GENESI | ||
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GIULIANO IL FILOSOFP |
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GLORIA |
GENESI
Non anticiperemo qui quanto diciamo di Mosè nella voce a lui dedicata; seguiremo, per ordine, qualche passo principale del Genesi.
«Nel principio Iddio creò il cielo e la terra.»
Così è stato tradotto, ma la traduzione non è esatta. Non c'è uomo un po' istruito che non sappia che il testo porta: «Nel principio, gli dei fecero» oppure «gli dei fece il cielo e la terra». D'altronde, questa lezione è conforme all'antica idea dei fenici, i quali avevano immaginato che Dio, avesse impiegato divinità inferiori per dare ordine al caos, lo sciautereb. I fenici erano da molto tempo un popolo potente, che aveva già la sua teogonia prima che gli ebrei si fossero impadroniti di qualche villaggio sui confini del loro paese. È ben naturale pensare che, quando gli ebrei ebbero finalmente un piccolo insediamento presso la Fenicia, abbiano cominciato ad apprenderne la lingua, soprattutto quando vi furono schiavi. Allora, coloro che impararono a scrivere, si misero bellamente a copiare qualcosa dell'antica teologia dei loro padroni: è così che avanza lo spirito umano.
Nei tempi in cui si crede che Mosè sia vissuto, i filosofi fenici ne sapevano probabilmente abbastanza per considerare la terra come un punto, a paragone della infinita moltitudine di mondi che Dio ha posti nell'immensità dello spazio chiamato «cielo». Ma quell'idea, così antica e così falsa che il cielo sia stato fatto per la terra, è sempre prevalsa nel volgo ignorante. È press'a poco come se si dicesse che Dio creò tutte le montagne e un granello di sabbia, e ci si immaginasse che le montagne siano state fatte per quel granello! Non è possibile che i fenici, così abili navigatori, non avessero dei buoni astronomi; ma i vecchi pregiudizi prevalevano, e questi vecchi pregiudizi furono la sola scienza degli ebrei.
«La terra era tohu-bohu e vuota; le tenebre erano sopra la faccia dell'abisso, e lo spirito di Dio era portato sulle acque.»
Tohu-bohu significa precisamente caos, disordine; è uno di quei vocaboli imitativi che si trovano in tutte le lingue, come «sottosopra», «frastuono», «trictrac». La terra non aveva ancora la forma di adesso, la materia esisteva, ma la potenza divina non l'aveva ancora formata. Lo spirito di Dio significa il soffio, il vento, che agitava le acque. Quest'idea è espressa nei frammenti dell'autore fenicio Sanchuniathon. I fenici, come tutti gli altri popoli, credevano all'eternità della materia. Non c'è un solo autore, nell'antichità, che abbia mai detto che qualcosa sia stato tratto dal nulla. In tutta la Bibbia non si trova nemmeno un passo in cui si dice che la materia venne creata dal nulla.
Gli uomini furono sempre divisi sulla questione dell'eternità del mondo, ma mai su quella dell'eternità della materia.
Ex nihilo nihil, in nihilum nil posse reverti.
Ecco l'opinione di tutta l'antichità.
«Dio disse: Sia fatta la luce, e la luce fu; ed egli vide che la luce era buona e separò la luce dalle tenebre; e Dio chiamò la luce "giorno" e le tenebre "notte": e la sera e il mattino furono un giorno. E Dio disse anche: Sia fatto il firmamento in mezzo alle acque, ed esso separi le acque dalle acque. E Dio fece il firmamento e divise le acque al di sopra del firmamento da quelle al di sotto del firmamento; e Dio chiamò il firmamento "cielo". E la sera e il mattino furono il secondo giorno ecc. E Dio vide che ciò era buono.»
Cominciamo con l'esaminare se il vescovo di Avranches, Huet, e Leclerc non abbiano avuto veramente ragione contro coloro che pretendono di trovare in questo passo un tratto di eloquenza sublime.
Questo tipo di eloquenza non appartiene a nessuna storia scritta dagli ebrei. Lo stile è qui della massima semplicità, come nel resto dell'opera. Se un oratore, per far conoscere la potenza di Dio, si servisse di questa sola espressione: «Egli disse: Sia fatta luce, e la luce fu», sarebbe veramente sublime. Tale è quel passo di un salmo: «Dixit, et facta sunt». È un tratto che, unico in quel passo e posto in modo da rendere una grande immagine, colpisce l'animo e lo rapisce. Ma qui siamo davanti a una narrazione di una semplicità assoluta. L'autore ebreo non parla della luce diversamente da come parla degli altri oggetti della creazione; ripete egualmente ad ogni versetto: «E Dio vide che ciò era buono.». Tutto è sublime nella creazione, non c'è dubbio: ma quella della luce non lo è più di quella dell'erba dei campi. Sublime è ciò che si innalza al di sopra del resto, mentre qui lo stesso tono regna in tutto il capitolo.
Era anche opinione antichissima che la luce non venisse dal sole. Vedendola diffondersi prima del levarsi e dopo il tramontare del sole, gli uomini immaginavano che il sole servisse solo a darle maggior forza. Così l'autore del Genesi si conforma a questo errore popolare; e, per una singolare inversione dell'ordine delle cose, fa creare il sole e la luna addirittura quattro giorni dopo la luce. Non riusciamo a capire come ci possano essere un mattino e una sera prima che ci sia un sole: c'è qui una confusione che è impossibile sbrogliare. Quell'autore «ispirato» si conformava ai vaghi e rozzi pregiudizi del suo popolo. Dio non pretendeva di insegnare la filosofia agli ebrei; certo, avrebbe potuto innalzare il loro spirito fino alla verità, ma preferì abbassarsi fino a loro.
La separazione della luce e delle tenebre non appartiene a una fisica migliore; sembra che la notte e il giorno fossero mescolati assieme come grani di specie diversa che debbano venir separati. È abbastanza noto che le tenebre non sono altro che la privazione della luce, e che non c'è luce, in realtà, se non in quanto i nostri occhi ne ricevono la sensazione; ma a quei tempi si era ben lontani dal conoscere queste verità.
Anche l'idea di un firmamento appartiene alla più remota antichità. Ci si immaginava che i cieli fossero del tutto solidi, perché vi si vedevano sempre gli stessi fenomeni. I cieli ruotavano sul nostro capo, e dunque dovevan essere fatti di una materia durissima. E il modo di calcolare come le esalazioni della terra e dei mari potevano fornire acqua alle nubi? Non c'era nessun Halley che potesse fare questo calcolo. Ci dovevan essere dunque dei serbatoi d'acqua, nel cielo.
Questi serbatoi non potevano essere sostenuti che da una volta molto solida: vi si vedeva attraverso, e dunque essa doveva essere di cristallo. Perché le acque superiori cadessero da questa volta sulla terra, era necessario che ci fossero porte, chiuse, cateratte, che s'aprissero e si chiudessero. Tale era l'astronomia ebraica; e poiché si scriveva per gli ebrei, bisognava pur adottare le loro idee.
«E Dio fece due grandi luminari: uno per presiedere al giorno, l'altro alla notte; e fece anche le stelle.»
Sempre la stessa ignoranza della natura. Gli ebrei non sapevano che la luna illumina solo di luce riflessa. E l'autore parla qui delle stelle come di una bagattella, sebbene esse siano altrettanti soli ciascuno dei quali ha dei mondi che ruotano attorno a lui. Lo Spirito Santo si proporzionava allo spirito dei tempi.
«Dio disse ancora: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, che sia padrone dei pesci del mare"...»
Che intendevano gli ebrei per «facciamo l'uomo a nostra immagine»? Quel che intendeva tutta l'antichità:
Finxit in effigiem moderantum cuncta deorum.
Si fanno immagini solo di corpi. Nessun popolo immaginò un Dio senza corpo, ed è impossibile rappresentarselo altrimenti. Si può ben dire: «Dio non è nulla di tutto ciò che conosciamo», ma non si può avere alcuna idea di quello che egli è. Gli ebrei credettero sempre a un Dio corporeo, come tutti gli altri popoli. Tutti i primi Padri della Chiesa credettero anch'essi a un Dio corporeo, finché non ebbero abbracciato le idee di Platone.
«Egli li creò maschio e femmina.»
Se Dio o gli dei secondari crearono l'uomo maschio e femmina, sembra, in questo caso, che gli ebrei credessero Dio e gli dei maschi e femmine. D'altronde non si capisce se l'autore voglia dire che l'uomo aveva dapprima in sé i due sessi, o se intende che Dio creò Adamo ed Eva lo stesso giorno. Il senso più naturale è che Dio formò Adamo ed Eva contemporaneamente, ma questo sarebbe in contraddizione con la formazione della donna, fatta con una costola dell'uomo molto tempo dopo i sette giorni.
«Ed egli il settimo giorno si riposò.»
I fenici, i caldei, gli indiani dicevano che Dio aveva creato il mondo in sei tempi, che l'antico Zoroastro chiama i sei gâhânbâr, così celebri tra i persiani.
È incontestabile che tutti questi popoli avevano una teologia prima che l'orda ebraica abitasse i deserti di Horeb e del Sinai, prima che potesse avere degli scrittori. È dunque assai verosimile che la storia dei sei giorni sia stata imitata da quella dei sei tempi.
«Dal luogo di voluttà usciva un fiume che irrigava il giardino, e di lì si divideva in quattro fiumi; il primo si chiama Pishon (Fison), che gira nel paese di Havila da cui viene l'oro... Il secondo si chiama Ghihon, che circonda l'Etiopia... Il terzo è il Tigri e il quarto l'Eufrate.»
Secondo questa versione il paradiso terrestre avrebbe occupato quasi un terzo dell'Asia e dell'Africa. L'Eufrate e il Tigri hanno la loro sorgente a più di sessanta leghe l'una dall'altra, tra montagne orribili che non somigliano certo ad un giardino. Il fiume che costeggia l'Etiopia, e che non può essere che il Nilo o il Niger, comincia a più di settecento leghe dalle sorgenti del Tigri e dell'Eufrate; e, se il Fison è il Fasi, è ben strano che sia stata messa nello stesso luogo la sorgente di un fiume della Scizia e quella di un fiume dell'Africa.
Del resto, il giardino dell'Eden è chiaramente quello di Eden a Saana, nell'Arabia Felice, famosa in tutta l'antichità. Gli ebrei, popolo molto recente, erano un'orda araba. E menavano vanto di quel che c'era di più bello nel miglior cantone dell'Arabia. Essi si son sempre serviti delle antiche tradizioni delle grandi nazioni in cui si trovavano incorporati.
«Il Signore prese dunque l'uomo e lo pose nel giardino di voluttà perché lo coltivasse.»
È una bellissima cosa «coltivare il proprio giardino», ma è molto improbabile che Adamo potesse coltivare un giardino di sette od ottocento leghe d'estensione. O forse gli furon dati degli aiutanti.
«Non mangiate il frutto della scienza del bene e del male.»
È difficile concepire che ci sia stato un albero che insegnasse il bene e il male, come ci sono peri e albicocchi. E poi, perché Dio non vuole che l'uomo conosca il bene e il male? Il contrario non è molto più degno di Dio e molto più necessario all'uomo? Secondo la nostra povera ragione parrebbe giusto che Dio ordinasse di mangiarne molto di quel frutto; ma bisogna che la nostra ragione si sottometta.
«Come ne avrete mangiato, morirete.»
Tuttavia Adamo ne mangiò e non morì. Molti Padri hanno considerato tutto ciò un'allegoria. In effetti, si potrebbe dire che gli animali non sanno di dover morire, mentre l'uomo lo sa per merito della sua ragione. Questa ragione è l'albero della scienza che gli fa prevedere la sua fine. Una spiegazione che potrebbe essere forse la più ragionevole.
«Il Signore disse anche: "Non è bene che l'uomo sia solo, facciamogli un aiuto simile a lui."»
Ci si aspetta che il Signore dia ad Adamo una donna. Nient'affatto: il Signore gli dà come compagni tutti gli animali.
«E il nome che Adamo diede a ciascuno degli animali è il loro vero nome.»
Per «vero nome» di un animale si può intendere un nome che designi tutte le proprietà della sua specie, o almeno le principali. Ma questo non si trova in nessuna lingua del mondo. In ognuna vi sono solo alcuni nomi imitativi, come «coq» in lingua celtica e «lupus» in latino. Ma questi nomi imitativi sono in numero minimo. E poi, se Adamo avesse conosciuto tutte le proprietà degli animali, o aveva già mangiato il frutto della scienza, o non c'era bisogno che Dio gli vietasse di mangiarlo.
Osservate che questa è la prima volta che Adamo è nominato nel Genesi. Presso gli antichi brahmani, enormemente anteriori agli ebrei, il primo uomo si chiamava Adimo, «il figlio della terra», e sua moglie Procriti, «la vita»: è quel che dice il Veidam, che è forse il libro più antico del mondo. I nomi di Adamo e di Eva avevano lo stesso significato, nella lingua fenicia.
«Mentre Adamo era addormentato, Dio prese una delle sue costole, e mise della carne al suo posto, e, con la costola tolta ad Adamo, fece una donna e la condusse ad Adamo.»
Il Signore, nel capitolo precedente, aveva già creato il maschio e la femmina; perché dunque togliere una costola all'uomo per farne una donna che già esisteva? Si suol rispondere che l'autore annuncia in un luogo quel che spiega nell'altro.
«Ora il serpente era il più astuto degli animali della terra... Esso disse alla donna...»
In tutto questo passo non si fa nessuna menzione del diavolo; tutto qui è puramente fisico. Il serpente era considerato da tutti i popoli orientali non solo come l'animale più astuto di tutti, ma anche come immortale. In una favola dei caldei si narrava di una lite tra Dio e il serpente; questa favola era stata conservata da Ferecide. Origene la cita nel suo sesto libro Contro Celso. Nelle feste di Bacco si portava in processione un serpente. A quanto dice Eusebio, nella sua Praeparatio Evangelica, libro I, capitolo X, gli egiziani attribuivano al serpente un carattere divino. In Arabia e nelle Indie e nella Cina stessa, il serpente era considerato come il simbolo della vita; è questa la ragione per cui gli imperatori cinesi, anteriori a Mosè, portarono sempre sul petto l'immagine di un serpente.
Eva non è affatto stupita che il serpente le parli. Gli animali han sempre parlato, in tutte le antiche storie; è per questo che quando Pilpai e Loqman fecero parlare gli animali, nessuno ne restò sorpreso.
Tutta questa avventura è talmente fisica e spoglia d'ogni allegoria, che vi si spiega perché, da allora, il serpente striscia sul ventre, perché noi cerchiamo sempre di schiacciarlo e perché esso cerca sempre di morderci; precisamente come si spiegava nelle antiche storie di metamorfosi perché il corvo, che in altri tempi era bianco, oggi è nero; perché il gufo esce dal suo buco solo di notte; perché il lupo ama la strage ecc.
«Io moltiplicherò le tue miserie e le tue gravidanze: partorirai nel dolore; sarai sotto il potere dell'uomo ed egli ti dominerà.»
Non si capisce perché la moltiplicazione delle gravidanze sia una punizione. Era, al contrario, una grandissima benedizione, soprattutto per gli ebrei. I dolori del parto sono forti solo nelle donne delicate: quelle che sono abituate al lavoro partoriscono senza difficoltà, soprattutto nei climi caldi. E invece ci sono animali che soffrono molto durante il parto, e ce ne sono anche che ne muoiono. Quanto poi alla superiorità dell'uomo sulla donna, è cosa assolutamente naturale: è l'effetto della maggior forza fisica, e anche spirituale. Gli uomini in generale hanno organi più capaci di un'applicazione continua e sono più adatti ai lavori della mente e del braccio. Ma quando una donna ha più polso e più acume del marito, ella ne è in tutto la padrona: in questo caso il marito è soggetto alla moglie.
«Il Signore fece loro tuniche di pelle.»
Questo passo prova chiaramente che gli ebrei credevano in un Dio corporeo, dato che gli fanno esercitare il mestiere di sarto. Un rabbino chiamato Eliezer scrisse che Dio coprì Adamo ed Eva con la stessa pelle del serpente che li aveva tentati; e Origene pretende che questa tunica di pelle era una nuova carne, un nuovo corpo che Dio fece all'uomo.
«E il Signore disse: "Ecco Adamo che è diventato come uno di noi."»
Bisogna rinunciare al senso comune per non convenire che gli ebrei ammisero da principio più dei. Più difficile è sapere che cosa intendessero con la parola Dio, Elôhîm. Qualche commentatore ha preteso che questa parola, che significa «uno di noi», alluda alla Trinità; ma nella Bibbia è certo che non si parla mai della Trinità. La Trinità non è un insieme di più dei, è lo stesso Dio triplice; e gli ebrei non intesero mai parlare di un Dio in tre persone. Con queste parole «simili a noi», è molto probabile che gli ebrei intendessero gli angeli, Elôhîm, e quindi che questo libro fu scritto quando essi adottarono la credenza di queste divinità inferiori.
«Il Signore lo mandò via dal giardino di voluttà perché coltivasse la terra.»
Ma il Signore lo aveva messo in quel giardino perché lo «coltivasse». Se Adamo da giardiniere diventò agricoltore, bisogna riconoscere che il suo stato non peggiorò molto: un buon agricoltore val bene un buon giardiniere.
Tutta questa storia in generale si riferisce all'idea che ebbero tutti gli uomini e che hanno ancora: che i primi tempi fossero migliori dei nuovi. Sempre ci siamo lamentati del presente e abbiamo rimpianto il passato. Gli uomini sovraccarichi di lavoro posero la felicità nell'ozio, senza pensare che la peggiore delle condizioni è quella di non aver niente da fare. E quando l'uomo si sentì infelice, si foggiò l'idea di un tempo in cui tutti erano stati felici. Su per giù è come se si dicesse: «Ci fu un tempo in cui nessun albero moriva, nessuna bestia era né malata né debole, né divorata da un'altra.» Di qui l'idea dell'età dell'oro, dell'uovo bucato da Arimane, del serpente che rubò all'asino la ricetta della vita felice e immortale, che l'uomo aveva messo sul suo basto; di qui il combattimento di Tifone contro Osiride, di Ofioneo contro gli dei, e quel famoso vaso di Pandora, e tutte quelle antiche favole delle quali qualcuna è divertente, ma nessuna è istruttiva.
«Ed egli mise nel giardino di voluttà un cherubino con una spada volteggiante e fiammeggiante per custodire l'accesso all'albero della vita.»
La parola Kerub significa «bue». Un bue armato di una spada fiammeggiante fa una curiosa figura davanti a una porta. Ma gli ebrei rappresentarono più tardi degli angeli in figura di buoi e di sparvieri, sebbene fosse loro proibito fare qualsiasi immagine. Sicuramente essi presero quei buoi e quegli sparvieri dagli egiziani, da cui imitarono tante cose. Gli egiziani venerarono dapprima il bue come simbolo dell'agricoltura, e lo sparviero come quello dei venti; ma non fecero mai di un bue un portinaio.
«E i figli di Elôhîm, vedendo che le figlie degli uomini erano belle, presero per mogli quelle che scelsero.»
Anche quest'immaginazione fu comune a tutti i popoli: non c'è paese, esclusa la Cina, in cui qualche dio non sia sceso a fare figli con qualche ragazza. Questi dei corporei discendevano spesso sulla terra per visitare i loro domini; vedevano le nostre ragazze e sceglievano le più belle; i figli nati dal connubio di questi dei con donne mortali dovevano essere superiori agli altri uomini; così il Genesi non manca di dire che questi dei che si unirono alle nostre ragazze misero al mondo dei giganti.
«E io farò scendere sulla terra le acque del diluvio.»
Osserverò soltanto che sant'Agostino, nel suo De civitate Dei, dice: «Maximum illud diluvium graeca nec latina novit historia»: né la storia greca, né quella latina conoscono questo grande diluvio. Infatti, in Grecia, si sapeva solo di quelli di Deucalione e di Ogige, considerati come universali nelle favole raccolte da Ovidio, ma del tutto ignorati nell'Asia orientale.
«Dio disse a Noè: "Io stringerò un patto di alleanza con te e con la tua progenie dopo di te e con tutti gli animali."»
Dio che si allea con le bestie? Bella unione!, dicono gli increduli. Ma se egli si allea con l'uomo, perché non con la bestia? Anch'essa è dotata di sentimento, e nel sentimento c'è qualcosa di altrettanto divino che nel pensiero più metafisico. D'altronde gli animali sentono molto più di quanto non pensi la maggior parte degli uomini. Molto probabilmente, proprio in virtù di quel patto, Francesco d'Assisi, fondatore dell'ordine serafico, diceva alle cicale e alle lepri: «Canta, sorella cicala; bruca, fratello leprotto.» Ma quali furono le condizioni del patto? Che tutti gli animali si sarebbero divorati l'un l'altro; che si sarebbero nutriti del nostro sangue, e noi del loro; che, oltre a mangiarli, li avremmo ferocemente sterminati; ci resta soltanto di mangiare i nostri simili scannati con le nostre mani. Se ci fosse stato un tale patto, sarebbe stato un patto col diavolo.
Probabilmente tutto questo passo non vuol dire altro che Dio è ugualmente padrone assoluto di tutto ciò che respira.
«E io metterò il mio arco nelle nubi e questo sarà un segno del mio patto...»
Notate che l'autore non dice: «Ho messo il mio arco nelle nubi», ma dice: «metterò»; il che evidentemente presuppone che era opinione comune che l'arcobaleno non fosse sempre esistito. È un fenomeno causato dalla pioggia; e qui lo si presenta come qualcosa di soprannaturale, per avvertire che la terra non sarà più inondata. È strano scegliere il segno della pioggia per rassicurare che non moriremo annegati. Ma si può anche rispondere che, nel pericolo dell'inondazione, si è rassicurati dall'arcobaleno.
«E, verso sera, i due angeli arrivarono a Sodoma...»
Tutta la storia dei due angeli che i sodomiti volevano violentare è forse la più straordinaria che l'antichità abbia inventato. Ma bisogna considerare che quasi tutta l'Asia credeva nei demoni, incubi e succubi; che per di più quei due angeli erano creature più perfette degli uomini, e dovevan essere più belli e suscitare, in un popolo corrotto, desideri più violenti che non gli uomini ordinari.
Quanto a Lot, che propone ai sodomiti le sue due figlie al posto dei due angeli, e alla moglie di Lot, mutata in una statua di sale, e a tutto il resto di questa storia, che si può dire? L'antica favola araba di Ciniro e Mirra ha qualche affinità con la storia dell'incesto di Lot con le sue figlie; e l'avventura di Filemone e Bauci non è priva di analogie con quella dei due angeli che apparvero a Lot e a sua moglie. Quanto alla statua di sale, non sappiamo a che somigli: forse alla storia di Orfeo e di Euridice?
Ci sono stati dei dotti che hanno preteso che si togliessero dai libri canonici tutte queste storie incredibili che scandalizzano i deboli di spirito, ma si è risposto che questi dotti erano cuori corrotti, persone da mandare al rogo; e che è impossibile essere un onest'uomo se non si crede che i sodomiti vollero violentare due angeli. È così che ragiona una genìa di mostri che vorrebbero dominare le menti.
Alcuni celebri Padri della Chiesa hanno avuto la prudenza d'interpretare tutte queste storie come allegorie, secondo l'esempio degli ebrei, e soprattutto di Filone. Alcuni papi, più prudenti ancora, vollero impedire che si traducessero in volgare questi libri, per timore che gli uomini fossero in grado di giudicare quel che si proponeva loro di adorare.
Dobbiamo concludere che coloro che intendono perfettamente questo libro devono essere tolleranti verso coloro che non lo intendono, infatti, se questi non ci capiscono niente, non è colpa loro; ma chi non ci capisce niente, deve a sua volta essere tollerante verso chi capisce tutto.
Buongiorno, Giobbe, amico mio, tu sei uno dei più originali tra i personaggi antichi di cui i libri facciano menzione. Tu non eri ebreo: si sa che il libro che porta il tuo nome è più antico del Pentateuco. E se gli ebrei, che lo tradussero dall'arabo, si servirono della parola «Jehovah» per significare Dio, presero questa parola dai fenici e dagli egiziani, come i veri dotti non dubitano. La parola «Satana» non era ebraica, ma caldea: anche questo è abbastanza noto.
Tu abitavi ai confini della Caldea. Certi commentatori, degni della loro professione, pretendono che tu credessi nella resurrezione, perché, quand'eri sdraiato sul tuo letamaio, dicesti, nel tuo XIX capitolo, che un giorno o l'altro «te ne saresti risollevato». Un infermo che spera nella guarigione, non spera per questo nella resurrezione. Ma voglio parlarti d'altro. Confessa che eri un gran chiacchierone; ma i tuoi amici lo erano più di te. Si dice che tu possedessi settemila montoni, tremila cammelli, mille buoi e cinquecento asine. Vediamo di fare i conti.
Settemila montoni a tre lire e dieci soldi
l'uno, fanno ventiduemilacinquecento
lire tornesi, scrivo 22.500
Valuto i tremila cammelli a cinquanta
scudi l'uno 450.000
Mille buoi non possono essere stimati
in media meno di 80.000
E cinquecento asine, a venti franchi
l'una 10.000
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Il tutto ammonta a 562.500
senza contare i tuoi mobili, gli anelli e i gioielli.
Io sono stato molto più ricco di te; e quantunque abbia perduto gran parte dei miei beni, e sia malato come te, non ho mormorato contro Dio, come sembra che i tuoi amici t'abbiano rimproverato qualche volta.
Né mi convince molto quel Satana che, per indurti al peccato e farti dimenticare Dio, gli domanda il permesso di toglierti i tuoi averi e di affibbiarti la rogna. È proprio in una condizione simile che gli uomini ricorrono sempre alla Divinità: sono gli uomini felici che la dimenticano. Satana non conosceva abbastanza il mondo, s'è fatto furbo poi; e adesso, quando vuole impadronirsi di qualcuno, ne fa un appaltatore generale delle imposte o qualcosa di meglio, se possibile. È quello che il nostro amico Pope ci ha chiaramente dimostrato nella storia del cavaliere Balaam.
Tua moglie era un'impertinente; ma i tuoi pretesi amici, Elifaz, nativo di Teman in Arabia, Bildad di Suez, e Sofar di Naamat, erano molto più insopportabili di lei. T'esortavano alla pazienza in modo da spazientire il più mansueto degli uomini: ti facevano lunghe prediche, più noiose di quelle dello scaltro V... ad Amsterdam e del ... eccetera.
È vero che tu stesso non sai quel che dici quando esclami: «Oh, mio Dio, sono forse un mare o una balena per essere stato rinchiuso da te come in una prigione?» Ma i tuoi amici non ne sanno di più quando ti rispondono che «il giorno non può rinverdire senza umidità e l'erba dei prati non può crescere senz'acqua». Niente è meno consolante di quest'assioma.
Sofar di Naamat ti rimprovera d'essere un chiacchierone: ma nessuno di questi bravi amici ti presta uno scudo. Io non t'avrei trattato così. Niente di più comune della gente che dà consigli, e niente di più raro di quella che t'aiuta. Vale proprio la pena di avere tre amici per non riceverne nemmeno una goccia di brodo quando si è ammalati! M'immagino che quando Dio ti ebbe restituito le tue ricchezze e la tua salute, quegli eloquenti personaggi non abbiano osato presentarsi a te: non per niente «gli amici di Giobbe» sono passati in proverbio.
Dio fu assai malcontento di loro, e gli disse chiaro e tondo, nel capitolo XLII, che erano «noiosi e imprudenti», e li condannò a un'ammenda di sette tori e di sette arieti per aver detto delle sciocchezze. Io li avrei condannati per non aver aiutato il loro amico.
Ti prego di dirmi se è vero che sei vissuto centoquarant'anni dopo quell'avventura. Sono felice di vedere che le persone perbene vivono a lungo; bisogna proprio che gli uomini d'oggi siano dei gran birbanti, tanto è più breve la loro vita!
(Lettera di un malato alle acque di Aquisgrana)
Del resto, il libro di Giobbe è uno dei più preziosi di tutti l'antichità. È evidente che questo libro è di un arabo vissuto prima del tempo in cui collochiamo Mosè. Vi è detto che Elifaz, uno degli interlocutori, è di Teman, che è un'antica città dell'Arabia. Bildad era di Suez, altra città araba. Sofar era di Naamat, contrada ancor più orientale dell'Arabia.
Ma quel che è più importante e che dimostra che questa favola non può essere di un ebreo, è il fatto che vi si parla delle tre costellazioni che chiamiamo oggi l'Orsa, Orione e le Iadi. Gli ebrei non ebbero mai la minima cognizione dell'astronomia, non avevano nemmeno un termine per indicare questa scienza; e tutto quel che riguarda le arti della mente era loro sconosciuto, persino la parola «geometria».
Gli arabi, al contrario, abitando sotto le tende, ed essendo sempre in condizione di osservare gli astri, furono forse i primi che calcolarono gli anni investigando il cielo. Un'osservazione ancor più importante è che in questo libro si parla di un solo Dio. È un errore assurdo avere immaginato che gli ebrei fossero i soli a riconoscere un unico Dio: era la dottrina di quasi tutto l'Oriente, e gli ebrei non furono che dei plagiari, come lo furono in ogni altra cosa.
Nel capitolo XXXVIII, Dio parla lui stesso dal centro di un turbine: e questo fu più tardi imitato nel Genesi. Non si ripeterà mai abbastanza che i libri ebraici sono assai recenti. L'ignoranza e il fanatismo gridano che il Pentateuco è il più antico libro del mondo. È evidente che i libri di Sanchoniaton, quelli di Thoth, anteriori di ottocento anni a quelli di Sanchoniaton, quelli del primo Zoroastro, il Shasta, il Veidam degli indiani, che abbiamo ancora, i cinque King dei cinesi e infine il libro di Giobbe sono assai più antichi di qualunque libro giudaico. È dimostrato che quel piccolo popolo poté avere degli annali solo quando ebbe un governo stabile; che non ebbe questo governo che sotto i suoi re; che il suo gergo si formò col tempo, da un misto di fenicio e d'arabo. Ci sono prove incontestabili che i fenici coltivarono le lettere molto tempo prima degli ebrei. La professione di costoro fu il brigantaggio e la senseria; non furono scrittori se non per caso. Sono andati perduti i libri degli egiziani e dei fenici; ma i cinesi, i brahmani, i ghebri, gli ebrei hanno conservato i loro. Sono tutti monumenti singolari, ma sono solo monumenti dell'immaginazione umana, dai quali non si può imparare una sola verità, sia fisica che storica. Oggi qualsiasi libricino di fisica è più utile di tutti i libri dell'antichità.
Il buon Calmet o don Calmet (perché i benedettini vogliono che gli si dia del «don»), quell'ingenuo compilatore di tante fantasticherie e stupidaggini, quell'uomo la cui ingenuità ha procurato tanto spasso a chi vuol ridere delle corbellerie antiche, riporta fedelmente le opinioni di coloro che vollero indovinare la malattia da cui era stato colpito Giobbe, come se Giobbe fosse stato un personaggio reale. Egli non esita a dire che Giobbe aveva la sifilide e, come al solito, accumula citazioni su citazioni, per provare ciò che non è. Non aveva letto la storia della sifilide di Astruc: perché, non essendo Astruc né un Padre della Chiesa, né un dottore di Salamanca, ma un medico dottissimo, il bravo Calmet non sapeva nemmeno che fosse esistito. Questi monaci compilatori non sono che dei poveri diavoli.
Non sono mai stato in Giudea, grazie a Dio, e non ci andrò mai. Ho parlato con gente d'ogni nazione, che tornava di laggiù; tutti m'han detto che la posizione di Gerusalemme è orribile, che il paese intorno è tutto sassoso; che le montagne sono brulle; che il famoso fiume Giordano non è più largo di quarantacinque piedi; che la sola regione buona di quel paese è Gerico; insomma, tutti ne parlano come ne parlava san Girolamo, che abitò così a lungo a Betlemme, e che dipinge quella contrada come il rifiuto della natura. Egli dice che in estate non c'è neppure acqua da bere. Questo paese, tuttavia, dové sembrare agli ebrei un luogo di delizie in confronto ai deserti di cui erano originari. Dei miserabili che avessero lasciato le Lande per abitare in qualche montagna del Lampourdan, vanterebbero la loro nuova sede; e se sperassero di poter penetrare nelle parti migliori della Linguadoca, la crederebbero la terra promessa.
Ecco esattamente la storia degli ebrei: Gerico e Gerusalemme sono Tolosa e Montpellier, e il deserto del Sinai è il paesaggio tra Bordeaux e Baiona.
Ma se il Dio che guidava gli ebrei voleva dar loro una buona terra, e se quegli sventurati avevano effettivamente dimorato in Egitto, perché non ve li lasciò? A tale domanda non si risponde che con disquisizioni teologiche.
La Giudea, si dice, era la terra promessa. Dio disse ad Abramo: «Io vi darò tutto quel paese, dal fiume d'Egitto sino all'Eufrate.»
Ahimè, amici miei, voi non avete mai avuto quelle fertili rive dell'Eufrate e del Nilo. Ci si è burlati di voi. I padroni del Nilo e dell'Eufrate furono volta per volta i vostri padroni. Voi siete stati quasi sempre schiavi. Promettere e mantenere sono due cose diverse, miei poveri ebrei. Voi avete un vecchio rabbino, il quale, leggendo le vostre sagge profezie, che vi annunciano una terra di miele e di latte, esclamò che vi fu promesso più burro che pane. Sapete che se il Gran Turco mi offrisse oggi la signoria di Gerusalemme, io non la vorrei?
Federico II, vedendo quel detestabile paese disse pubblicamente che Mosè era stato assai sconsiderato a condurvi la sua banda di lebbrosi. «Perché non andò a Napoli?» diceva Federico. Addio, miei cari ebrei, mi dispiace che terra promessa significhi terra perduta.
(Dal barone di Brukana)
GIULIANO IL FILOSOFO, IMPERATORE ROMANO
Talvolta si rende giustizia troppo tardi. Due o tre scrittori, o prezzolati o fanatici, parlano del barbaro ed effeminato Costantino come di un dio, e trattano da scellerato il giusto, il saggio, il grande Giuliano. Tutti gli altri, copiando i primi, ripetono l'adulazione e la calunnia. Esse diventano quasi un articolo di fede. Giunge finalmente il tempo della sana critica e, dopo quattordici secoli, alcuni uomini illuminati fanno la revisione di un processo giudicato dall'ignoranza. In Costantino si vede un ambizioso fortunato, che beffa Dio e gli uomini. Egli ha l'impudenza di fingere che Dio gli abbia inviato nell'aria un'insegna che gli assicura la vittoria. Si bagna nel sangue di tutti i suoi congiunti e s'addormenta nelle mollezze: ma era cristiano, fu canonizzato.
Giuliano è sobrio, casto, disinteressato, valoroso e clemente; ma non era cristiano, e fu considerato a lungo come un mostro.
Oggi, dopo aver paragonato i fatti, i monumenti, gli scritti di Giuliano e quelli dei suoi nemici, si è costretti a riconoscere che, se non amava il cristianesimo, fu scusabile nell'odiare una setta che si era macchiata del sangue di tutta la sua famiglia; e che, essendo stato perseguitato, imprigionato, esiliato, minacciato di morte dai galilei sotto il regno del barbaro Costanzo, non li perseguitò mai; che, al contrario perdonò a dieci soldati cristiani che avevano congiurato contro la sua vita. Si leggono le sue lettere, e lo si ammira:
«I galilei,» dice, «patirono sotto il mio predecessore l'esilio e la prigione; si massacrarono a vicenda coloro che si chiamavano a turno "eretici"; io li ho richiamati dall'esilio, li ho liberati dalle prigioni; ho restituito i beni ai proscritti, li ho costretti a vivere in pace. Ma tale è l'inquieto furore dei galilei, che si lamentano di non potersi più divorare fra di loro.» Che lettera! Che sentenza della filosofia contro il fanatismo persecutore!
Finalmente, esaminati i fatti, siamo stati obbligati a riconoscere che Giuliano aveva tutte le qualità di Traiano, tranne quei gusti così a lungo perdonati ai greci e ai romani; tutte le virtù di Catone, senza la sua rigidezza e la sua acredine; tutto quel che fu ammirato in Giulio Cesare, senza i suoi vizi; che aveva, inoltre, la continenza di Scipione. Insomma fu del tutto pari a Marco Aurelio, il primo degli uomini.
Nessuno osa più ripetere, oggi, sulla scorta del calunniatore Teodoreto, che egli immolò una donna nel tempio di Carre, per rendersi gli dei propizi. Nessuno ripete più che, morendo, gettò con la mano qualche goccia del suo sangue verso il cielo, dicendo a Gesù Cristo: «Hai vinto, Galileo!» come se avesse combattuto contro Gesù nel fare la guerra ai persi; come se questo filosofo, che morì con tanta rassegnazione, avesse riconosciuto Gesù; come se avesse creduto che Gesù fosse nell'aria e che questa fosse il cielo! Queste assurdità di coloro che vengon chiamati «Padri della Chiesa» oggi non si ripetono più.
Si tenta perfino di metterlo in ridicolo, come facevano i frivoli cittadini di Antiochia. Gli si rimprovera la barba mal pettinata e la maniera di camminare. Ma, signor abate de La Bletterie, voi non l'avete visto camminare, e avete invece letto le sue lettere e le sue leggi, monumento delle sue virtù. Che importa se aveva la barba sudicia e il passo precipitoso, se il suo cuore era magnanimo e ogni suo impulso tendeva alla virtù?
Resta un fatto importante da esaminare. Si rimprovera a Giuliano di aver voluto smentire la profezia di Gesù Cristo, ricostruendo il tempio di Gerusalemme. Si dice che uscissero di sotterra fuochi che impedirono l'opera. Si dice che questo è un miracolo, e che questo miracolo non convertì né Giuliano, né Alipio, sovrintendente di quell'impresa, né nessuno della sua corte. E su ciò l'abate de La Bletterie s'esprime così: «Egli e i filosofi della sua corte misero senza dubbio in opera ciò che sapevano di fisica per sottrarre a Dio un miracolo così spettacoloso. La natura fu sempre la risorsa degli increduli, ma serve la religione così a proposito, che essi dovrebbero perlomeno sospettarla di collusione.»
Anzitutto, non è vero che nel Vangelo sia detto che mai il tempio ebraico sarebbe stato ricostruito. Il Vangelo di Matteo, scritto sicuramente dopo la distruzione di Gerusalemme da parte di Tito, profetizza, è vero, che non sarebbe rimasta pietra su pietra di quel tempio dell'idumeo Erode: ma nessun evangelista dice che non sarebbe mai stato ricostruito.
In secondo luogo, che importa alla Divinità che ci sia un tempio ebraico o un magazzino, o una moschea nel luogo dove gli ebrei ammazzavano buoi e vacche?
In terzo luogo, non si sa se fu dalla cinta delle mura di Gerusalemme o dalla cinta del tempio che scaturirono quei pretesi fuochi che, secondo alcuni, bruciarono gli operai. Ma non si capisce perché Gesù avrebbe bruciato gli operai dell'imperatore Giuliano e non quelli del califfo Omar che, molto tempo dopo, costruì una moschea sulle rovine del tempio; o quelli del gran Saladino, che restaurò tale moschea. Gesù aveva tanta predilezione per le moschee dei musulmani?
In quarto luogo, Gesù, pur avendo predetto che non sarebbe rimasta pietra su pietra in Gerusalemme, non aveva impedito che venisse ricostruita.
In quinto luogo, Gesù predisse molte cose di cui Dio non permise l'adempimento. Predisse la fine del mondo e il suo avvento sulle nubi, con una gran potenza e una gran maestà, alla fine della generazione che viveva allora (Luca, XXI): eppure il mondo dura ancora, e durerà quasi certamente ancora abbastanza a lungo.
In sesto luogo, se Giuliano avesse scritto di questo miracolo, direi che fu ingannato con un ridicolo trucco: crederei che i cristiani suoi nemici ce l'abbiano messa tutta per opporsi alla sua impresa: che abbiano ucciso gli operai, e fatto credere ch'essi erano morti a causa di un miracolo. Ma Giuliano non ne fece parola. La guerra contro i persi lo teneva impegnato, allora; differì per il momento la ricostruzione del tempio e morì prima che i lavori cominciassero.
In settimo luogo, questo miracolo viene riferito da Ammiano Marcellino, che era pagano. Son quasi certo che si tratta di un'interpolazione cristiana: ne sono state rimproverate loro tante altre, scoperte più tardi!
Ma è anche verosimile che, in un'età in cui non si parlava che di prodigi e di stregonerie, Ammiano Marcellino abbia basato questa favola sulla fede di qualche spirito ingenuo. Da Tito Livio fino a De Thou incluso, tutte le storie sono infettate di prodigi.
In ottavo luogo, se Gesù faceva miracoli, li avrebbe fatti proprio per impedire che si ricostruisse un tempio dove lui stesso sacrificò e fu circonciso? Non avrebbe fatto piuttosto miracoli per rendere cristiani tanti popoli che si beffavano del cristianesimo, o piuttosto per rendere più umili e più umani i suoi cristiani, i quali, da Ario e Atanasio fino a Rolando e ai cavalieri delle Cévenne, versarono torrenti di sangue e si comportarono da cannibali?
Da ciò concludo che la «natura» non è «in collusione» col cristianesimo, come scrive La Bletterie, ma piuttosto che La Bletterie è in collusione con favole da vecchierelle, come dice Giuliano: «Quibus cum stolidis aniculis negotium erat».
La Bletterie, dopo aver reso giustizia ad alcune virtù di Giuliano, termina pertanto la storia di questo grand'uomo dicendo che la sua morte fu dovuta alla «vendetta divina». Se così fosse, tutti gli eroi morti giovani, da Alessandro a Gustavo Adolfo, sarebbero morti per punizione di Dio. Giuliano morì della più bella morte, inseguendo i suoi nemici dopo molte vittorie. Gioviano, che gli succedette, regnò molti anni meno di lui, e con vergogna. Io non ci vedo affatto la vendetta divina, e non vedo in La Bletterie che un declamatore in mala fede. Ma dove sono gli uomini che osano dire la verità? (voi: ma non ho intenzione di imitarvi).
Lo stoico Libanio fu uno di questi uomini rari: egli celebrò il valoroso e clemente Giuliano davanti a Teodosio, lo sterminatore dei Tessalonicesi; ma Le Beau e La Bletterie han paura di lodarlo davanti a coloro che bazzicano le sacrestie.
(Tratto dal signor Boulanger)
La storia di Giuseppe, a considerarla solo come oggetto di curiosità e di letteratura, è uno dei più preziosi monumenti dell'antichità a noi pervenuto. Sembra essere il modello di tutti gli scrittori orientali; ed è più commovente dell'Odissea di Omero, perché un eroe che perdona è più commovente di un eroe che si vendica.
Noi consideriamo gli arabi come i primi autori di quelle ingegnose finzioni passate poi in tutte le lingue; ma non scorgo presso di loro nessuna avventura paragonabile a quella di Giuseppe. In essa quasi tutto è meraviglioso, e la fine può commuovere fino alle lacrime. Si tratta di un giovane sedicenne di cui i fratelli sono gelosi; egli viene venduto da loro ad una carovana di mercanti ismaeliti, condotto in Egitto e comperato da un eunuco del re. Questo eunuco aveva moglie, e ciò non deve sorprendere molto: il Kizlar-Aga, eunuco completo, cui tutto è stato tagliato, ha oggi un serraglio a Costantinopoli: gli han lasciato gli occhi e le mani, e la natura non ha perduto i suoi diritti nel suo cuore. Gli altri eunuchi a cui sono stati tagliati soltanto i due complementi dell'organo della generazione, spesso impiegano ancora quest'organo; e Putifar, a cui fu venduto Giuseppe, poteva benissimo far parte di questo genere di eunuchi.
La moglie di Putifar si innamora del giovane Giuseppe, il quale, fedele al suo padrone e benefattore, respinge le pressioni della donna. Questa, infuriata, accusa Giuseppe d'aver voluto sedurla. È la storia di Ippolito e di Fedra, di Bellerofonte e di Stenobea, di Ebro e di Damasippe, di Tanis e di Peribea, di Mirtilo e di Ippodamia, di Peleo e di Demenetta.
È difficile sapere, tra tutte queste storie, quale sia l'originaria, ma negli antichi autori arabi c'è un particolare, a proposito dell'avventura di Giuseppe e della moglie di Putifar, che è assai ingegnoso. L'autore suppone che Putifar, incerto fra sua moglie e Giuseppe, non considerò la tunica di Giuseppe, che la moglie aveva strappato, come una prova della colpa del giovane.
Nella camera della donna c'era un bambino in una culla; Giuseppe diceva che la donna gli aveva strappato e tolto la tunica alla presenza del bambino. Putifar consultò il piccolo, il cui ingegno era molto precoce, data l'età; il bambino disse a Putifar: «Guarda se la tunica è strappata davanti o dietro: se lo è davanti, è una prova che Giuseppe ha voluto prendere con la forza tua moglie, che si difendeva; se lo è dietro, è una prova che tua moglie lo inseguiva.» Putifar, grazie alla genialità di questo bambino, riconobbe l'innocenza del suo schiavo. Così è riferita la storia nel Corano, secondo l'antico scrittore arabo. Questi non si preoccupa di farci sapere a chi appartenesse il bambino che ragionò con tanta perspicacia: se era figlio della moglie di Putifar, allora Giuseppe non era il primo uomo che la donna aveva agguantato.
Comunque sia, Giuseppe, secondo il Genesi, viene messo in prigione, e qui si trova in compagnia del coppiere e del panettiere del re d'Egitto. Questi due prigionieri di Stato sognano, durante la notte, e Giuseppe spiega i loro sogni: predice che entro tre giorni il coppiere rientrerà in grazia del sovrano e il panettiere sarà impiccato. Il che non mancò di succedere.
Due anni dopo anche il re d'Egitto fa un sogno: il suo coppiere gli dice che c'è un giovane ebreo in prigione, che è il primo al mondo a interpretare i sogni: il re fa venire in sua presenza il giovane, che gli predice sette anni d'abbondanza e sette anni di carestia.
Interrompiamo per un poco il racconto, per notare quanto straordinariamente antica sia l'arte d'interpretare i sogni. Giacobbe aveva visto in sogno la scala misteriosa in cima alla quale stava Dio stesso. E imparò in sogno il metodo per moltiplicare le sue greggi: metodo che riuscì solo a lui. Lo stesso Giuseppe aveva saputo da un sogno che un giorno avrebbe dominato sui suoi fratelli. E, molto tempo prima, Abimelec: era stato avvertito in sogno che Sara era moglie di Abramo.
Ritorniamo a Giuseppe. Non appena ebbe spiegato il sogno al Faraone, divenne primo ministro. Dubitiamo che oggi si possa trovare un re, anche in Asia, che regali una tale carica per l'interpretazione di un sogno. Il Faraone fece sposare a Giuseppe una figlia di Putifar; si dice che questo Putifar fosse un gran sacerdote di Eliopolis: non era dunque l'eunuco, suo primo padrone; o, se era lui, aveva certamente anche un altro titolo oltre a quello di gran sacerdote, e sua moglie era stata madre più di una volta.
Frattanto, come Giuseppe aveva previsto, sopravvenne la carestia, e Giuseppe, per meritare le buone grazie del suo re, obbligò tutto il popolo a vendere le sue terre al Faraone. L'intera nazione si fece schiava per avere del grano: fu questa, a quanto pare, l'origine del potere dispotico. Bisogna ammettere che mai re fece migliore affare; ma anche il popolo non doveva certo benedire il primo ministro.
Infine, anche il padre e i fratelli di Giuseppe ebbero bisogno di grano, perché «la carestia desolava allora tutta la terra». Non vale la pena di raccontare qui come Giuseppe accolse i suoi fratelli, come li perdonò e li arricchì. Si trova in questa storia tutto ciò che costituisce un poema epico interessante: esposizione, nodo drammatico, riconoscimento, peripezia e meraviglioso. Nulla reca meglio il marchio del genio orientale.
Quel che rispose il buon Giacobbe, padre di Giuseppe, al Faraone, deve ben colpire coloro che sanno leggere: «Quanti anni hai?» gli chiese il re. «Centotrenta,» rispose il vecchio, «e in questo breve pellegrinaggio non ho mai avuto un giorno felice.»
Chi ci ha dato il sentimento del giusto e dell'ingiusto? Dio, che ci ha fornito di un cervello e di un cuore. Ma quand'è che la ragione ci illumina sul vizio e la virtù? Quando ci insegna che due più due fanno quattro. Non c'è conoscenza innata, per la stessa ragione per cui non c'è albero che sorga dalla terra già carico di foglie e di frutti. Niente è, come si dice, innato, ossia nato sviluppato; ma, ripetiamo ancora, Dio ci fa nascere con organi i quali, man mano che si sviluppano, ci fanno sentire tutto ciò che la nostra specie deve sentire per la conservazione di se stessa.
Come si produce questo mistero continuo? Ditemelo voi, gialli abitanti dell'isola della Sonda, neri africani, imberbi canadesi, e voi, Platone, Cicerone, Epitteto. Voi tutti sentite egualmente che è meglio dare ciò che avanza del vostro pane, del vostro riso, o della vostra manioca al povero che ve lo chiede umilmente, anziché ammazzarlo o cavargli gli occhi. È chiaro a tutti che un beneficio è più onesto di un oltraggio, che la mitezza è preferibile all'ira.
Si tratta dunque solo di servirci della nostra ragione per discernere le sfumature dell'onesto e del disonesto. Il bene e il male sono spesso vicini; le nostre passioni li confondono: chi ci illuminerà? Noi stessi, se siamo in tranquillità d'animo. Chiunque ha scritto sui nostri doveri, ha scritto bene in tutti i paesi del mondo, perché ha scritto ubbidendo alla sua ragione. Tutti hanno detto la stessa cosa: Socrate ed Epicuro, Confucio e Cicerone, Marco Antonio e Murad II ebbero la stessa morale.
Ripetiamolo ogni giorno a tutti gli uomini: «La morale è una: essa viene da Dio; i dogmi sono diversi: vengono da noi.»
Gesù non insegnò nessun dogma metafisico; non scrisse opuscoli teologici; non disse: «Io sono consustanziale, ho due volontà e due nature in una sola persona.» Egli lasciò ai cordiglieri e ai giacobini, che dovevano venire dodici secoli dopo di lui, il compito di argomentare per stabilire se sua madre fosse stata concepita o no nel peccato originale; non disse mai che il matrimonio è il segno visibile di una cosa invisibile; non disse una parola della grazia concomitante; non istituì né monaci né inquisitori; non prescrisse niente di quel che vediamo oggi.
Dio aveva dato la conoscenza del giusto e dell'ingiusto in tutti i tempi che precedettero il cristianesimo. Dio non è mutato e non può mutare; il fondo della nostra anima, i nostri principi di ragione e di morale saranno eternamente i medesimi. A che servono alla virtù le distinzioni teologiche, i dogmi fondati su queste distinzioni, le persecuzioni fondate su questi dogmi? La natura, sgomenta e fremente d'orrore contro tutte queste invenzioni barbare, grida a tutti gli uomini: «Siate giusti, e non dei sofisti persecutori!»
Leggete nel Sadder, che è il compendio delle leggi di Zoroastro, questa saggia massima: «Quando non è sicuro se un'azione che ti viene proposta sia giusta o ingiusta, astieniti.» Chi mai dette una regola più ammirevole? Quale legislatore si espresse meglio? Non è questo il sistema delle opinioni probabili, inventate da gente che si chiamava «la Società di Gesù».
Ben-al-Betif, quel degno capo dei dervisci, diceva loro un giorno: «Fratelli miei, sarà bene che vi serviate spesso di quella sacra formula del nostro Corano: "In nome di Dio molto misericordioso", perché Dio usa misericordia, e voi imparerete a usarla ripetendo spesso le parole che raccomandano una virtù senza la quale non resterebbero sulla terra che ben pochi uomini. Ma guardatevi bene, fratelli miei, d'imitare quei temerari che si vantano ogni momento di lavorare per la gloria di Dio. Se un giovane imbecille sostiene una tesi sulle categorie davanti a un ignorante in toga impellicciata, non manca di scrivere in grossi caratteri a capo della sua tesi: "Ek Allâh abron doxa: ad majorem Dei gloriam". Se un buon musulmano fa imbiancare il suo salotto, subito fa dipingere sull'uscio queste quattro parole; se un "saka" porta dell'acqua, lo fa per la maggior gloria di Dio. È un uso empio piamente praticato. Che direste di un umile servitore che, vuotando il vaso da notte del nostro sultano, esclamasse "Alla maggior gloria del nostro invincibile monarca"? Eppure, c'è ben maggior distanza dal sultano a Dio che dal sultano all'umile servitore.
«Che avete in comune, miserabili vermi della terra chiamati uomini, con la gloria dell'Essere infinito? Può egli amare la gloria? Può riceverne da voi? Può goderne? Fino a quando, animali bipedi e implumi, concepirete Dio a vostra immagine? E che! Perché voi siete vanitosi, perché amate la gloria, volete che anche Dio l'ami. Se esistessero molti dei, forse ognuno di loro vorrebbe ottenere i suffragi dei suoi simili. Questa sarebbe la gloria di un dio. Se si può paragonare la grandezza infinita con l'estrema piccolezza, questo Dio sarebbe come il re Alessandro, o Iskander, il quale voleva entrare in lizza solo contro dei re. Ma voi, poveri vermi, quale gloria potete procurare a Dio? Cessate di profanare il suo santo nome! Un imperatore, chiamato Ottaviano Augusto, proibì che lo si lodasse nelle scuole di Roma, per timore che il suo nome venisse avvilito. Ma voi non potete né avvilire l'Essere supremo né onorarlo. Annientatevi, adorate e tacete.»
Così parlava Ben-al-Betif; e i dervisci gridarono: «Gloria a Dio! Ben-al-Betif ha parlato da saggio!»
Sacri consultori della Roma moderna, illustri e infallibili teologi, nessuno rispetta più di me le vostre divine decisioni; ma se Paolo Emilio, Scipione, Catone, Cicerone, Cesare, Tito, Traiano, Marco Aurelio tornassero in quella Roma cui un giorno dettero una certa fama, dovete riconoscere ch'essi sarebbero un po'stupiti delle vostre decisioni intorno alla grazia. Che direbbero se udissero parlare della grazia di salvezza secondo san Tommaso, e della grazia medicinale secondo il Caietano; della grazia esteriore e interiore, della gratuita, della santificante, dell'attuale, dell'abituale, della cooperante; dell'efficace, che qualche volta resta senza effetto; della sufficiente, che qualche volta non basta;della versatile e della congrua? In buona fede, essi ne capirebbero più di voi e di me?
Che bisogno avrebbe questa povera gente delle vostre sublimi istruzioni? Mi sembra di udirli dire:
Reverendi Padri, voi siete dei terribili geni; noi pensavamo stoltamente che l'Essere eterno non si conducesse mai secondo leggi particolari, come i vili umani, ma secondo le sue leggi generali, eterne come lui. Nessuno ha mai immaginato fra noi che Dio fosse simile a un padrone insensato, che dà un peculio a uno schiavo e rifiuta il nutrimento a un altro; che ordina a un monco d'impastare farina, a un muto di leggergli qualcosa, a un paralitico di fargli da corriere.
Tutto è grazia da parte di Dio: egli ha fatto al mondo che abitiamo la grazia di formarlo; agli alberi, la grazia di farli crescere; agli animali, quella di nutrirli. Ma si potrà dire che, se un lupo trova sulla sua strada un agnello per la sua cena, e un altro lupo muore di fame, Dio ha concesso al primo una grazia particolare? O che si è preso cura, con una grazia preveniente, di far crescere una quercia a preferenza di un'altra, cui manca la linfa? Se in tutta la natura tutti gli esseri sono soggetti alle leggi generali, perché mai una sola specie d'animali non dovrebbe esservi soggetta?
Perché il padrone assoluto di tutto dovrebbe prendersi cura di dirigere la vita intima di un solo uomo, più che di governare il resto dell'intera natura? Per quale bizzarria dovrebbe cambiare qualcosa nel cuore di un curlandese o di un biscaglino, mentre non cambia mai nulla alle leggi che ha imposto a tutti gli astri?
Che miseria supporre ch'egli faccia, disfi e rifaccia di continuo i nostri sentimenti! E che audacia crederci diversi da tutti gli esseri! Per di più, soltanto in coloro che vanno a confessarsi avverrebbero questi mutamenti. E così, un savoiardo, un bergamasco avrà il lunedì la grazia di far dire una messa per dodici soldi; il martedì, andrà all'osteria e la grazia lo pianterà in asso; il mercoledì avrà una grazia cooperante che lo spingerà a confessarsi, ma non avrà la grazia efficace della perfetta contrizione; il giovedì avrà invece una grazia sufficiente, che però, come si è detto, non lo assisterà sufficientemente. Dio lavorerà di continuo nella testa di quel bergamasco, ora con forza, ora debolmente, mandando al diavolo il resto della terra. Non si degnerà di occuparsi dell'intimo degli indiani e dei cinesi! Reverendi Padri, se vi resta un granello di ragione, non trovate questo sistema enormemente ridicolo?
Sciagurati, guardate quella quercia la cui cima si tende verso le nuvole, e quella canna che striscia ai suoi piedi: voi non dite che la grazia efficace è stata concessa alla quercia e negata alla canna. Alzate gli occhi al cielo, guardate l'eterno Demiurgo che crea milioni di mondi che gravitano tutti gli uni verso gli altri in virtù di leggi universali ed eterne. Vedete la stessa luce riflettersi dal sole a Saturno, e da Saturno a noi; e in questo accordo di tanti astri trascinati in rapido moto, in questa generale obbedienza di tutta la natura, osate credere, se potete, che Dio si preoccupi di dare una grazia versatile a suor Teresa e una concomitante a suor Agnese!
Atomo, al quale uno stupido atomo ha detto che l'Eterno ha leggi particolari per alcuni atomi del tuo vicinato, che concede la sua grazia a questo e la rifiuta a quello, che un tale, che non aveva la grazia ieri, l'avrà domani: non ripetere questa sciocchezza. Dio ha fatto l'universo, e non creerà certo nuovi venti per smuovere qualche fuscello di paglia in un angolino dell'universo. I teologi sono come i guerrieri di Omero, i quali credevano che gli dei si armassero ora contro di loro, ora in loro favore. Se Omero non fosse considerato un poeta, sarebbe certo considerato un bestemmiatore.
È Marco Aurelio che parla così, non io. Perché Dio, che vi ispira, mi fa la grazia di credere a tutto quello che voi dite, a tutto quello che avete detto e a tutto quello che direte.
La carestia, la peste e la guerra sono i tre più famosi ingredienti di questo basso mondo. Si possono collocare nella classe della carestia tutti i cattivi nutrimenti cui la penuria ci costringe a ricorrere per abbreviare la nostra vita nella speranza di sostentarla.
Nella peste si comprendono tutte le malattie contagiose, che sono in numero di due o tremila. Questi due presenti ci vengono dalla provvidenza. Ma la guerra, che riunisce tutti questi doni, ci viene dall'inventiva di tre o quattrocento persone sparse sulla superficie del globo sotto il nome di principi o di governanti; è forse per questo motivo che costoro, in molte dediche, vengono chiamati «immagini viventi della divinità».
L'ottimista più risoluto ammetterà senza fatica che la guerra trascina sempre con sé la peste e la fame, per poco che abbia visto gli ospedali degli eserciti in Germania, o che sia passato in qualche villaggio dove è stata compiuta qualche impresa bellica.
Non c'è dubbio che non sia una bellissima arte, quella che devasta le campagne, distrugge le abitazioni e fa crepare, normalmente, in un anno, quarantamila uomini su centomila. Quest'invenzione fu dapprima coltivata da nazioni che s'erano riunite per il bene comune; per esempio la dieta dei greci dichiarò alla dieta della Frigia e dei popoli vicini che sarebbe partita su un migliaio di barche da pesca per andare a sterminarli, se poteva.
Il popolo romano adunato in assemblea giudicava che era suo interesse andare a battersi prima della mietitura contro il popolo di Veio, o contro i volsci. E qualche anno dopo tutti i romani, avendocela a morte contro tutti i cartaginesi, combatterono a lungo per mare e per terra. Oggi le cose vanno altrimenti.
Un genealogista prova a un principe che egli discende in linea diretta da un conte i cui parenti, tre o quattrocent'anni prima, avevano fatto un patto di famiglia con un casato di cui non rimane nemmeno la memoria. Quel casato aveva lontane pretese su una provincia il cui ultimo possessore è morto di apoplessia: il principe e il suo consiglio concludono senza difficoltà che quella provincia gli appartiene per diritto divino. La provincia in questione, che si trova a qualche centinaio di leghe di distanza, ha un bel protestare che non lo conosce, che non ha nessuna voglia di essere governata da lui; che, per dar leggi alla gente, bisogna almeno avere il loro consenso: questi discorsi non arrivano nemmeno agli orecchi del principe, il cui diritto è incontestabile. Egli trova di botto una quantità di uomini che non hanno niente da fare e niente da perdere; li veste d'un grosso panno turchino a cento soldi il braccio, orla il loro cappello d'un cordoncino bianco, li fa girare a destra e a sinistra e marcia verso la gloria.
Gli altri principi, che sentono parlare di questa spedizione, vi prendono parte, ciascuno secondo il suo potere, e coprono pochi palmi di terra di più mercenari omicidi di quanti ne trascinassero al loro seguito Gengis-Khân, Tamerlano, o Bâyazîd.
Popoli lontani sentono dire che qualcuno sta per battersi, e che ci sono cinque o sei soldi al giorno da guadagnare se vogliono essere della partita: subito si dividono in due schiere come i mietitori, e vanno a vendere i loro servizi a chiunque voglia assoldarli.
Queste moltitudini si accaniscono le une contro le altre non soltanto senza avere alcun interesse nella faccenda, ma senza neppure sapere di che si tratti.
E così si trovano contemporaneamente cinque o sei potenze belligeranti, ora tre contro tre, ora due contro quattro, ora una contro cinque; e tutte si detestano allo stesso modo, e di volta in volta si alleano e s'attaccano; tutte d'accordo su un punto solo, fare il maggior male possibile.
La cosa più strabiliante di questa impresa infernale è che ogni capo assassino fa benedire le sue bandiere e invoca solennemente Dio prima di andare a sterminare il prossimo. Se un capo ha avuto la fortuna di far sgozzare solo due o tremila uomini, non ne ringrazia Dio; ma quando ce ne sono almeno diecimila sterminati dal ferro e dal fuoco e, per colmo di grazia, è stata distrutta fino all'ultima pietra qualche città, allora si canta a quattro voci una canzone abbastanza lunga, composta in una lingua ignota a tutti coloro che hanno combattuto, e per di più infarcita di barbarismi. La medesima canzone serve per i matrimoni e per le nascite, e al tempo stesso per la strage: questo è imperdonabile, soprattutto nel paese più famoso per le canzoni nuove che inventa a getto continuo.
La religione naturale ha innumerevoli volte impedito ai cittadini di commettere crimini. Un'anima bennata non ne ha la volontà; un'anima tenera ne ha orrore; essa si figura un dio giusto e vendicativo. Invece la religione artificiale incoraggia tutte le crudeltà che si commettono in gruppo: congiure, rivolte, rapine, imboscate, assalti alle città, saccheggi, stragi. Ognuno allegramente va incontro al delitto sotto la bandiera del proprio santo.
Ovunque viene pagato un certo numero d'oratori per celebrare quelle giornate di sangue; gli uni sono vestiti di un lungo giustacuore nero e di mantelluccio; gli altri indossano una camicia sopra una veste; alcuni portano sopra la camicia due strisce penzolanti di stoffa screziata. Tutti parlano a non finire: citano quel che si è fatto un giorno in Palestina a proposito di un combattimento in Veteravia.
Il resto dell'anno, questi tali declamano contro i vizi. Provano in tre punti e per antitesi che le dame che stendono un lieve strato di carminio sulle loro guance fresche saranno oggetto eterno delle eterne vendette dell'Eterno; che Polyeucte e Athalie sono opere del demonio; che un uomo che si fa servire in tavola duecento scudi di merluzzo in un giorno di quaresima ottiene immancabilmente il premio del paradiso, e che un pover'uomo che mangia due soldi e mezzo di montone è dannato per sempre all'inferno.
Su cinque o seimila declamazioni di questa specie, ce ne sono al massimo tre o quattro, composte da un gallo di nome Massillon, che un uomo retto può leggere senza disgusto; ma in tutti quei discorsi, non ce n'è uno in cui l'oratore osi ergersi contro quel flagello e quel crimine che è la guerra, la quale comprende in sé tutti i flagelli e tutti i crimini. Quegli sciagurati oratori parlano continuamente contro l'amore, che è la sola consolazione del genere umano e il solo modo di ridargli vita; non dicono niente degli sforzi esecrandi che facciamo per distruggerlo.
Hai fatto un gran brutto sermone sull'impurità, o Bourdaloue! ma non hai fiatato contro quegli omicidi compiuti in mille modi diversi, quelle rapine, quei brigantaggi, quella rabbia universale che devasta il mondo. Tutti i vizi riuniti di tutte le età e di tutti i luoghi non eguaglieranno mai i mali che produce una sola campagna di guerra.
Miserabili medici delle anime, state a gridare per cinque quarti d'ora su qualche puntura di spillo, e non dite niente sulla malattia che ci lacera in mille pezzi! Filosofi moralisti, bruciate tutti i vostri libri! Finché il capriccio di pochi uomini farà legalmente sgozzare migliaia di nostri fratelli, la parte del genere umano che si consacra all'eroismo sarà quanto c'è di più infame nell'intera natura.
Che diventano e che m'importano l'umanità, la beneficenza, la modestia, la temperanza, la dolcezza, la saggezza, la pietà, mentre mezza libbra di piombo sparata da seicento passi mi dilania il corpo, e muoio a vent'anni tra tormenti indicibili, in mezzo a cinque o seimila moribondi, mentre i miei occhi, che s'aprono per l'ultima volta, vedono la città dove sono nato distrutta dal ferro e dalle fiamme, e gli ultimi suoni che odono le mie orecchie sono le grida delle donne e dei bambini agonizzanti sotto le rovine, il tutto per i pretesi interessi di un uomo che non conosciamo?
E il peggio è che la guerra è un flagello inevitabile. A guardar bene, tutti gli uomini hanno adorato il dio Marte: Sabaoth, per gli ebrei, significa il dio degli eserciti; ma Minerva, in Omero, chiama Marte un dio furioso, insensato, infernale.
Ultima modifica 12.01.2009