anni di buoni rapporti con i contadini prima che si scateni la lotta di classe nella Russia economicamente non socialista per indicare che " lo stalinismo è rimasto più indietro ancora di quanto prevedeva Lenin come lontano risultato. Non sono passati 20, ma 40 anni... "
Bordiga ne deduce che:
" Non è venuta, per 40 anni dal 1917, e circa 30 da quando Trotsky ne valutò come tollerabili al potere 50, andando al 1975 circa, la rivoluzione proletaria di Occidente".
E pone la prospettiva in questo modo:
" Un recente studio di economisti borghesi americani sulla dinamica mondiale degli scambi calcola un punto critico dell'attuale corsa alla conquista dei mercati, incardinata sul bieco puritanismo della soccorritrice americana dopo la fine del secondo conflitto mondiale, al 1977. Venti anni ancora ci separarebbero dal lanciarsi della nuova fiammata di rivoluzione permanente concepita nel quadro internazionale, e ciò collima con le conclusioni del lontano dibattito del 1926, come con quelle delle nostre ricerche degli ultimi anni".
Punto critico del lungo ciclo del mercato mondiale capitalistico e nuova ondata rivoluzionaria coincidono nella prospettiva di Bordiga. Pone come condizione per evitare, al momento dato, "un nuovo rovescio proletario" una preliminare " restaurazione teorica " marxista del " partito mondiale"; ma questa condizione riguarda lo sbocco di un processo mentre la restaurazione teorica avrebbe dovuto, invece, costituire la premessa per l'analisi del processo stesso.
Che una grande crisi del sistema capitalistico mondiale non possa trasformarsi in rivoluzione permanente senza un partito che abbia una corretta teoria rivoluzionaria, è un punto fermo della strategia. Ma è solo la premessa della strategia rivoluzionaria e non ancora la elaborazione scientifica della strategia stessa.
Dice giustamente Bordiga che la restaurazione teorica deve compiersi prima che "il terzo conflitto mondiale abbia schierato i lavoratori sotto tutte le sue maledette bandiere", ma la restaurazione teorica è proprio l'analisi del processo economico e politico che può portare a quello sbocco e la individuazione delle possibilità che l'azione di classe ha di influire sul corso generale. Non è cosi per Bordiga:"Nel corso dei 20 anni delibati, una grande crisi del la produzione industriale mondiale e del ciclo commerciale del calibro di quella americana 1932, ma che non risparmierà il capitalismo russo, potrà essere di base al ritorno di decise ma visibili minoranze proletarie su posizioni marxiste... "
Ci troviamo di fronte non all'analisi di un processo e delle sue contraddizioni, che possono dare esiti differenti per le classi in lotta, ma ad una immaginaria proiezione, per quanto brillante e ardita possa essere, di un prologo che non c'è stato. Ad un prologo mancato ha corrisposto, di conseguenza, una crisi negli anni '70 diversa da quella ipotizzata.
Resta, nei tempi di Bordiga, una grande anticipazione ma manca la strategia per l'azione. Resta una anticipazione che è un raggio di luce che squarcia i tempi scuri della controrivoluzione.
Così come è raggio di luce quello che giunge ancora più lontano:
"Può azzardarsi uno schema della rivoluzione internazionale futura? La sua area centrale sarà quella che risponde con una potente ripresa di forze produttive al la rovina della seconda guerra mondiale, e soprattutto la Germania, compresa quella dell'Est, la Polonia, la Cecoslovacchia.
L'insurrezione proletaria, che seguirà l'espropriazione ferocissima di tutti i possessori di capitale popolarizzato, dovrebbe avere il suo epicentro tra Berlino e il Reno e presto attrarre il Nord d'Italia e il Nord Est della Francia.
A dimostrazione che Stalin e successori hanno rivoluzionariamente industrializzato la Russia, mentre controrivoluzionariamente castravano il proletariato del mondo, la Russia sarà per la nuova rivoluzione la riserva di forze produttive, e solo in seguito di eserciti rivoluzionari. Alla terza ondata l'Europa continentale comunista politicamente e socialmente esisterà - o l'ultimo marxista sarà scomparso ".
Il cammino della strategia rivoluzionaria può beneficiare anche del bagliore che annuncia la fine della notte. Ma il suo tracciato richiede qualcosa di più: richiede uno studio dei tempi che caratterizzi le crisi dell'imperialismo nei suoi principali contrassegni e le lotte delle classi nei loro elementi fondamentali. Solo con questo duro e lungo lavoro i tempi, per quanto possano essere correttamente anticipati, diventano precisi e concreti momenti di lotta e non mitica scadenza.
Negli anni '50 ci trovavamo di fronte ad un problema che era rimasto irrisolto in Trotsky, prima, e in Bordiga, poi.
La "questione dei tempi" aveva condizionato fortemente il pensiero dei due rivoluzionari accentuandone le rispettive connotazioni volontaristiche ed attendistiche, connotazioni di per sé compatibili e persino necessarie e inevitabili nella successione dialettica dell'azione politica e dell'equilibrio correttivo di iniziativa tattica e di riflessione dialettica, ma destinate ad essere negativamente assolutizzate quando i riferimenti alle scadenze poggiano su di una ricostruzione arbitraria dello svolgimento della realtà. Volontarismo ed attendismo diventano malattie di crescita del comunismo quando manca l'analisi scientifica del movimento della realtà poiché, in definitiva, manca la strategia.
La "questione dei tempi", mancando di un terreno oggettivo di verifica con strumenti scientifici che permettano le indispensabili correzioni e approfondimenti alle ipotesi strategiche di partenza, inevitabilmente assume contenuti e forme soggettivistiche. Il soggettivismo, nel contenuto e nella forma, alimenta l'assolutizzazione, cioè il procedimento che porta a cogliere, da una situazione data, solo un aspetto o una tendenza e a non vedere come questo aspetto e questa tendenza è tale solo perché ha nessi collegati ad altri aspetti o tendenze interagenti in reciprocità.
Compito della scienza, invece, è quello di stabilire la relativa e temporanea predominanza di un determinato aspetto o di una determinata tendenza, e lo può fare solo se li considera in un tutto dialettico e contraddittorio.
Vincolato a questa precisa condizione, il metodo scientifico può e deve isolare un certo aspetto o una certa tendenza per analizzarla allo stato puro nel suo meccanismo di sviluppo e nelle sue influenze; ma questo è metodo di astrazione scientifica e non assolutizzazione arbitraria e, quindi, soggettivistica.
Il metodo scientifico e dialettico è tanto più obbligatorio quanto più dall'ipotetico svolgimento di un aspetto o di una tendenza della realtà sociale se ne vogliono prevedere conseguenze politiche e indicazioni, quasi sempre vincolanti, per l'azione e l'inazione. E ancor più quando se ne vogliano prevedere i tempi.
Altrimenti il soggettivismo morde la coda alla assolutizzazione e questa abbaia al soggettivismo.
Il problema irrisolto in Trotsky e in Bordiga era, sostanzialmente, quello dello sviluppo capitalistico. Si trascinava dagli anni '30 al dopoguerra. Cosa significa sviluppo capitalistico del mondo nella fase imperialista? Le risposte erano tanto soggettivistiche da non produrre una analisi scientifica dello sviluppo capitalistico per interi decenni.
Eppure la scuola marxista aveva risolto il problema e fornito gli strumenti per continuare l'analisi. Abbiamo già visto come Lenin, nel 1916, sostenesse che la maggioranza della popolazione mondiale non era ancora al grado capitalistico del suo sviluppo.
Immerso tra le rovine sociali e politiche della seconda guerra mondiale imperialistica e del dopoguerra, il movimento rivoluzionario non era in grado di capire subito che una parte di quello sviluppo oggettivo individuato da Lenin era in corso. Era saltato un anello tra l'opera teorica e politica di Lenin e il movimento reale. Il movimento reale, con le sue impazienze e le sue attese fatalistiche, aveva inghiottito un'altra generazione. Ma il filo doveva e poteva essere ripreso.
Nelle "Tesi del 1957" sostenevamo che l'economia mondiale era composta da zone a livello industrialmente avanzato, da zone a livello intermedio e da zone a livello arretrato. Scrivevamo:
" La teoria marxista della crisi trova una più valida conferma nella pratica. Dove più attenta dovrebbe essere, invece, la elaborazione del marxismo rivoluzionario è sulla teoria e sui problemi dello sviluppo capitalistico. Come chiaramente è dimostrato dalla storia degli ultimi decenni, lo sviluppo del capitalismo, oltre che dai fattori tecnologici interni, è determinato dal mercato mondiale. Finché in questo mercato sussisterà una vastissima zona - che comprende i due terzi della popolazione mondiale - in condizioni di arretratezza precapitalistica, la produzione dei paesi avanzati ivi troverà uno sbocco ed una soluzione alle proprie contraddizioni. "
Era presente nella nostra analisi la consapevolezza delle contraddizioni dell'imperialismo e il fatto che il processo di formazione di nuovi Stati nelle zone arretrate rappresentasse anche l'acutizzarsi di tali contraddizioni. Ma non valutavamo che tali contraddizioni, che si esprimevano socialmente nelle lotte delle popolazioni delle zone arretrate, provocassero crisi nelle metropoli imperialistiche tali da spostare i loro proletariati su posizioni rivoluzionarie.
La posizione del marxismo era inequivocabilmente quella di appoggiare le lotte delle popolazioni delle zone arretrate e la formazione dei nuovi Stati, ma con la chiara coscienza che ciò rappresentava uno sviluppo del capitalismo nel mondo e del proletariato internazionale e non l'occasione storica della rivoluzione socialista nelle metropoli.
Ciò veniva affermato con chiarezza:
" Questo importante fatto, se indebolisce certe sovrastrutture politiche dell'imperialismo, non ne indebolisce, però, la sua dinamica economica.
[. . .]
Si può dire, anzi, che entrando in una nuova fase economica e rompendo la vecchia stasi di immobilismo coloniale i paesi del settore arretrato allargano la capacità del mercato mondiale ed offrono all'imperialismo le possibilità di espansione economica.
Indirettamente il risveglio dei paesi arretrati da un lato mina le posizioni politiche dell'imperialismo e ne provoca alcune delle più tipiche contraddizioni mentre, dall'altro, ne favorisce economicamente la sopravvivenza."
Riprendere le tesi di Lenin significava far uscire la "questione dei tempi" dalle secche nelle quali si era incagliata e riportarla nel mare aperto delle tempeste della storia.
Il lungo sviluppo capitalistico
"Il Capitale" di K. Marx venne pubblicato nel 1867. Da allora il capitale mondiale si è moltiplicato per venti. Pochi anni dopo la pubblicazione dell'opera di Marx il proletariato parigino tentò la sua rivoluzione e fu sconfitto.
Quando, cinquanta anni dopo, Lenin rialzò la bandiera della rivoluzione proletaria internazionale, il capitale mondiale si era triplicato. L'aumento della sua potenza diventava aumento della sua capacità distruttiva che scatenava, per la prima volta nella storia, una guerra mondiale.
Passano venti anni e si ripete la guerra mondiale. Il capitale produttivo di valore nel globo terrestre è il doppio di quello che aveva determinato la prima gigantesca esplosione. Raddoppia la sua capacità distruttiva. A doppio capitale doppia guerra. Quando il conflitto finisce il capitale mondiale è sei volte quello che era alla nascita de "Il Capitale" di Marx.
In questi ultimi quarant'anni di non guerra mondiale si è triplicato. Ciò significa che è tre volte più distruttivo di quello uscito dalla seconda guerra mondiale, malgrado le distruzioni in essa subite. Questi, in essenza, sono stati i ritmi del capitale sociale mondiale, questi i ritmi del prodotto sociale.
Questa è la sostanza della "questione dei tempi", dal punto di vista del capitale, dal punto di vista delle forze produttive.
Dal punto di vista del lavoro salariato è mancata, per una serie di ragioni che abbiamo esaminato, una visione della "questione dei tempi" che seguisse la impostazione scientifica di Marx e di Lenin. Riprendere questa impostazione significa anche aggiornarne gli aspetti quantitativi. E su questi aspetti che ci soffermeremo dettagliatamente.
Angus Maddison ha pubblicato, nella rivista "Moneta e credito" del 3° trimestre 1977, uno studio storico sulle "Fasi di sviluppo capitalistico". In questo studio calcola la variazione percentuale annua del Prodotto Interno Lordo di sedici paesi dal 1871 al 1976.
I sedici paesi sono, dal 1871 al 1913: Australia, Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Germania, Giappone, Italia, Norvegia, Regno Unito, Stati Uniti, Svezia, Svizzera. Dal 1914 al 1950: gli stessi paesi del periodo precedente, più la Finlandia e l'Olanda ed escluso il Belgio. Dal 1950 al 1976: tutti i sedici paesi. Escluso quello della Russia, viene calcolato lo sviluppo delle principali metropoli imperialistiche. E uno studio importante che merita una particolare attenzione perché permette di conoscere una sintesi statistica selezionata da una enorme quantità di materiale, dispersa in mille fonti.
Come ogni sintesi statistica, anche questa è passibile di perfezionamento e correzione. Riteniamo, data la fonte, che ciò non possa avvenire a breve scadenza. Perciò riproduciamo la serie storica di Angus Maddison. Abbiamo aggiunto un indice, collocato al centro della tabella.
La media aritmetica annua di incremento del PIL risulta, per l'intero periodo 1871-1976, del 2,91%. Suddivisa per decennio diventa: 1871-80: 2,38%;
1881-90: 2,76%, 18911900: 2,83%; 1901-1910: 2,71%.
Siamo poco sotto alla tendenza secolare, però vicini ad una impressionante invarianza.
Il decennio 1911-1920 ha la media aritmetica annua dell'1,34%, molto al di sotto della tendenza secolare. E l'unico caso.
Abbiamo poi tre decenni, abbastanza regolari anche se sotto la tendenza secolare: 1921-30: 2,86%;
1931-40: 2,41%; 1941-50: 2,34%. Infine, abbiamo due decenni e mezzo di forte accelerazione: 1951-60: 4,31%; 1961-70: 5,01% e 1971-76: 3,28%.
Engels dice che ogni fenomeno storico si configura, in un secolo, come una linea retta e, anno per anno, come uno zig-zag. Quale migliore immagine potrebbe aiutarci?
Possiamo partire dal 1870 per stabilire l'andamento dei cicli mondiali del capitale e le tendenze di lungo termine che abbracciano più di un secolo. E il solo modo corretto di porre la questione dei tempi della strategia della rivoluzione proletaria.
Come indicatore assumiamo il Prodotto Interno Lordo dei sedici paesi più industrializzati, includenti le principali metropoli imperialistiche esclusa l'URSS, e come fonte principale la serie storica, compilata da A. Maddison, uno dei maggiori specialisti internazionali. Potrebbero essere scelti altri indicatori ed altre fonti, sia a sostituzione che a complemento, ma il risultato varierebbe di poco poiché, sul lungo periodo, la tendenza è talmente marcata da imporsi sugli aspetti particolari della elaborazione statistica.
Aggiungere dati e fonti servirebbe solo ad appesantire il discorso, già di per sé sufficientemente pedante anche se necessario. La regolarità del lungo sviluppo capitalistico risulta già abbastanza pronunciata e tale da non necessitare di ulteriori quantificazioni.
anno |
Indice |
Variazione % annua del PIL |
anno |
Indice |
Variazione % annua del PIL |
anno |
Indice |
Variazione % annua del PIL |
||
1870 |
100 |
|||||||||
1871 |
102 |
2,2 |
1891 |
169 |
1,8 |
1911 |
296 |
3,7 |
||
1872 |
106 |
4,2 |
1892 |
175 |
3,4 |
1912 |
308 |
4,2 |
||
1873 |
108 |
1,6 |
1893 |
173 |
-1,0 |
1913 |
319 |
3,6 |
||
1874 |
113 |
4.7 |
1894 |
177 |
2,2 |
1914 |
299 |
-6,3 |
||
1875 |
116 |
2,2 |
1895 |
186 |
5,2 |
1915 |
305 |
2,0 |
||
1876 |
116 |
0.0 |
1896 |
188 |
1,4 |
1916 |
328 |
7,6 |
||
1877 |
118 |
2.0 |
1897 |
194 |
3,1 |
1917 |
325 |
-1,0 |
||
1878 |
120 |
2,0 |
1898 |
204 |
5,1 |
1918 |
335 |
3,0 |
||
1879 |
121 |
0,8 |
1899 |
213 |
4,5 |
1919 |
326 |
-2,5 |
||
1880 |
126 |
4,1 |
1900 |
219 |
2,6 |
1920 |
323 |
-0,9 |
||
1881 |
131 |
3,4 |
1901 |
227 |
3,7 |
1921 |
322 |
-0,3 |
||
1882 |
135 |
3,1 |
1902 |
230 |
1,1 |
1922 |
343 |
6,3 |
||
1883 |
138 |
2,1 |
1903 |
238 |
3,6 |
1923 |
361 |
5,2 |
||
1884 |
139 |
1,0 |
1904 |
240 |
1,1 |
1924 |
379 |
5,2 |
||
1885 |
141 |
1,7 |
1905 |
249 |
3,7 |
1925 |
394 |
4,0 |
||
1886 |
146 |
3,0 |
1906 |
266 |
6,7 |
1926 |
408 |
3,4 |
||
1887 |
150 |
3,4 |
1907 |
273 |
2,7 |
1927 |
420 |
2,9 |
||
1886 |
154 |
2,6 |
1908 |
264 |
-3,2 |
1928 |
432 |
3,0 |
||
1889 |
160 |
3,4 |
1909 |
281 |
6,1 |
1929 |
452 |
4,5 |
||
1890 |
166 |
3,9 |
1910 |
285 |
1,6 |
1930 |
426 |
-5,6 |
anno |
Indice |
Variazione % annua del PIL |
anno |
Indice |
Variazione % annua del PIL |
anno |
Indice |
Variazione % annua del PIL |
||
1870 |
100 |
|||||||||
1931 |
402 |
-5,7 |
1951 |
704 |
7,1 |
1971 |
1692 |
3,8 |
||
1932 |
374 |
-7,1 |
1952 |
732 |
4,0 |
1972 |
1783 |
5,4 |
||
1933 |
378 |
1,2 |
1953 |
770 |
5,2 |
1973 |
1894 |
6,2 |
||
1934 |
403 |
6,6 |
1954 |
780 |
1,3 |
1974 |
1896 |
0,1 |
||
1935 |
426 |
5,8 |
1955 |
833 |
6,8 |
1975 |
1877 |
-1,0 |
||
1936 |
460 |
7,8 |
1956 |
864 |
3.7 |
1976 |
1974 |
5,2 |
||
1937 |
494 |
7,5 |
1957 |
891 |
3,2 |
|||||
1938 |
496 |
0,4 |
1958 |
902 |
1,2 |
|||||
1939 |
524 |
5,6 |
1959 |
954 |
5,8 |
|||||
1940 |
534 |
2,0 |
1960 |
1000 |
4,8 |
|||||
|
|
|
|
|
|
|
||||
1941 |
575 |
7,6 |
1961 |
1047 |
4,7 |
|||||
1942 |
616 |
7,1 |
1962 |
1101 |
5,2 |
|||||
1943 |
663 |
7,7 |
1963 |
1154 |
4,8 |
|||||
1944 |
676 |
2,0 |
1964 |
1227 |
6,3 |
|||||
1945 |
634 |
-6,3 |
1965 |
1290 |
5,1 |
|||||
1946 |
543 |
-14,4 |
1966 |
1361 |
5,5 |
|||||
1947 |
553 |
1,9 |
1967 |
1415 |
4,0 |
|||||
1948 |
587 |
6,2 |
1968 |
1498 |
5,9 |
|||||
1949 |
607 |
3,4 |
1969 |
1573 |
5,0 |
|||||
1950 |
657 |
8,2 |
1970 |
1630 |
3,6 |
Il lungo sviluppo capitalistico dei primi decenni
Il lungo sviluppo capitalistico per oltre un secolo trova una sua fotografia nella tabella quantitativa. L'indice ci permette di seguirlo con chiarezza.
Facciamo, quindi, 100 l'anno di partenza, il 1.870.
Abbiamo 126 nel 1880, con la punta minima nel 1871 e quella massima nel 1880; 166 nel 1890 (minima nel 1881 e massima nel 1890); 219 nel 1900 (minima nel 1891 e massima nel 1900); 285 nel 1910 (minima nel 1901 e massima nel 1910).
Il 1876 segna la prima battuta d'arresto, con una crescita zero e l'indice fermo a 1 16. Per trovare la seconda occorre giungere al 1893, con un calo dell'1% del PIL e l'indice che da 175 regredisce a 173.
Gli storici hanno definito "grande depressione" questo primo ventennio preso in esame; in realtà ci troviamo di fronte ad uno sviluppo capitalistico costante, sviluppo che ha un ritmo lento ma nel complesso abbastanza regolare. Varia di anno in anno, passando da valori inferiori all'1% a valori superiori al 4%, ma mediamente si aggira sul 2%. L'unica vera caduta si ha nel 1893, dopo 23 anni. Il raddoppio del PIL si ha nel 1898, dopo 28 anni.
E successivo raddoppio, quando l'indice da 204 passa a 408, si ha nel 1926, esattamente 28 anni dopo. Per giungere al successivo raddoppio accorreranno quasi gli stessi anni; per l'esattezza 29 anni, quando nel 1955 l'indice raggiunge quota 833. L'ultimo raddoppio, invece, avviene in soli 16 anni: nel 1971, con l'indice a quota 1.692. Negli, anni '50 e negli anni '60, il ritmo di sviluppo del capitalismo è quasi raddoppiato in confronto al lungo periodo precedente e allo stesso trend secolare. Ci troviamo di fronte ad un periodo eccezionale: dalla crisi del 19 ' 46 dobbiamo arrivare al 1975, cioè 29 anni dopo, per incontrare un calo del PIL, fenomeno che caratterizza, invece, l'andamento dei quattro decenni precedenti, dove le cadute si intercalano frequentemente alle riprese e i cicli economici si delineano con forti oscillazioni.
Ma per inquadrare meglio i caratteri dei cicli che dagli anni '10 giungono agli anni '40 si può ritornare agli anni '90. Appare chiaro che il. periodo che inizia con la prima guerra mondiale imperialistica nel 1914 e si conclude con la fine della seconda guerra mondiale imperialistica nel 1946 è quello dove si hanno i più frequenti cali di PIL, le più forti oscillazioni, la più profonda instabilità e la più acuta crisi del capitalismo nei 16 paesi industrializzati presi in esame e, di conseguenza, nel sistema capitalistico mondiale.
Mentre dalla crisi del 1893 passano 15 anni prima di avere la crisi del 1908, con un calo del 3,2%, di fronte ai 23 anni a partire dal 1870 per arrivare alla crisi del 1893 (che si riducono a 17
anni se si parte dalla crescita zero del 1876), con il 1914, quando si ha un calo del 6,3%, inizia un periodo nel quale A tempo più lungo tra una crisi e l'altra è quello tra il 1932 e il 1945, ossia di soli 13 anni.
Comprendendo il 1914, anno di crisi, e il 1946 (calo del 14,4%) abbiamo 33 anni, che sono poco meno di un terzo del secolo considerato.
Nei 43 anni che precedono il periodo in questione abbiamo due anni di crisi, nei 30 anni che lo seguono abbiamo un anno di crisi (1975: calo 1%), dopo ben 29 anni che separano la crisi del 1946 da quella del 1975 e che costituiscono l'arco di tempo più lungo senza calo del PIL. Nei 33 anni dal 1914 al 1946 si hanno, invece, 9 anni di crisi (10 se includiamo il 1914).
Lo possiamo vedere anche dall'indice. Il 1914 segna 299; per arrivare al raddoppio dobbiamo attendere il 1942, uno degli anni più intensi della seconda guerra mondiale, quando l'indice segna 616 e l'incremento il 7, 1 %. t probabile che il valore 600 sia stato raggiunto nel primo semestre del 1942. Sono passati 28 anni.
Se riflettiamo, però, sulle precedenti considerazioni fatte sui tempi di raddoppio del PIL constatiamo che anche questo raddoppio, che abbiamo calcolato isolando il periodo di più intense crisi del capitalismo e, quindi, spostando i termini di riferimento (da 300 a 600, invece che da 200 a 400, nei valori dell'indice) e gli anni di riferimento (1914-1942, invece che 1898-1926 e 1926-1955), rientra nega costante tendenza secolare che è di 28-29 anni.
Seguiamo l'indice del PIL, lasciando a parte la variazione percentuale annuale sia in positivo che in negativo, perché ci permette di seguire meglio l'andamento dinamico. Tra parentesi indicheremo il valore dell'indice in confronto a 100 del 1870.
Il 1914 (299) segna un passo indietro sul 1913 (319), il 1915 (305) è ancora indietro e solo 9 1916 (328) procede in avanti. Ma il 1917 (325) resta nuovamente indietro al 1916 (328). Il 1918 raggiunge una punta massima (335), ma nel 1919 (326), nel 1920 (323) e nel 1921 (322) si ricade sotto al livello 1916 (328) e poco sopra a quello 1915 (305).
Solo con il 1922 (343) si superano il livello e la stessa punta del 1918 (335); inizia una serie ininterrotta di otto anni che culmina nel 1929 (452).
Sostanzialmente, il 1919, il 1920 e il 1921 sono anni di crisi nei quali il PIL è sotto il livello del 1916. In questi anni, comprendenti il massimo logoramento provocato dall'impasse militare, economico e politico nel conflitto mondiale, si estende il movimento rivoluzionario che raggiunge la massima espressione nell'Ottobre russo.
La rivoluzione russa esplode nel ciclo di crisi del lungo sviluppo capitalistico.
Il lungo sviluppo capitalistico nella grande crisi
Sul piano della teoria marxista, la crisi che attraversa il capitalismo, dal 1914, viene a confermare l'analisi di lungo periodo. Le conclusioni che il movimento comunista ne trae, però, sono spesso erronee, perché meccanicistiche e non dialettiche.
La crisi viene concepita come una crisi irreversibile e, invano, Lenin richiama allo studio, che poggia sulla restaurazione del pensiero di Marx ed Engels, del movimento contraddittorio della realtà sociale. Non esiste una crisi che sia irreversibile, non esiste un crollo automatico del capitalismo. La concentrazione che porta alla crisi ricrea, con la crisi stessa, la condizione per il risorgere della piccola produzione e del piccolo capitale. L'imperialismo che provoca la guerra e, di conseguenza, la crisi diffonde, nello stesso tempo, il capitalismo nel mondo. Le contraddizioni che questo processo mondiale genera sono tali e tante da provocare crisi economiche e politiche, suscettibili di essere trasformate in rivoluzioni a patto che esista un partito comunista capace di farlo e che le masse lavoratrici siano trascinate oggettivamente nella lotta.
E quello che Marx ed Engels avevano visto nel 1850.
Come per loro, anche per Lenin la "questione dei tempi" riguarda non tanto il mercato mondiale e la sorte del capitalismo quanto la valutazione sulla quantità e la qualità delle contraddizioni e sulla capacità soggettiva, quindi del suo partito d'avanguardia, di utilizzarla.
Dal 1914 al 1922 ben 5 anni sono di crisi, durante i quali il PIL è sotto il livello 1916.
Prende piede la teoria sulla crisi di declino e di ristagno del capitalismo.
Lo sviluppo nel 1918 (335; 30 punti sopra al 1915), però, dimostra che il capitalismo ha ancora possibilità. Il 1918 è, pur sempre, 13 punti sopra il 1921. Il fatto che per 6 anni (dei quali 1 di forte sviluppo) si sussegua la crisi e che questa colpisca maggiormente alcune grandi metropoli alimenta il radicarsi della teoria del declino e della stagnazione del modo capitalistico di produzione, declino non già inteso correttamente come fase storica bensì in termini addirittura di ciclo. Nel 1922 (343) si ha un forte balzo (21 punti dell'indice sul 1921) che supera di 8 punti la precedente punta del 1918, di 38 il livello 1915, di 15 quello 1916 e di 18 punti quello del 1917.
Gli anni '20, di cosiddetta "stabilizzazione relativa", si concludono con la punta 452 del 1929. E un coefficiente di moltiplicazione 4,52 sul 1870. Sono passati sessanta anni di sviluppo capitalistico dal 1870, ossia dalla formazione definitiva di tre grandi potenze: gli Stati Uniti, la Germania e l'Italia. Si potrebbe già tentare un bilancio per vedere se la teoria del declino e della stagnazione abbia corrispondenza con le tendenza a lungo termine. Non viene fatto. Oggi lo si può fare.
Dall'inizio della crisi che ha aperto la fase delle guerre imperialistiche e delle rivoluzioni proletarie sono passati, nel 1929, quindici anni. Il capitalismo, nelle metropoli prese in esame, è cresciuto di una metà. Dall'inizio della "stabilizzazione relativa", in otto anni, è cresciuto di un quarto. Gli anni '10 e gli anni '20, nel complesso, hanno rappresentato una crescita del capitalismo.
Negli anni '30 vi è la grande crisi. Il punto più basso è il 1932. Il valore del nostro indice è 374 e si pone in mezzo fra quello del 1923 (361) e quello del 1924 (379).
La caduta sulla punta massima precedente, il 1929 (452), è fortissima (78 punti dell'indice) e può dare l'impressione di un crollo. Il ritorno indietro è di 9-10 anni. E un ritmo indietro mai verificatosi in quelle proporzioni, e anch'esso può dare l'impressione di un crollo catastrofico. Ma è pur significativo che si attesti al livello dei primi trimestri del 1924, livello superiore sia a quello del 1918 (335) che a quello del 1921 (322). Per quanto rovinosa sia la caduta del 1932, il PIL di quell'anno è pur sempre superiore di 49 punti al 1917, di 48 al 1919, di 51 al 1920 e di 52 punti al 1921.
In altri termini, il capitalismo delle metropoli, nella sua massima crisi del 1932, è pur sempre cresciuto di un sesto nei confronti del capitalismo, nelle stesse metropoli, al momento della sua massima crisi di 10 anni prima, nel 1921. Ciò significa che il capitalismo si è rafforzato, di fronte alla crisi, con una produzione accresciuta.
La crisi degli anni '30 presenta, perciò, questo carattere oggettivo. Anche prendendo come riferimento il punto più basso, non si può parlare di declino e, tanto meno, di stagnazione.
Alla seconda guerra mondiale imperialista il capitalismo si presenta quasi raddoppiato in confronto al capitalismo che si era presentato all'appuntamento della prima guerra mondiale. Di conseguenza, doppie saranno le sue capacità distruttive, le sue distruzioni, le sue ecatombi di vittime. Vediamo il confronto nell'indice: 1913 (319), 1914 (299) e 1938 (496), 1939 (524), 1940 (534). Negli anni '30, infatti, lo sviluppo capitalistico continua, quali che siano gli anni che si vogliano confrontare.
Prendiamo la punta massima degli anni '20, il 1929 (452); il 1938 segna 496. Per 6 anni, dal 1930 al 1935, non viene raggiunto il livello 1929 e ciò dà l'impressione di una crisi irreversibile. Ma anche questi 6 anni si collocano sopra all'anno che aveva rappresentato il superamento della crisi della prima guerra mondiale, il 1922. Il 1933 è 74 punti sotto il 1929 ma 35 punti sopra il 1922. Il 1934 è 49 sotto e 60 sopra, il 1935 è 26 sotto e 83 sopra. Con il 1936 (460) è superato il livello 1929 di 8 punti. La tendenza prosegue nel 1937 (494) con 42 punti, nel 1938 (496) con 44 punti e nel 1939 (524) con 72 punti. Ma ormai è iniziata la guerra che rappresenta un balzo in avanti.
La seconda metà degli anni '30, è, quindi, di nuova espansione del capitalismo.
Dire che gli anni '30 sono gli anni della grande crisi significa, di conseguenza, generalizzare un aspetto del contraddittorio processo di sviluppo capitalistico e trascurarne un altro.
Il lungo sviluppo capitalistico nella prospettiva storica
Gli anni '30 sono gli anni della grande crisi e della caduta in confronto alla punta massima precedente, ma sono anche gli anni nei quali quella punta massima viene superata per stabilirne una nuova, nel 1939. Se si fosse, allora e in seguito, analizzato l'intero processo di sviluppo, che accentuava come non mai l'andamento irregolare, oscillante e contraddittorio, invece di fissare esclusivamente l'attenzione su quelli che potevano sembrare gli anelli deboli della catena imperialistica, si sarebbe potuto impostare, teoricamente e politicamente, una strategia rivoluzionaria di lungo periodo appropriata all'andamento caotico, ma non catastrofico, dello sviluppo capitalistico che avrebbe contrassegnato i successivi decenni.
Una strategia di tempi, affidata non a impossibili calcoli quantitativi data la insufficienza di strumenti tecnici, ma alla riflessione possibile sull'andamento delle tendenze del passato, vi
sto sulle lunghe distanze e non nelle brevi oscillazioni.
Invece di stare perennemente ad attendere catastrofi ricorrenti, sulla base di dati parziali e insufficienti, spesso interpretati semplicisticamente con sconcertante meccanicismo, occorreva e occorre attingere al ricco patrimonio della teoria di Marx e di Engels sullo sviluppo capitalistico, utilizzata da Lenin con cosi brillanti risultati.
Si è finito con il lasciare ai più acuti economisti borghesi, alcuni di origine socialdemocratica, menscevica e marxista legale, il campo dello sviluppo capitalistico. Questi frequentemente hanno trovato nei nostri classici idee e soluzioni che mancavano nei loro. Più che l'analisi del processo di sviluppo si è privilegiata la previsione. O, come si usava dire, la prognosi sulla diagnosi.
Per sua natura, dato che riguarda la soggettività delle classi e delle frazioni di classe, la prognosi del capitalismo è sempre stata soggetta, e sarà sempre soggetta, ad un margine d'errore, più o meno ampio.
La previsione, spesso necessaria nell'operare politico, sulla capacità di classe di utilizzo delle contraddizioni determinate da un processo sociale di ampiezza mondiale poteva essere enunciata. Ma non è su questo punto che la lezione di Lenin avrebbe dovuto essere ripensata dal bolscevismo e dal movimento comunista. Più utilità se ne sarebbe ricavata se si fosse assimilata la sua teoria del mercato mondiale.
Ancor vivente Lenin questa teoria trova piena conferma. Coloro che teorizzavano la crisi irreversibile improvvisano una teoria sulla "stabilizzazione relativa del capitalismo".
La correzione è puramente formale, poiché permane la erronea concezione di fondo sullo
sviluppo capitalistico.
Una concezione che tanto danno dovrà portare nei decenni successivi.
La teoria della "stabilizzazione relativa del capitalismo" non vedeva il lungo sviluppo del capitalismo. Si preoccupava solo di definire un momento congiuntuale della crisi irreversibile del capitalismo. La vita del capitalismo e, nello stesso tempo, sviluppo e crisi perché è lo sviluppo caotico a provocare crisi. Quindi la sua è sempre una "stabilizzazione relativa". Il problema di analisi è proprio quello di individuare il tempo lungo di sviluppo, e solo in questo modo si può conoscere l'ampiezza e la durata delle crisi. La validità della previsione è, quindi, la conseguenza della correttezza dell'analisi. Analizzare lo sviluppo del capitalismo significa analizzare la intensità e la estensione di questo modo di produzione e, in definitiva, la intensità e la estensione dei suoi cicli di crescita e dei suoi cicli di depressione. Essi sono strettamente correlati, come abbiamo cercato di dimostrare proprio analizzando il ciclo di massima depressione. La sua brevità trova spiegazione nell'andamento dei
cicli precedenti e, contemporaneamente, spiega anche i cicli che seguiranno. Il lungo sviluppo del capitalismo, in fin dei conti, è la misura temporale della sua espansione mondiale.
Tempo e spazzo si congiungono sul fuso orario della storia e ne segnano i battiti dello sviluppo, delle crisi, delle guerre, delle rivoluzioni nella lotta delle classi.
Ultima modifica 11.09.2001