IDEA | ||
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INONDAZIONE |
Che cos'è un'idea?
È un'immagine che si dipinge nel mio cervello.
Tutti nostri pensieri sono dunque immagini?
Certamente, perché le idee più astratte nascono dalla mia percezione degli oggetti. Io pronuncio la parola «essere» in generale, solo perché ho conosciuto esseri particolari. Pronuncio la parola «infinito» solo perché, avendo visto dei limiti, allontano nel mio intelletto questi limiti quanto più posso. Io ho idee solo perché ho immagini in testa.
E qual è il pittore che fa questo quadro?
Non sono io, non sono un disegnatore tanto bravo: colui che mi ha fatto, fa le mie idee.
Sareste dunque del parere di Malebranche, il quale diceva che noi vediamo tutto in Dio?
Per lo meno sono ben sicuro che, se non vediamo le cose in Dio, le vediamo grazie alla sua azione onnipotente.
E come si effettua questa azione?
V'ho detto cento volte, nelle nostre conversazioni, che non ne sapevo nulla, e che Dio non ha rivelato il suo segreto a nessuno. Io ignoro cos'è che fa battere il mio cuore, correre il mio sangue nelle vene; ignoro il principio di tutti i miei movimenti; e voi vorreste che vi dicessi in quale modo sento o penso? Non è giusto.
Ma sapete almeno se la vostra facoltà d'avere idee è congiunta all'estensione?
Non ne so nulla. È ben vero che Taziano, nel suo discorso ai greci, dice che l'anima è manifestamente composta di un corpo. Ireneo, nel capitolo LXII del secondo libro, dice che il Signore ha insegnato che le nostre anime conservano l'aspetto del nostro corpo per conservarne la memoria. Tertulliano assicura, nel secondo libro del suo De anima, ch'essa è un corpo. Arnobio, Lattanzio, Ilario, Gregorio di Nissa, Ambrogio non sono di parere diverso. Si vuole che altri Padri della Chiesa abbiano asserito che l'anima è del tutto priva d'estensione, e in ciò la pensassero come Platone; ma questo è assai dubbio. Quanto a me, non oso avere alcun parere; io non vedo che cose incomprensibili nell'uno e nell'altro sistema; e dopo essermi dedicato tutta la vita, sono rimasto al punto di prima.
Non valeva dunque la pena di pensarci.
È vero: chi gode ne sa più di chi riflette, o almeno sa meglio, è più felice. Ma che volete? Non è dipeso da me né di ricevere né di respingere tutte le idee che son piombate nel mio cervello per combattersi a vicenda, prendendo le mie cellule midollari come campo di battaglia. E dopo che si sono ben combattute, non ho raccolto dalle loro spoglie altro che l'incertezza.
È triste avere tante idee, e non conoscere con precisione la loro natura.
Lo ammetto: ma è assai più triste e stupido credere di sapere quello che non si sa.
Idolo viene dal greco $åqäïò$, figura; $ånäùëïí$, rappresentazione di una figura; $ëáôñåýåéí$, servire, riverire, adorare. La parola «adorare» è latina e ha molti significati diversi: significa portare la mano alla bocca parlando con rispetto, inchinarsi, mettersi in ginocchio, salutare e, infine, nel senso più comune, rendere un culto supremo.
È utile rilevare a questo punto che le Mémoires de Trévoux cominciano questa voce col dire che tutti i pagani erano idolatri, e che gli indiani sono tuttora tali. Per prima cosa, nessuno fu mai chiamato «pagano» prima del tempo di Teodosio il Giovane; questo nome fu dato allora agli abitanti dei borghi d'Italia - pagorum incolae, pagani - i quali conservarono la loro antica religione. In secondo luogo, l'Indostan è maomettano, e i maomettani sono implacabili nemici delle immagini e dell'idolatria. In terzo luogo, non bisogna affatto chiamare «idolatri» molti popoli dell'India, che osservano l'antica religione dei parsi, né certe caste che non hanno idoli.
Se sia mai esistito uno stato idolatra
Sembra che non sia mai esistito nessun popolo della terra che si sia autodefinito idolatra. Questa parola è un'ingiuria, un termine oltraggioso, come quello di gavaches che gli spagnoli davano un tempo ai francesi, o quello di marrani che i francesi davano agli spagnoli. Se si fosse chiesto al senato di Roma, all'areopago di Atene, alla corte di Persia: «Siete idolatri?» difficilmente avrebbero inteso questa domanda. Nessuno avrebbe risposto: «Sì, noi adoriamo delle immagini, degli idoli.» La parola «idolatra, idolatria» non si trova né in Omero né in Esiodo, né in Erodoto, né in nessun altro autore della religione dei gentili. Non ci fu mai alcun editto, alcuna legge che ordinasse di adorare degli idoli, di servirli e considerarli come dei.
Quando i condottieri romani e cartaginesi stipulavano un trattato, chiamavano a testimoni tutti i loro dei. «Davanti a loro,» dicevano, «noi giuriamo la pace.» Ora le statue di tutti questi dei, il cui elenco era lunghissimo, non stavano certo nella tenda dei generali. Essi consideravano gli dei come presenti alle azioni degli uomini, come testimoni, come giudici. E certamente la divinità non si riduceva al suo simulacro.
Con che occhio vedevano dunque le statue delle loro false divinità nei templi? Con lo stesso occhio, se è permesso esprimersi così, col quale noi vediamo le immagini degli oggetti della nostra venerazione. L'errore non era quello d'adorare un pezzo di legno o di marmo, ma di adorare una falsa divinità rappresentata da quel legno e quel marmo. La differenza fra loro e noi non consiste nel fatto che essi avessero immagini, mentre noi non ne abbiamo; ma che le loro immagini raffiguravano esseri fantastici in una religione falsa, mentre le nostre raffiguravano esseri reali in una religione vera. I greci avevano la statua di Ercole, e noi quella di san Cristoforo; essi avevano Esculapio e la sua capra, e noi san Rocco e il suo cane; avevano Giove armato del tuono, e noi sant'Antonio da Padova e san Giacomo di Compostella.
Quando il console Plinio, nell'esordio del suo Panegirico a Traiano, rivolge le sue preghiere «agli dei immortali», non è a delle immagini ch'egli si rivolge. Quelle immagini non erano certo immortali.
Né gli ultimi tempi del paganesimo né quelli più remoti offrono un solo esempio che possa far concludere che si adorassero idoli. Omero parla solo degli dei che abitano l'alto Olimpo. Il palladium, benché caduto dal cielo, non era che un sacro pegno della protezione di Pallade: in esso si venerava la dea.
Ma i romani e i greci s'inginocchiavano davanti alle statue degli dei, offrivano loro corone, incenso, fiori, e le portavano in trionfo nelle pubbliche piazze. Noi abbiamo santificato queste usanze, senza per questo essere idolatri.
Le donne, in tempo di siccità, portavano in giro le statue degli dei dopo aver digiunato. Camminavano a piedi nudi, i capelli sciolti, e presto si metteva a piovere a secchi, come dice Petronio: «et statim urceatim pluebat». Non abbiamo forse consacrato quest'uso, illegittimo presso i gentili, e indubbiamente legittimo fra noi? In quante città non si portano in giro, camminando a piedi nudi, le reliquie dei santi per ottenere con la loro intercessione le benedizioni del cielo? Se un turco o un letterato cinese fosse testimone di queste cerimonie, potrebbe sulle prime per ignoranza accusarci di riporre la nostra fiducia nei simulacri che portiamo in processione: ma basterebbe una parola per disingannarlo.
Si resta stupiti del numero straordinario di declamazioni rivolte in tutti i tempi conto l'idolatria dei romani e dei greci; e poi si resta ancora più stupiti quando si vede che essi non erano affatto idolatri.
Ci sono sempre stati templi più privilegiati degli altri. La grande Diana di Efeso godeva di una maggior reputazione di una Diana da villaggio. Avvenivano più miracoli nel tempio di Esculapio a Epidauro che in altri suoi templi. La statua di Giove Olimpio attirava più offerte di quella di Giove Paflagone. Ma, poiché bisogna sempre opporre le usanze di una religione vera a quelle di una religione falsa, non sentiamo anche noi da tanti secoli più devozione per certi altari che per altri? Non portiamo forse più offerte alla Madonna di Loreto che non alla Madonna delle Nevi? Sta a noi vedere se si deve prendere questo pretesto per accusarci d'idolatria.
Si era immaginata una sola Diana, un solo Apollo, un solo Esculapio e non tanti Apolli, tante Diane e tanti Esculapi quante erano le loro statue o i loro templi. È dunque provato, quanto può esserlo un fatto storico, che gli antichi non credevano che una statua fosse una divinità, che il culto non poteva essere riferito a quella statua, a quell'idolo, e che, di conseguenza, gli antichi non erano idolatri.
Un volgo rozzo e superstizioso che non ragionava, che non sapeva né dubitare, né negare, né credere, che accorreva ai templi per ozio, e perché in essi i poveri sono eguali ai ricchi, che portava la sua offerta per abitudine, che parlava continuamente di miracoli senza averne esaminato nessuno, e che non era molto superiore alle vittime che recava; questo volgo, dico, poteva certo, alla vista della grande Diana e di Giove tonante essere colpito da religioso orrore, e adorare, senza saperlo, la statua stessa. È quello che è accaduto e accade talvolta nei nostri templi, con i nostri rozzi contadini; eppure non si è mancato di insegnar loro che devono chiedere la loro intercessione ai Beati, agli immortali accolti in cielo, non a figure di legno o di pietra, e che devono adorare soltanto Dio.
I greci e i romani aumentarono il numero dei loro dei mediante le apoteosi. I greci divinizzavano i conquistatori, come Bacco, Ercole, Perseo. Roma innalzò altari ai suoi imperatori. Le nostre apoteosi sono di genere diverso: noi abbiamo santi in luogo dei loro semidei, dei loro dei secondari; ma non guardiamo né al rango né alle conquiste. Abbiamo dedicato templi a uomini semplicemente virtuosi, i quali sarebbero per la maggior parte ignorati sulla terra, se non fossero stati posti in cielo. Le apoteosi degli antichi venivan fatte per adulazione; le nostre, per rispetto alle virtù. Ma quelle prime apoteosi sono un'altra prova convincente che i greci e i romani non erano propriamente idolatri. È chiaro che non attribuivano maggior virtù divina alle statue di Augusto e di Claudio che ai medaglioni con la loro immagine.
Cicerone, nelle sue opere filosofiche, non lascia nemmeno sospettare che si potesse ingannare nei riguardi delle statue degli dei e confonderle con gli dei stessi. I suoi interlocutori lanciano fulmini contro la religione ufficiale; ma nessuno di loro si sogna di accusare i romani di scambiare dei pezzi di marmo o di bronzo per delle divinità. Lucrezio, pur così severo contro i superstiziosi, non rimprovera questa sciocchezza a nessuno. Dunque, ancora una volta, questa opinione non esisteva, non se ne aveva nessuna idea: non c'erano idolatri.
Orazio fa parlare una statua di Priapo, e le fa dire: «Io una volta ero un tronco di fico; un falegname, non sapendo se fare di me un dio o un sedile, decise infine di farmi dio» ecc. Che dobbiamo concludere da questa storiella faceta? Priapo era una di quelle divinità inferiori, di cui era permesso ridere; e questa stessa storiella è la prova più certa che la figura di Priapo, che veniva posta nei frutteti per spaventare gli uccelli, non era molto riverita.
Dacier, abbandonandosi al suo spirito di commentatore, non ha mancato d'osservare che Baruch aveva predetto questo fatto, dicendo, «Essi non saranno altro che quello che vorranno gli artefici»; ma poteva anche osservare che si può dire lo stesso di tutte le statue.
Si può trarre, da un blocco di marmo, tanto una conca che una statua di Alessandro o di Giove, o di qualcuno ancor più rispettabile. La materia di cui erano fatti i cherubini del Santo dei Santi avrebbe potuto servire ugualmente alle funzioni più vili. Un trono, un altare sono forse meno riveriti perché l'artefice avrebbe potuto farne invece una tavola da cucina?
Dacier, anziché concludere che i romani adoravano la statua di Priapo, e che Baruch l'aveva predetto, avrebbe dovuto dunque concludere che i romani ne ridevano. Consultate tutti gli autori che parlano delle statue dei loro dei, non ne troverete nessuno che parli d'idolatria: dicono esattamente il contrario.
Leggete in Marziale:
Qui finxit sacros auro vel marmore vultus,
Non facit ille deos...
In Ovidio:
Colitur pro Jove forma Jovis.
In Stazio:
Nulla autem effigies, nulli commissa metallo
Forma Dei; mentes habitare ac pectora gaudet.
In Lucano:
Estne Dei sedes, nisi terra et pontus et aer?
Si farebbe un volume di tutti i passi che asseriscono che quelle immagini non erano altro che immagini.
Soltanto nel caso di statue che pronunciavano oracoli, si è potuto pensare che esse avessero in sé qualcosa di divino. Ma certo l'opinione predominante era che gli dei avessero scelto certi altari, certi simulacri per risiedervi ogni tanto, darvi udienza agli uomini e rispondere loro. In Omero e nei cori delle tragedie greche si trovano preghiere dedicate solo ad Apollo, il quale dà i suoi responsi sulle montagne, nel tal tempio, nella tal città: in tutta l'antichità non c'è la minima traccia d'una preghiera rivolta a una statua.
Coloro che praticavano la magia, che la credevano una scienza, o fingevano di crederlo, pretendevano di possedere il segreto di far scendere gli dei nelle statue: non gli dei maggiori, ma quelli secondari, i geni. Era quel che Mercurio Trismegisto chiamava «fare dei» e che sant'Agostino confutava nella sua Città di Dio. Ma ciò stesso mostra con evidenza che i simulacri non avevano in sé niente di divino, poiché bisognava che un mago li animasse. E mi sembra che succedesse di rado che un mago fosse tanto abile da animare una statua e farla parlare. In due parole, le immagini degli dei non erano dei. Giove, e non la sua immagine, lanciava il fulmine; e non era la statua di Nettuno ad agitare i mari né quella di Apollo a diffondere la luce. I greci e i romani erano gentili, politeisti, ma non erano idolatri.
Se i persiani, i sabei, gli egizi, i tartari, i turchi siano stati idolatri e quanto antica sia l'origine dei simulacri chiamati idoli. Storia del loro culto
È un grande errore chiamare «idolatri» i popoli che adorarono il sole e le stelle. Queste nazioni non ebbero per molto tempo né simulacri né templi. Se si ingannarono fu nel rendere agli astri il culto dovuto al creatore di questi. Per di più, il dogma di Zoroastro, o Zardust, raccolto nel Sadder, indica un Essere supremo, vendicatore e remuneratore: e questo è ben lontano dall'idolatria. Il governo della Cina non ebbe mai nessun idolo; conservò sempre il semplice culto del signore del cielo, King-tien. Gengis-Khân, fra i tartari, non era idolatra e non adorava nessun simulacro. I musulmani, di cui sono piene la Grecia, l'Asia Minore, la Siria, la Palestina, l'India e l'Africa, chiamano i cristiani «idolatri», «giaurri», perché credono che i cristiani osservino il culto delle immagini. Fecero a pezzi molte statue che trovarono a Costantinopoli, in Santa Sofia, nella chiesa dei Santi Apostoli e in altre che convertirono in moschee. L'apparenza li ingannò, come sempre inganna gli uomini, e fece loro credere che dei templi dedicati a santi che un giorno erano stati uomini, e le immagini di quei santi riverite in ginocchio, e i miracoli compiuti in quei templi fossero prove inconfutabili della più completa idolatria. Ma non è affatto così. In effetti i cristiani non adorano che un solo Dio e nei beati onorano soltanto la virtù stessa di Dio, che agisce nei suoi santi. Gli iconoclasti e i protestanti lanciarono la stessa accusa d'idolatria alla Chiesa, e si dette loro la stessa risposta.
Dato che gli uomini hanno avuto molto raramente idee precise, e ancor meno le hanno espresse con parole precise e non equivoche, noi chiamammo «idolatri» i gentili, e soprattutto i politeisti. Sono stati scritti volumi immensi e avanzate varie opinioni sull'origine di questo culto reso a Dio e a parecchi dei sotto figure sensibili: questa gran massa di libri e tante opinioni non provano che l'ignoranza.
Non si sa chi inventò gli abiti e le calzature, e vorremmo sapere chi fu il primo a inventare gli idoli? Che importanza ha quel passo di Sanchoniaton, che viveva prima della guerra di Troia? Che ci insegna quando dice che il caos, lo spirito, ovvero «il soffio», amando i suoi principi, ne trasse il limo, rese l'aria luminosa; e che il vento Colp e sua moglie Bau generarono Eon, che Eon generò a sua volta Genos; che Cronos, loro discendente, aveva due occhi dietro e due davanti, che divenne dio e che donò l'Egitto a suo figlio Thoth? Ecco uno dei più rispettabili monumenti dell'antichità.
Orfeo, anteriore a Sanchoniaton, non ci dirà molto di più con la sua Teogonia, conservataci da Damascio. Egli rappresenta il principio del mondo sotto la figura di un dragone con due teste: una di toro, l'altra di leone, un viso in mezzo, che chiama «volto-dio»; e, sulle spalle, ali dorate.
Ma da queste idee bizzarre potrete trarre due grandi verità: la prima, che le immagini sensibili e i geroglifici appartengono alla più remota antichità; la seconda, che tutti gli antichi filosofi riconobbero un primo principio.
Quanto al politeismo, il buon senso vi dirà che, da quando ci furono uomini, ossia animali deboli, capaci di ragione e di follia, soggetti a tutti gli accidenti, alla malattia e alla morte, questi uomini avvertirono la loro debolezza e il loro stato di dipendenza: riconobbero facilmente che esiste qualcosa di più potente di loro; sentirono una forza nella terra che fornisce loro gli alimenti, una nell'aria che spesso li distrugge, una nel fuoco che consuma e nell'acqua che sommerge. Che di più naturale, per uomini ignoranti, dell'immaginare esseri che presiedevano a tali elementi? del riverire la forza invisibile che faceva risplendere ai nostri occhi il sole e le stelle? E, appena ci si volle fare un'idea di quelle potenze superiori all'uomo, che di più naturale del figurarsele in maniera sensibile? Era forse possibile pensare altrimenti? La religione ebraica, che precedette la nostra e che fu data da Dio stesso, era tutta piena di quelle immagini sotto le quali viene rappresentato Dio. Egli si degna di parlare in un roveto il linguaggio umano; appare su una montagna; gli spiriti celesti che invia si presentano tutti sotto forma umana; infine, il santuario è affollato di cherubini, che hanno corpi d'uomini e ali e teste d'animali. Fu questo che dette origine all'errore di Plutarco, di Tacito, d'Appiano e di tanti altri, che rimproverarono agli ebrei di adorare una testa di somaro. Dio, nonostante il suo divieto di dipingere o scolpire qualsiasi immagine, si degnò dunque di conformarsi ai sensi per mezzo di immagini.
Isaia, nel capitolo VI, vede il Signore seduto su un trono, e il lembo della sua veste che riempie il tempio. Il Signore stende la mano e tocca la bocca di Geremia, nel capitolo I del libro di questo profeta. Ezechiele, nel capitolo III, vede un trono di zaffiro e Dio gli appare come un uomo seduto su quel trono. Queste immagini non alterano affatto la purezza della religione ebraica, che non fece mai uso di quadri, di statue, di idoli, per rappresentare Dio agli occhi del popolo.
I letterati cinesi, i parsi, gli antichi egiziani non ebbero idoli; ma ben presto Iside e Osiride furono raffigurati; ben presto Bel, a Babilonia, fu un gran colosso e, nella penisola indiana, Brâhmâ fu un mostro bizzarro. I greci, più degli altri, moltiplicarono i nomi degli dei, le statue e i templi, ma attribuendo sempre il supremo potere al loro Zeus, chiamato dai latini Giove, signore degli dei e degli uomini. I romani imitarono i greci. Sede di tutti gli dei fu sempre, per questi popoli, il cielo, pur senza che essi sapessero cosa intendevano per cielo e per il loro Olimpo; non era molto probabile che questi esseri superiori abitassero nelle nuvole, che non sono che acqua. In un primo tempo ne collocarono sette in sette pianeti, fra i quali era compreso il sole; ma, più tardi, la dimora di tutti gli dei fu l'immensa distesa del cielo.
I romani ebbero i loro dodici grandi dei, sei maschi e sei femmine, che chiamarono Dii majorum gentium: Giove, Nettuno, Apollo, Vulcano, Marte, Mercurio, Giunone, Vesta, Minerva, Cerere, Venere, Diana. Plutone fu allora dimenticato: Vesta prese il suo posto.
Venivano poi gli dei minorum gentium: gli dei indigeni, gli eroi, come Bacco, Ercole, Esculapio; gli dei infernali, Plutone e Proserpina; quelli del mare, come Tetide, Anfitrite, le Nereidi, Glauco, le Driadi, le Naiadi; gli dei degli orti, quelli dei pastori. Ce n'erano per ogni professione, per ogni azione della vita, per i bambini, le ragazze nubili, le sposate, le puerpere; ci fu anche il dio Peto. Infine si divinizzarono gli imperatori. Per la verità, né questi imperatori, né il dio Peto, né la dea Pertunda, né Priapo, né Rumilia, la dea delle mammelle, né Stercuzio, il dio dei cessi, furono mai considerati come i signori del cielo e della terra. Gli imperatori ebbero qualche volta dei templi, i piccoli dei penati non ne ebbero mai, ma tutti ebbero la loro figura, il loro idolo.
Erano piccoli fantocci con cui si ornavano le stanze, lo spasso delle vecchiette e dei bambini, ma non erano autorizzati da nessun culto pubblico. Si lasciava agire a suo piacimento la superstizione di ognuno. Si trovano ancora questi piccoli idoli nelle rovine delle antiche città.
Se nessuno sa quando gli uomini cominciarono a fabbricare idoli, si sa che essi risalgono alla più remota antichità: Tare, padre di Abramo, ne fabbricava a Ur, in Caldea; Rachele rubò e portò via con sé gli idoli di suo suocero Labano. Non possiamo risalire più lontano.
Ma che concetto avevano gli antichi popoli di tutti questi simulacri? Quale virtù, quale potenza si attribuiva loro? Credevano forse che gli dei scendessero dal cielo per venire a nascondersi in quelle statue, o che comunicassero ad esse una parte dello spirito divino, o che non comunicassero niente? Anche su questo punto si è scritto molto e inutilmente: è chiaro che ogni uomo giudicava secondo il grado della sua ragione, o della sua credulità, o del suo fanatismo. È evidente che i preti attribuivano la maggior divinità possibile alle loro statue, per ricevere più offerte. Sappiamo che i filosofi riprovavano queste superstizioni, che i guerrieri ne ridevano, che i magistrati le tolleravano, e che il popolo, sempre ottuso, non sapeva quel che faceva. È, in poche parole, la storia di tutti i popoli cui Dio non si è fatto conoscere.
Ci si può fare la stessa idea del culto che tutto l'Egitto tributò a un bue, e molte città a un cane, a una scimmia, a un gatto, a delle cipolle. Molto probabilmente furono in un primo tempo solo dei simboli. Poi, un certo bue Api, un certo cane chiamato Anubi, vennero adorati; si mangiò sempre del bue, e si mangiarono delle cipolle; ma è difficile sapere che cosa pensassero delle cipolle sacre e dei buoi le vecchiette egiziane.
Gli idoli parlavano abbastanza spesso. A Roma, in occasione della festa di Cibele, si commemoravano le belle parole che la statua aveva pronunziato il giorno in cui se ne fece la traslazione dal palazzo del re Attalo:
Ipsa peti volui; ne sit mora, mitte volentem:
Dignus Roma locus quo deus omnis eat.
Anche la statua della Fortuna aveva parlato: gli Scipioni, Cicerone, i Cesari, per la verità non ci credevano affatto, ma la vecchia, cui Encolpo dette uno scudo perché si comperasse delle oche e degli dei, poteva benissimo crederlo.
Gli idoli pronunciavano anche oracoli, e i sacerdoti nascosti nel cavo delle statue, parlavano in nome della Divinità.
Come mai, fra tanti dei e tante teogonie diverse e culti particolari non ci furono mai guerre di religione fra i popoli chiamati «idolatri»? Quella pace fu un bene che nacque da un male, dall'errore stesso, perché ogni popolo, riconoscendo molti dei inferiori, reputò conveniente che i suoi vicini avessero i loro. Se eccettuate Cambise, cui si rimproverava d'avere ucciso il bue Api, non si trova nella storia profana nessun conquistatore che abbia maltrattato gli dei del popolo vinto. I gentili non avevano nessuna religione esclusiva, e i sacerdoti non pensavano che a far moltiplicare le offerte e i sacrifici.
Le prime offerte furono di frutta; ma ben presto occorsero degli animali per la tavola dei sacerdoti; li sgozzavano essi stessi; diventarono sanguinari e crudeli; infine introdussero l'orrenda usanza di sacrificare vittime umane, e soprattutto bambini e fanciulle. Mai i cinesi, né i parsi, né gli indiani si resero colpevoli di tali abominii. Ma in Egitto, a Ieropoli, a detta di Porfirio, si immolarono uomini.
Nella Tauride si sacrificavano gli stranieri; per fortuna, i sacerdoti della Tauride non dovevano avere molto lavoro. I primi greci, i ciprioti, i fenici, i tiri, i cartaginesi praticarono quest'abominevole superstizione. Gli stessi romani caddero in tale delitto di religione, e Plutarco ci fa sapere che furori sacrificati due greci e due galli, per espiare i peccati d'amore di tre vestali. Procopio, contemporaneo del re dei franchi Teodeberto, dice che quando i franchi entrarono con quel principe in Italia, immolarono degli uomini. Per i galli e i germani tali orribili sacrifici erano pratica comune. Non si può quasi leggere la storia senza concepire orrore per il genere umano.
È vero che, presso gli ebrei, Jefte sacrificò sua figlia, e che Saul fu sul punto d'immolare suo figlio; è vero che coloro che eran votati al Signore per anatema non potevano essere riscattati come si riscattavano gli animali, e bisognava che morissero. Samuele, sacerdote ebreo, tagliò a pezzi con una sacra mannaia il re Agag, prigioniero di guerra cui Saul aveva perdonato; e Saul fu anzi riprovato per aver osservato il diritto delle genti con quel re. Solo Dio, signore degli uomini, può togliere loro la vita quando vuole, e per mezzo di chi vuole; e non spetta agli uomini mettersi al posto del Signore della vita e della morte e usurpare i diritti dell'Essere supremo.
Per consolare il genere umano di quest'orribile quadro, di questi pii sacrilegi, è importante sapere che, presso quasi tutte le nazioni chiamate «idolatre», c'erano la teologia sacra e l'errore popolare, il culto segreto e le cerimonie pubbliche, la religione dei saggi e quella del volgo. Nei misteri si apprendeva agli iniziati l'esistenza di un solo Dio: non c'è che da gettare gli occhi sull'inno attribuito all'antico Orfeo, che si cantava nei misteri di Cerere Eleusina, così celebre in Europa e in Asia: «Contempla la natura divina, illumina il tuo spirito, governa il tuo cuore; cammina nelle vie della giustizia: che il Dio del cielo e della terra sia sempre presente ai tuoi occhi egli è unico, esiste solo per se stesso: tutti gli esseri ricevono da lui la loro esistenza; egli li sostiene tutti; non è mai stato visto dai mortali, e vede ogni cosa.»
Si legga anche questo passo del filosofo Massimo di Madaura, nella sua Lettera a sant'Agostino: «Quale uomo è così rozzo e ottuso da dubitare dell'esistenza di un Dio supremo, eterno, infinito, che niente ha generato di simile a lui, e che é il padre comune di tutte le cose?»
Sappiamo, in base a mille testimonianze, che i saggi aborrivano non solo l'idolatria, ma anche il politeismo.
Epitteto, quel modello di rassegnazione e di pazienza, quell'uomo così grande in una condizione così bassa, non parla mai che di un solo Dio. Ecco una delle sue massime: «Dio mi ha creato, Dio è dentro di me; io lo porto dappertutto. Potrei insozzarlo con pensieri osceni, con azioni ingiuste, con desideri infami? Il mio dovere è di ringraziare Iddio di tutto, lodarlo di tutto e non cessare di benedirlo se non cessando di vivere.» Tutte le idee di Epitteto si basano su questo principio.
Marco Aurelio, tanto grande, forse, sul trono dell'impero romano, quanto Epitteto nella sua condizione di schiavo, parla spesso, in verità, degli dei, sia per conformarsi al linguaggio comune, sia per indicare esseri intermedi fra l'Essere supremo e gli uomini. Ma in questi passi mostra di non riconoscere che un solo Dio, eterno, infinito. «La nostra anima,» dice, «è un'emanazione della Divinità. I miei figli, il mio corpo, il mio spirito mi vengono da Dio.»
Gli stoici, i platonici ammettevano una natura divina e universale; gli epicurei la negavano. I pontefici, nei misteri, parlavano di un solo Dio. Dov'erano dunque gli idolatri?
Del resto, uno dei grandi errori del Dictionnaire del Moréri è l'aver detto che dal tempo di Teodosio il Giovane non restarono più idolatri fuorché nei remoti paesi dell'Asia e dell'Africa. C'erano in Italia molti popoli ancora pagani perfino nel VII secolo. Il Nord della Germania, al di là del Weser, non era ancora cristiano, al tempi di Carlo Magno. La Polonia e tutto il Settentrione rimasero a lungo, dopo di lui, nella cosiddetta idolatria. Metà dell'Africa, tutti i regni al di là del Gange, il Giappone, la plebe della Cina, cento orde di tartari hanno conservato il loro antico culto. Non restano in Europa che alcuni lapponi, alcuni samoiedi e alcuni tartari, i quali hanno perseverato nella religione dei loro avi.
Concludiamo con l'osservare che, nel tempo che da noi vien chiamato medioevo, chiamavamo «Pagania» il paese dei maomettani; trattavamo da «idolatri», da «adoratori di immagini» un popolo che ha in orrore proprio le immagini. Riconosciamo ancora una volta che i turchi sono più che scusabili se, quando vedono i nostri altari carichi di immagini e di statue, ci credono idolatri.
Da quando gli uomini vissero in società, dovettero accorgersi che molti colpevoli sfuggivano al rigore delle leggi. Essi punivano i crimini pubblici: fu necessario stabilire un freno per quelli privati; solo la religione poteva essere tale freno. I persiani, i caldei, gli egiziani, i greci immaginarono così delle punizioni dopo la vita; e, fra tutti gli antichi popoli che conosciamo, gli ebrei furono gli unici che ammisero solo castighi temporali. È ridicolo credere o fingere di credere, sulla base di passi molto oscuri, che l'inferno fosse ammesso dalle antiche leggi degli ebrei, dal loro Levitico, dal loro Decalogo, quando l'autore di queste leggi non dice una sola parola che possa avere il minimo rapporto con i castighi della vita futura. Si avrebbe il diritto di dire al redattore del Pentateuco: «Siete un uomo incoerente, senza probità e senza ragione, assolutamente indegno del nome di legislatore che vi arrogate. Come! Voi conoscete un dogma tanto repressivo e tanto necessario al popolo come quello dell'inferno, e non lo proclamate a chiare lettere? E mentre tale dogma è ammesso da tutti i popoli che vi circondano, vi limitate a lasciarlo indovinare da alcuni commentatori che verranno quattromila anni dopo di voi e che si metteranno a spaccare in quattro qualche vostra parola per trovarvi ciò che non avete detto? O siete un ignorante che non sa che tale credenza era universale in Egitto, in Caldea, in Persia, o siete un uomo assai sprovveduto se, conoscendo quel dogma, non ne avete fatto la base della vostra religione.»
Gli autori delle leggi ebraiche potrebbero tutt'al più rispondere: «Confessiamo d'essere estremamente ignoranti; d'aver imparato a scrivere molto tardi; confessiamo che il nostro popolo era un'orda selvaggia e barbara che errò per quasi mezzo secolo in deserti impraticabili; che usurpò infine, un piccolo paese con le rapine più odiose e le crudeltà più esecrabili che la storia ricordi. Non avevamo nessun commercio con le nazioni civili: come pretendete che noi, i più terrestri degli uomini, potessimo inventare un sistema del tutto spirituale? Noi ci serviamo della parola "anima" solo per designare la vita: non concepimmo il nostro Dio e gli angeli suoi ministri che come esseri corporei: la distinzione dell'anima e del corpo, l'idea di una vita dopo la morte non possono essere che il frutto di una lunga meditazione e di una sottilissima filosofia. Domandate agli ottentotti e ai negri, che abitano un paese cento volte più grande del nostro, se conoscono la vita futura. Abbiamo ritenuto sufficiente persuadere il nostro popolo che Dio punisce i malfattori fino alla quarta generazione, sia con la lebbra, sia con morti improvvise, sia con la perdita di quel po' di beni che potevano possedere.»
A questa apologia si potrebbe replicare: «Avete inventato un sistema il cui ridicolo salta agli occhi; perché il malfattore che godeva buona salute e la cui famiglia prosperava, doveva necessariamente beffarsi di voi.»
Certo, l'apologeta della legge giudaica potrebbe rispondere: «Vi sbagliate: perché per un criminale che ragionava rettamente, ce n'erano cento che non ragionavano affatto. Chi, dopo aver commesso un delitto non si sentiva punito né nel proprio corpo, né in quello di suo figlio, temeva per il nipote. Inoltre, se non soffriva oggi di qualche ulcera puzzolente, cui andavamo spesso soggetti, ne avrebbe sofferto nel corso di qualche anno: in una famiglia piombano sempre delle sventure, e noi facevamo facilmente credere che esse fossero inviate da una mano divina, vendicatrice delle colpe segrete.»
Sarebbe facile replicare a tale risposta: «La vostra giustificazione non vale niente, perché accade tutti i giorni che delle onestissime persone perdano la salute o i beni; e se non c'è famiglia cui non sia capitata qualche sventura, se tali sventure sono castighi di Dio, tutte le vostre famiglie erano dunque famiglie di farabutti.»
Il sacerdote ebreo potrebbe replicare ancora; direbbe che vi sono sventure inerenti alla natura umana, ed altre che vengono espressamente inviate da Dio. Ma si farebbe vedere a questo raziocinatore quanto sia ridicolo pensare che la febbre e la grandine siano una volta una punizione divina e un'altra un fenomeno naturale.
Infine, presso gli ebrei, i farisei e gli esseni accolsero la credenza di un inferno a loro modo: questo dogma era già passato dai greci e dai romani, e fu adottato dai cristiani.
Molti Padri della Chiesa non credettero all'eternità delle pene: sembrava loro assurdo bruciare per tutta l'eternità un poveraccio che avesse rubato una capra. Ha un bel dire Virgilio nel suo sesto canto dell'Eneide:
...Sedet aeternumque sedebit
Infelix Theseus.
Egli pretende invano che Teseo sia seduto per sempre su una sedia e che questa posizione sia il suo supplizio. Altri hanno creduto che Teseo fosse un eroe e che non se ne stesse seduto all'inferno, ma dimorasse nei Campi Elisi.
Non molto tempo fa un bravo e onesto ministro ugonotto predicò e scrisse che i dannati sarebbero stati un giorno graziati, che era necessaria una proporzione tra il peccato e la pena, e che la colpa di un momento non può meritare un castigo senza fine. I preti, suoi confratelli, deposero questo giudice indulgente. Uno di loro gli disse: «Amico mio, non credo più di voi all'eternità dell'inferno; ma è bene che la vostra domestica, il vostro sarto e anche il vostro procuratore ci credano.»
Ci fu un tempo in cui il globo fu interamente inondato? La cosa è fisicamente impossibile.
Può essere che il mare abbia via via sommerso una dopo l'altra tutte le terre; però questo può essere avvenuto soltanto con una lenta gradazione, nel corso di un numero prodigioso di secoli. Il mare, in cinquant'anni, si è ritirato da Aigues-Mortes, da Frèjus, da Ravenna, che erano dei grandi porti, lasciando circa due leghe di terreno a secco. Con tale progressione, è evidente che gli ci vorrebbero due milioni e duecentocinquantamila anni per fare il giro del nostro globo. Va sottolineato che questo spazio di tempo si avvicina di molto a quello che occorre all'asse della terra per sollevarsi e coincidere con l'equatore: movimento assai verosimile, che da cinquant'anni s'è cominciato a prospettare, e che non può effettuarsi che nello spazio di due milioni e più di trecentomila anni.
Gli alvei marini, gli strati di conchiglie che sono stati scoperti da ogni parte, a sessanta, a ottanta, perfino a cento leghe dal mare, sono una prova incontestabile che esso ha deposto a poco a poco queste produzioni marine su terreni che una volta erano le rive dell'oceano. Ma che l'acqua abbia ricoperto per intero tutto il globo nel medesimo tempo, è una chimera assurda in fisica, dimostrata impossibile dalle leggi della gravitazione, dalle leggi dei fluidi, dall'insufficienza della quantità di acqua. Non pretendiamo certo condurre il minimo attacco contro la grande verità del diluvio universale raccontato nel Pentateuco; al contrario, è un miracolo, e dunque bisogna crederci; è un miracolo, e dunque non può essere stato messo in atto dalle forze fisiche.
Tutto è miracolo nella storia del diluvio: un miracolo che quaranta giorni di pioggia abbiano sommerso le quattro parti del mondo, e che l'acqua si sia elevata di quindici cubiti al di sopra di tutte le più alte montagne; un miracolo che ci siano state cateratte, porte, aperture nel cielo; un miracolo che tutti gli animali si siano recati nell'arca da tutte le parti del mondo; un miracolo che Noè abbia trovato di che nutrirli per dieci mesi; un miracolo che tutti gli animali e le relative provviste abbian potuto prendere posto nell'arca; un miracolo che la maggior parte non siano morti; un miracolo che abbian trovato di che nutrirsi, sbarcando dall'arca; un miracolo ancora, però di un'altra specie, che un tale chiamato Le Pelletier abbia creduto di spiegare come tutti gli animali sian potuti entrare nell'arca di Noè e si siano potuti nutrire in modo naturale.
Ora, essendo la storia del diluvio la cosa più miracolosa di cui si sia mai sentito parlare, sarebbe insensato spiegarla: sono misteri che si credono per fede; e la fede consiste nel credere a quello che la ragione non comprende: il che è ancora un altro miracolo.
Così la storia del diluvio universale è come quella della torre di Babele, dell'asina di Balaam, della caduta di Gerico al suono delle trombe, delle acque tramutate in sangue, del passaggio del mar Rosso e di tutti i miracoli che Dio si degnò di compiere in favore degli eletti del suo popolo; sono profondità che la mente umana non può sondare.
L'Inquisizione è, come si sa, un'invenzione mirabile e autenticamente cristiana per rendere più potenti il papa e i monaci e per rendere ipocrita un intero regno.
Si considera di solito san Domenico il primo cui si deve questa santa istituzione. In effetti, abbiamo ancora una patente rilasciata da questo grande santo, e concepita in questi precisi termini: «Io, frate Domenico, riconcilio con la chiesa il nominato Ruggero, latore della presente, a condizione che egli si faccia frustare da un prete per tre domeniche consecutive, dall'entrata della città fino alla porta della chiesa; che mangi di magro tutta la vita; che digiuni per tre quaresime all'anno; che non beva mai vino; che porti il san-benito con le croci; che reciti il breviario tutti i giorni, dieci Pater al giorno, e venti all'ora di mezzanotte; che osservi d'ora in poi la continenza, e che si presenti tutti i mesi al curato della sua parrocchia ecc. Il tutto sotto pena d'essere trattato come eretico, spergiuro e impenitente.»
Sebbene Domenico sia stato il vero fondatore dell'Inquisizione, nondimeno Luigi da Paramo, uno dei più rispettabili scrittori e dei più brillanti luminari del Sant'Uffizio, asserisce, nel titolo secondo del suo secondo libro, che il primo istitutore del Sant'Uffizio fu Dio, e che egli esercitò il potere dei frati predicatori contro Adamo. Dapprima Adamo fu citato in tribunale: «Adam, ubi es?»; e infatti, aggiunge il Paramo, il difetto di citazione avrebbe reso nulla la procedura di Dio.
Gli abiti di pelle che Dio fece ad Adamo e a Eva furono il modello del san-benito che il Sant'Uffizio fa indossare agli eretici. È vero che con questo argomento si prova che Dio fu il primo sarto; ma non è meno evidente che fu anche il primo inquisitore.
Adamo fu privato di tutti i beni immobili che possedeva nel paradiso terrestre: è per questo che il Sant'Uffizio confisca i beni di tutti coloro che ha condannato.
Luigi da Paramo nota che gli abitanti di Sodoma furono bruciati come eretici, perché la sodomia è un'eresia formale. Da qui egli passa alla storia ebraica, dove trova dappertutto il Sant'Uffizio.
Gesù Cristo è il primo inquisitore della nuova legge; i papi furono inquisitori per diritto divino, e finalmente comunicarono questo loro potere a san Domenico.
Fa, poi, l'enumerazione di tutti coloro che l'Inquisizione ha messo a morte, e ne novera molto più di centomila.
Il suo libro fu stampato nel 1589, a Madrid, con l'approvazione dei teologi, gli elogi del vescovo, e il privilegio del re. Noi, oggi, non riusciamo a concepire orrori così pazzeschi e insieme così abominevoli; ma allora niente sembrava più naturale ed edificante. Tutti gli uomini assomigliano a Luigi da Paramo, quando sono fanatici.
Questo Paramo era un uomo semplice, esattissimo nelle date, che non ometteva nessun fatto interessante, e che computava con scrupolo il numero delle vittime umane immolate in tutti i paesi dal Sant'Uffizio.
Egli racconta col più grande candore come venne istituita l'Inquisizione in Portogallo, ed è perfettamente d'accordo con altri quattro storici, che hanno scritto le stesse cose. Ecco cosa riferiscono unanimi.
Già da gran tempo, ai primi del XV secolo, papa Bonifacio IX aveva delegato dei frati domenicani che andavano in Portogallo, di città in città, a bruciare gli eretici, i musulmani e gli ebrei; ma erano frati itineranti, e gli stessi re si lamentarono talvolta delle loro vessazioni. Papa Clemente VII volle dar loro un insediamento fisso in Portogallo, come già l'avevano in Aragona e in Castiglia. Ci furono delle difficoltà fra la corte di Roma e quella di Lisbona; gli animi si inasprirono, l'Inquisizione ne soffriva, non potendo ancora funzionare a suo agio.
Nel 1539 comparve a Lisbona un legato del papa, venuto, diceva, per stabilire la Santa Inquisizione su fondamenta incrollabili. Egli reca a re Giovanni III lettere di papa Paolo III. Aveva anche altre lettere di Roma per i principali personaggi della corte; le sue patenti di legato erano debitamente sigillate e firmate; egli mostrò di detenere i più ampi poteri di nominare un grande inquisitore e tutti i giudici del Sant'Uffizio. Si trattava di un truffatore, di nome Saavedra, che sapeva contraffare tutte le scritture, fabbricare e applicare falsi sigilli e falsi bolli. Aveva imparato questo mestiere a Roma e si era perfezionato a Siviglia, da dove arrivava con altri due furfanti. Il suo seguito era magnifico: aveva al suo servizio più di centoventi domestici. Per sovvenire a quest'enorme spesa, lui e i suoi due confidenti si erano fatti prestare a Siviglia somme ingenti a nome della camera apostolica di Roma. Tutto era concertato col più abbagliante artificio.
Sulle prime il re del Portogallo restò stupito che il papa gli inviasse un legato a latere senza averlo prevenuto. Il legato rispose fieramente che in una cosa di tale urgenza, come l'istituzione stabile dell'Inquisizione, Sua Santità non poteva tollerare indugi, e che il re doveva sentirsi abbastanza onorato che il primo corriere che gliene portava notizia fosse un legato del Santo Padre. Il re non osò replicare. Il legato, il giorno stesso, nominò un grande inquisitore, mandò dappertutto a riscuotere decime e, prima che la corte potesse avere risposta da Roma, aveva già fatto bruciare duecento persone e raccolto più di duecentomila scudi.
Frattanto, il marchese di Villanova, un nobile spagnolo da cui il legato si era fatto prestare a Siviglia una somma assai ragguardevole su dei biglietti falsi, ebbe l'ottima idea di pagarsi con le sue mani, invece di andare a compromettersi con quel truffatore a Lisbona. Il legato stava allora facendo il suo giro sui confini della Spagna. L'altro lo raggiunge con cinquanta uomini armati, lo cattura e lo conduce a Madrid.
La truffa fu presto scoperta a Lisbona; il consiglio di Madrid condannò il legato Saavedra alla frusta e a dieci anni di galera; ma l'incredibile fu che in seguito papa Paolo IV confermò tutto quello che aveva dichiarato quell'uomo infame: con la pienezza dei suoi poteri divini rettificò tutte le piccole irregolarità di procedura e rese sacro quel che era stato puramente umano.
Qu'importe de quel bras Dieu daigne se servir?
Ecco come l'Inquisizione si stabilì a Lisbona, e tutto il regno ammirò la Provvidenza.
Del resto, sono abbastanza conosciute tutte le procedure di quel tribunale; si sa bene quanto siano contrarie alla falsa equità e alla cieca ragione di tutti gli altri tribunali del mondo. Si è imprigionati dietro la semplice denuncia delle persone più scellerate; un figlio può denunciare il padre, una donna il marito; non si è mai messi a confronto con i propri accusatori, i beni vengono confiscati a favore dei giudici: così almeno si è comportata l'Inquisizione fino ai giorni, nostri. V'è in ciò qualcosa di divino, perché è incomprensibile che gli uomini abbiano sopportato con tanta pazienza questo giogo.
Finalmente il conte d'Aranda fu benedetto dall'Europa intera per avere spuntato gli artigli e limato i denti del mostro. Ma esso respira ancora.
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Risulta evidente, dal testo del libro dei Giudici, che Jefte promise di sacrificare la prima persona che uscisse dalla sua casa a congratularsi con lui per la sua vittoria contro gli ammoniti. Gli venne incontro la sua unica figlia: egli si strappò le vesti e la immolò, dopo averle permesso d'andare a piangere sulle montagne la disgrazia di morire vergine. Le fanciulle ebree celebrarono a lungo questo evento, piangendo la figlia di Jefte per quattro giorni.
In qualsiasi tempo sia stata scritta questa storia, se sia stata imitata dalla storia greca di Agamennone o d'Idomeneo, o ne sia stata il modello; ch'essa sia anteriore o posteriore ad analoghe storie assire non è questo che voglio esaminare. Io mi attengo al testo: Jefte votò sua figlia in olocausto e adempì al suo voto.
Era espressamente comandato dalla legge ebraica di immolare gli uomini votati al Signore: «Ogni uomo votato non sarà riscattato, ma verrà messo a morte senza remissione». La Vulgata traduce: «Non redimetur, sed morietur» (Levitico XXVII, 29). È in virtù di tale legge che Samuele fece a pezzi il re Agag, cui Saul aveva perdonato; e proprio per aver risparmiato Agag, Saul fu riprovato dal Signore e perdette il suo regno. Ecco, dunque, i sacrifici di sangue umano chiaramente stabiliti: nessun punto della storia è meglio appurato. Di una nazione si può giudicare soltanto rivolgendosi ai suoi archivi e in base a quel che riferisce di sé.
Ultima modifica 12.01.2009