FALSITA' DELLE VIRTU' UMANE |
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FOLLIA |
FALSITÀ DELLE VIRTÙ UMANE
Quando il duca di La Rochefoucauld ebbe scritto le sue massime sull'amor proprio, ed ebbe messo in rilievo questa molla che tiene in piedi l'uomo, un tale signor Esprit, dell'Oratoire, scrisse un libro capzioso, intitolato De la fausseté des vertus humaines. In esso sostiene che non esiste alcuna virtù; ma, per fortuna, termina ogni capitolo rinviandoci alla carità cristiana. Così, secondo messer Esprit, né Catone, né Aristide, né Marco Aurelio, né Epitteto erano gente perbene; gente perbene se ne può trovare soltanto fra i cristiani. Fra i cristiani, non c'è virtù se non fra i cattolici; fra i cattolici, bisogna ancora eccettuare i gesuiti, nemici degli oratoriani; pertanto, la virtù non si troverebbe che tra i nemici dei gesuiti.
Il signor Esprit comincia col dire che la prudenza non è una virtù; infatti, argomenta, è spesso ingannata. È come se si dicesse che Cesare non era un grande condottiero, perché fu sconfitto a Durazzo.
Se il signor Esprit fosse stato un filosofo, non avrebbe considerato la prudenza una virtù, ma un dono, una qualità utile, felice; perché uno scellerato può essere prudentissimo, e ne ho conosciuti di questa specie. Oh, la follia di pretendere che
Nul n'aura de vertu que nous et nos amis!
Che cos'è la virtù, amico mio? È il fare del bene; fanne, e questo basterà. Sulle ragioni non staremo a indagare. E che! Secondo te non ci sarebbe nessuna differenza fra il presidente De Thou e Ravaillac, fra Cicerone e quel Popilio cui aveva salvato la vita, e che lo decapitò per denaro? E dichiarerai che Epitteto e Porfirio erano dei furfanti perché non seguirono i nostri dogmi? Una tale insolenza mi disgusta. Non aggiungerò altro, per non lasciarmi trasportare dalla collera.
Il fanatismo sta alla superstizione come il delirio alla febbre, come le furie alla collera. Chi ha delle estasi, delle visioni, chi scambia i sogni per la realtà, e le immaginazioni per profezie, è un entusiasta; chi sostiene la propria follia con l'omicidio è un fanatico. Juan Diaz, ritiratosi a Norimberga, fermamente convinto che il papa fosse l'Anticristo dell'Apocalisse e che avesse addosso il segno della Bestia, era soltanto un entusiasta; suo fratello Bartolomeo Diaz, che partì da Roma per andare ad assassinare santamente il proprio fratello, e lo uccise per amore di Dio, era uno dei più abominevoli fanatici che mai la superstizione abbia potuto produrre.
Poliuto, che va al tempio, in un giorno di solennità, per rovesciare e infrangere le statue e i paramenti, è un fanatico meno orribile di Diaz, ma non meno sciocco. Gli assassini del duca Francesco di Guisa, di Guglielmo principe d'Orange, del re Enrico III, del re Enrico IV, e tanti altri, erano energumeni malati della stessa rabbia di Diaz.
Il più disgustoso esempio di fanatismo è quello dei borghesi di Parigi che, la notte di san Bartolomeo, corsero ad assassinare, sgozzare, buttar giù dalle finestre, fare a pezzi i loro concittadini che non andavano a messa.
Esistono fanatici di sangue freddo: sono i giudici che condannano a morte coloro che non hanno commesso altro crimine che quello di non pensarla come loro; e questi giudici sono tanto più colpevoli, tanto più degni dell'esecrazione del genere umano, in quanto, non trovandosi in un accesso di furore come i Clément, i Châtel, i Ravaillac, i Gérard, i Damiens, potrebbero, ci sembra, ascoltare la ragione.
Una volta che il fanatismo ha incancrenito il cervello, la malattia è quasi incurabile. Ho visto certi epilettici che, parlando dei miracoli di san Paride, a poco a poco, loro malgrado, prendevano fuoco; gli occhi si infiammavano, le loro membra tremavano, il furore sfigurava loro il viso, e avrebbero ammazzato chiunque li avesse contraddetti.
A questa malattia epidemica non c'è altro rimedio che lo spirito filosofico, il quale, man mano diffondendosi, addolcirà finalmente i costumi degli uomini, prevenendo gli accessi del male: perché, non appena questo male fa dei progressi, bisogna correr via, e aspettare che l'aria si sia purificata. Le leggi e la religione non bastano contro questa peste degli animi; la religione, invece di essere per loro un alimento salutare, si tramuta in veleno nei cervelli infetti. Questi miserabili hanno continuamente fitto in capo l'esempio di Aod, che assassina re Eglon; di Giuditta, che taglia la testa di Oloferne, dopo aver giaciuto con lui; di Samuele, che fa a pezzi re Agag. Non vedono che questi esempi, rispettabili nell'antichità, sono abominevoli oggi; essi attingono il loro furore nella stessa religione che lo condanna.
Le leggi sono ancora impotenti contro questi accessi di furore; è come se leggeste un decreto del consiglio a un frenetico. Quella gente è persuasa che lo spirito santo che li pervade stia al di sopra delle leggi, e che il loro fanatismo sia la sola legge cui debbano ubbidire.
Che cosa rispondere a un uomo il quale vi dice che preferisce ubbidire a Dio che agli uomini e che, di conseguenza, e sicuro di meritare il cielo sgozzandovi?
Di solito sono le canaglie a guidare i fanatici e a mettere loro in mano il pugnale; somigliano a quel Vecchio della Montagna che faceva, si dice, gustare le gioie del paradiso a certi imbecilli, e prometteva loro un'eternità di quei piaceri di cui avevano avuto un assaggio, a condizione che andassero ad assassinare tutti coloro che egli avesse indicato.
C'è stata al mondo una sola religione che non sia stata insozzata da fanatismo: quella dei letterati cinesi. Le sette dei filosofi non solo erano esenti da questa peste, ma ne erano il rimedio: perché l'effetto della filosofia è di rendere tranquillo l'animo, e il fanatismo è incompatibile con la tranquillità.
Se la nostra santa religione è stata tanto spesso corrotta da questo furore infernale, bisogna prendersela con la pazzia degli uomini.
Così delle penne che ebbe
perverti Icaro l'uso;
donate a sua salvezza,
le volse a proprio danno.
(Bertaud, vescovo di Séez)
Le più antiche favole non sono forse chiaramente allegoriche? La prima che conosciamo, secondo la nostra maniera di computare il tempo, non è quella che viene narrata nel nono capitolo del libro dei Giudici? Bisognava scegliere un re tra gli alberi; l'ulivo non volle abbandonare la cura del suo olio, né il fico quella dei suoi fichi, né la vigna quella del suo vino, né gli altri alberi quella dei loro frutti; e invece il cardo, che non era buono a niente, si fece re, perché era fornito di spine e poteva fare del male.
L'antica favola di Venere, così com'è narrata da Esiodo, non è forse un'allegoria dell'intera natura? Le parti della generazione caddero dall'Etere sulla riva del mare; Venere nacque da questa spuma preziosa; il suo primo nome è quello di amante della generazione. C'è forse un'immagine il cui senso sia più preciso? Questa Venere è la dea della bellezza; la bellezza cessa d'essere amabile se non s'accompagna alle grazie; la bellezza fa nascere l'amore; l'amore ha dardi che trafiggono il cuore e porta una benda che nasconde i difetti dell'oggetto amato.
La saggezza viene concepita nel cervello del signore degli dei sotto il nome di Minerva; l'anima dell'uomo è un fuoco divino che Minerva mostra a Prometeo, il quale si serve di questo fuoco per animare l'uomo.
Impossibile non riconoscere in queste favole una pittura vivente dell'intera natura. La maggior parte delle altre favole sono o la corruzione di quelle antiche o il capriccio dell'immaginazione. Delle favole antiche, come dei nostri racconti moderni, ce ne sono di morali, deliziosi, e ce ne sono di banali.
Le favole degli antichi popoli ingegnosi furono rozzamente imitate dai popoli rozzi; ad esempio, quelle di Bacco, di Ercole, di Prometeo, di Pandora e tante altre; esse erano il passatempo del mondo antico. I barbari, che ne udirono parlare in modo confuso, le introdussero nella loro selvaggia mitologia; e poi osarono dire: «Le abbiamo inventate noi.» Poveri popoli ignorati e ignoranti, che non avete conosciuto nessun'arte né piacevole né utile, e mai nemmeno il nome della geometria, come potete dire di aver inventato qualcosa? Non avete saputo né scoprire delle verità né mentire abilmente.
I
Un giorno il principe Pico della Mirandola incontrò papa Alessandro VI in casa della cortigiana Emilia, mentre Lucrezia, figlia del Santo Padre, stava per partorire, e a Roma non si sapeva se il nascituro fosse del papa o di suo figlio, il duca di Valentinois, o del marito di Lucrezia, Alfonso d'Aragona che passava per impotente. La conversazione fu sulle prime assai brillante. Il cardinale Bembo ne riferisce una parte. «Mio caro Pico,» disse il papa, «chi credi che sia il padre del mio nipotino?» «Vostro genero,» rispose Pico. «Ma come puoi credere una sciocchezza simile?» «Lo credo per fede.» «Ma non sai che un impotente non fa figli?» «La fede,» ribatté Pico, «consiste nel credere in cose che sono impossibili; per di più l'onore della vostra casa esige che il figlio di Lucrezia non passi per il frutto di un incesto. Voi mi fate credere in misteri ancor più incomprensibili. Non devo forse essere convinto che un serpente parlò e che da allora tutti gli uomini furono dannati; che l'asina di Balaam abbia parlato anch'essa con grande eloquenza, e che le mura di Gerico crollarono al suono delle trombe?» E Pico infilò prontamente una lunga litania di cose ammirabili in cui credeva. Alessandro, ridendo a crepapelle, piombò su un sofà. «Anch'io credo a tutto questo come te,» diceva, «perché mi rendo conto che non potrò salvarmi che in grazia della fede: non certo per le mie opere.» «Ah, Santo Padre,» disse Pico, «voi non avete bisogno né di opere né di fede: queste cose valgono per dei poveri profani come noi, ma voi che siete vice-Dio, potete credere e operare come più vi piace. Voi avete le chiavi del cielo; e, senza dubbio, san Pietro non vi sbatterà la porta in faccia. Ma, in quanto a me, vi dico che avrei bisogno di una potente protezione se, non essendo altro che un povero principe, fossi andato a letto con mia figlia e mi fossi servito dello stiletto e di certe polverine così spesso come Vostra Santità.» Alessandro vi sapeva stare allo scherzo. «Parliamo seriamente,» disse al principe della Mirandola. «Dimmi, che merito può esserci nel dire a Dio che siamo persuasi di cose delle quali non possiamo affatto essere persuasi? Che piacere può fare, questo, a Dio? Detto tra noi: dire di credere in quel che è impossibile credere, significa mentire.»
Pico della Mirandola si fece un gran segno di croce: «Ah, mio Dio!» esclamò, «Vostra Santità mi perdoni, ma voi non siete cristiano!» «No, in fede mia,» disse il papa. «Lo sospettavo,» replicò Pico della Mirandola.
(Scritto da un discendente di Rabelais)
II
Che cos'è la fede? È il credere in ciò che appare evidente? No: per me è evidente che esiste un Essere necessario, eterno, supremo, intelligente; ma questa non è fede, è ragione. Non ho nessun merito nel pensare che questo Essere eterno, infinito, che è la virtù, la bontà stessa, voglia che io sia buono e virtuoso. La fede consiste nel credere non a ciò che sembra vero, ma a ciò che sembra falso al nostro intelletto. Gli asiatici possono credere soltanto per fede al viaggio di Maometto nei sette pianeti, alle incarnazioni del dio Fo, di Visnù, di Xaca, di Brahma di Sammonocodom ecc. Essi sottomettono il loro intelletto, hanno paura d'esaminare, non vogliono né essere impalati né bruciati; dicono soltanto: «Io credo.»
C'è la fede in cose stupefacenti, e la fede in cose contraddittorie e impossibili.
Visnù s'è incarnato cinquecento volte; questo è sbalorditivo, ma, infine, non fisicamente impossibile, perché se Visnù ha un'anima, può averla messa in cinquecento corpi, tanto per divertirsi. L'indiano, in verità, non ha una fede molto viva; non è intimamente persuaso di queste metamorfosi; però dice al suo bonzo: «Ho la fede: voi volete che Visnù sia passato per cinquecento incarnazioni; ciò vi frutta cinquecento rupie di rendita. E va bene; ma se io non l'ho, questa fede, voi andrete in giro a berciare contro di me, mi denuncerete, e rovinerete il mio commercio. Ebbene, questa fede ce l'ho, e in più eccovi dieci rupie in regalo.» L'indiano può giurare a quel bonzo che gli crede, senza fare un falso giuramento perché, dopo tutto, non gli è dimostrato che Visnù non sia venuto nelle Indie cinquecento volte.
Ma se il bonzo esige da lui ch'egli creda in una cosa contraddittoria, impossibile - per esempio, che due più due fanno cinque, che lo stesso corpo può trovarsi in mille luoghi diversi, che essere e non essere sono assolutamente la medesima cosa - in questo caso, se l'indiano dice che egli ha la fede, mente; e se giura che crede, commette uno spergiuro. Dice dunque al bonzo: «Reverendo padre, io non posso assicurarvi che credo a queste assurdità, anche se esse vi fruttassero diecimila rupie di rendita, invece di cinquecento.» «Figlio mio,» risponde il bonzo, «dammi venti rupie, e Dio ti farà la grazia di credere in tutto ciò in cui non credi.» «Ma come potete pensare,» risponde l'indiano, «che Dio operi su di me quel che non può operare su se stesso? Non è possibile che Dio faccia o creda in cose contraddittorie: non sarebbe Dio, altrimenti. Io sono pronto, per farvi piacere, a credere in ciò che è oscuro; ma non posso dirvi che credo nell'impossibile. Dio vuole che noi siamo virtuosi, non che siamo assurdi. Vi ho già dato dieci rupie, eccone ancora venti: credete in trenta rupie; siate, se ci riuscite, un uomo onesto, e non rompetemi più le scatole.»
Filosofo, «amante della saggezza», ossia «della verità». Tutti i filosofi hanno avuto questa duplice facoltà: non c'è nessun filosofo dell'antichità che non abbia dato esempi di virtù agli uomini e lezioni di verità morali. Essi poterono ingannarsi tutti nella fisica, ma questa è così poco necessaria alla condotta della vita che i filosofi non ne avevano nessun bisogno. Sono occorsi secoli per conoscere una parte delle leggi della natura. Un giorno solo basta a un saggio per conoscere i doveri dell'uomo.
Il filosofo non è un entusiasta, non s'erige a profeta, non si dice ispirato dagli dei; e così non porrò nel novero dei filosofi né l'antico Zoroastro, né Ermete, né l'antico Orfeo, né alcuno di quei legislatori di cui si gloriavano le nazioni della Caldea, della Persia, della Siria, dell'Egitto e della Grecia. Coloro che si proclamarono figli degli dei erano padri dell'impostura; e, se si servirono della menzogna per insegnare alcune verità, erano indegni d'insegnarle; non erano filosofi: erano tutt'al più dei prudentissimi mentitori.
Per quale fatalità, forse vergognosa per i popoli occidentali, dobbiamo arrivare fino all'estremo Oriente per trovare un saggio semplice, alieno dal fasto e dall'impostura, che insegnava agli uomini a vivere felici seicento anni prima della nostra era, in un tempo in cui da noi tutto il nord ignorava l'alfabeto e i greci cominciavano appena a distinguersi per la loro saggezza? Questo saggio è Confucio, che, unico fra tutti i legislatori, non volle mai ingannare gli uomini. Quale più bella regola di condotta fu mai data, dopo di lui, in tutta la terra? «Governate uno Stato come si deve governare una famiglia: non si può ben governare la propria famiglia che dandole il buon esempio.
«La virtù deve essere comune al contadino e al monarca.
«Abbi cura di prevenire i delitti, se vuoi toglierti il peso di punirli.
«Sotto i buoni re Yao e Xu i cinesi furono buoni; sotto i cattivi re Kie e Chu furono cattivi.
«Fa' agli altri quel che faresti a te stesso.
«Ama gli uomini in generale; ma prediligi quelli virtuosi. Dimentica le ingiurie, mai i benefici.
«Ho veduto uomini incapaci di scienza, non ne ho mai visti incapaci di virtù.»
Riconosciamo che non c'è mai stato legislatore che abbia annunciato verità più utili al genere umano.
Una folla di filosofi insegnò, dopo di lui, una morale altrettanto pura. Se si fossero limitati ai loro vani sistemi di fisica, oggi non si pronunzierebbe il loro nome che per prenderli in giro. Se li rispettiamo ancora, è perché furono giusti e insegnarono agli uomini ad esserlo.
Non possiamo leggere certi passi di Platone e, soprattutto, l'ammirevole esordio delle leggi di Zaleuco, senza sentire in cuore l'amore per le azioni oneste e generose. I romani ebbero il loro Cicerone, che vale da solo, forse, tutti i filosofi della Grecia. Dopo di lui vi furono uomini ancor più degni di rispetto, ma che si dispera quasi di poter imitare: Epitteto, nella sua condizione di schiavo, gli Antonini e i Giuliani sul trono.
Quale cittadino fra noi si priverebbe, come Giuliano, Antonino e Marco Aurelio, di tutte le delicatezze della nostra vita molle ed effeminata? Chi dormirebbe come loro sulla nuda terra? Chi vorrebbe imporsi la loro frugalità? Chi marcerebbe come loro a piedi nudi e capo scoperto, alla testa degli eserciti, esposto al sole ardente come al gelo? Chi saprebbe dominare come loro le proprie passioni? Tra noi ci sono dei devoti; ma dove sono i saggi? Dove sono le anime incrollabili, giuste e tolleranti?
Abbiamo avuto grandi filosofi speculativi, in Francia; e tutti, meno Montaigne, sono stati perseguitati. Questo, mi sembra, è l'estremo grado della malignità della nostra natura: voler opprimere quegli stessi filosofi che vogliono correggerla.
Capisco che dei fanatici di una setta vogliano scannare gli entusiasti di un'altra; che i francescani odino i domenicani, e che un cattivo artista intrighi per diffamare chi gli è superiore; ma che il saggio Charron sia stato minacciato di morte; che il dotto e generoso Ramus sia stato assassinato; che Descartes sia stato obbligato a fuggire in Olanda per sottrarsi al furore degli ignoranti; che Gassendi sia stato costretto più volte a ritirarsi a Digne, al riparo dalle calunnie di Parigi, queste sono vergogne eterne per una nazione.
Uno dei filosofi più perseguitati fu l'immortale Bayle, onore dell'umana natura. Mi si dirà che il nome di Jurieu, suo calunniatore e persecutore, è diventato esecrabile: lo riconosco. Anche il nome del gesuita Le Tellier è divenuto tale; ma i grandi uomini che costui oppresse, non hanno ugualmente consumato i loro giorni nell'esilio e nella miseria?
Uno dei pretesti di cui ci si servì per perseguitare Bayle e ridurlo alla povertà fu la voce David del suo utile dizionario. Lo si accusava di non aver lodato azioni in sé ingiuste, sanguinarie, atroci, o contrarie alla buona fede, o che fanno arrossire il pudore.
Bayle, infatti, non lodò David per aver radunato, secondo i libri ebraici, seicento vagabondi carichi di debiti e di delitti; per aver saccheggiato i suoi compatrioti alla testa di quei banditi; per essersi deciso a sgozzare Nabal e tutta la sua famiglia perché non aveva voluto pagare le taglie; per essere andato a vendere i suoi servigi al re Achis, nemico della sua nazione; per aver tradito questo re, suo benefattore; per aver saccheggiato i villaggi alleati del medesimo re; per aver massacrato in quei villaggi persino i lattanti, per paura che qualcuno di loro un giorno potesse denunciare le sue rapine; per aver fatto morire tutti gli abitanti di alcuni altri villaggi sotto seghe, erpici di ferro, e in fornaci da mattoni; per aver rubato, con una azione perfida, il trono a Isboset, figlio di Saul; per aver spogliato e fatto morire Mifiboset, nipote di Saul e figlio del suo amico, del suo protettore Gionata; per aver consegnato ai gabaoniti altri due figli e cinque nipoti di Saul che morirono impiccati.
Non parlo dell'incredibile incontinenza di David, delle sue concubine, del suo adulterio con Betsabea e dell'assassinio di Uria.
Ma come! I nemici di Bayle avrebbero voluto che egli elogiasse tutte queste crudeltà e tutti questi delitti? Bayle avrebbe dovuto dire: «Principi della terra, imitate l'uomo secondo il cuore di Dio; massacrate senza pietà gli alleati del vostro benefattore; sgozzate o fate sgozzare la famiglia del vostro re; andate a letto con tutte le donne dopo aver fatto trucidare tutti gli uomini, e sarete un modello di virtù, non appena si dirà che avete composto dei salmi»?
Bayle non aveva forse ragione di dire che David fu un uomo secondo il cuore di Dio, non per i suoi misfatti, ma per la sua penitenza? Bayle non rendeva un servigio al genere umano affermando che Dio, il quale senza dubbio aveva dettato tutta la storia ebraica, non canonizzò i crimini riferiti in essa?
Tuttavia Bayle fu perseguitato. E da chi? Da uomini anch'essi perseguitati, da esuli che nella loro patria sarebbero stati condannati al rogo; e costoro erano combattuti da altri esuli chiamati giansenisti, cacciati dal loro paese dai gesuiti, i quali, più tardi, furono cacciati a loro volta.
Cosi tutti i persecutori si dichiararono una guerra mortale, mentre il filosofo, oppresso da tutti loro, si accontentava di compiangerli.
Non è molto noto che Fontanelle, nel 1713, fu sul punto di perdere le sue pensioni, la sua carica e la sua libertà per aver redatto, in Francia, vent'anni prima, il Trattato sugli oracoli del dottor Van Dale, da cui aveva eliminato prudentemente tutto quanto poteva far divampare il fanatismo. Un gesuita aveva scritto contro di lui, ed egli non s'era degnato di rispondere; e ciò bastò perché il gesuita Le Tellier, confessore di Luigi XIV, accusasse Fontanelle di ateismo presso il re.
Senza l'intervento del signor D'Argenson, quel degno figlio d'un falsario, procuratore di Vire, e riconosciuto poi falsario anche lui, avrebbe proscritto la vecchiaia del nipote di Corneille.
È talmente facile sedurre il proprio penitente che dobbiamo ringraziare Dio se quel Le Tellier non fece più male ancora. Ci sono due luoghi nel mondo dove non si può resistere alla seduzione e alla calunnia: il letto e il confessionale.
Abbiamo sempre visto i filosofi perseguitati da fanatici. Ma è possibile che anche i letterati siano dei fanatici, e che essi stessi affilino spesso le armi contro i loro fratelli, che vengono l'uno dopo l'altro abbattuti?
Dannati uomini di lettere! Sta a voi fare i delatori? Ditemi se ci furon mai, presso i romani, dei Garasse, degli Chaumeix, degli Hayer che accusassero i Lucrezio, i Posidonio, i Varrone, i Plinio!
Essere ipocriti, che bassezza! Ma essere ipocriti e malvagi, che orrore! Nell'antica Roma, dei cui sudditi eravamo piccola parte, non ci furono mai ipocriti. Ci furono delle canaglie, lo ammetto, ma non degli ipocriti religiosi, che sono la specie più vile e più crudele di tutte. Perché in Inghilterra non ce ne sono affatto? Perché mai in Francia ce ne sono tanti? Filosofi, vi sarà facile risolvere questo problema.
Bisogna essere dei gran pazzi per negare che lo stomaco sia fatto per digerire, gli occhi per vedere, le orecchie per udire.
D'altra parte, bisogna avere uno strano amore delle cause finali, per sostenere che la pietra è stata creata allo scopo di costruire case e che i bachi da seta sono nati in Cina perché noi potessimo avere del satin in Europa.
Ma, si osserva, se Dio ha creato una cosa per un fine, ne consegue che ha creato tutte le cose per un fine. È ridicolo ammettere la Provvidenza in un caso e negarla negli altri. Tutto ciò che è, è stato previsto, preordinato. Non c'è ordine che non abbia un senso, non c'è effetto senza causa: dunque tutto è egualmente il risultato, il prodotto di una causa finale; ed è altrettanto legittimo dire che i nasi sono stati fatti per portare gli occhiali e le dita per essere ornate di diamanti, quanto lo è il dire che le orecchie sono state formate per udire i suoni e gli occhi per vedere la luce.
Io credo che si possa facilmente chiarire questa difficoltà. Quando gli effetti sono invariabilmente i medesimi, in tutti i luoghi e in tutti i tempi, quando questi effetti uniformi sono indipendenti dagli esseri ai quali appartengono, allora c'è, in modo evidente, una causa finale.
Tutti gli animali hanno occhi, e vedono; tutti hanno orecchie e odono; hanno una bocca con la quale mangiano, uno stomaco o qualcosa di simile con cui digeriscono, un orifizio da cui espellono gli escrementi e uno strumento per la generazione; e questi doni della natura operano in essi senza l'ausilio di nessun'arte. Ecco delle cause finali chiaramente stabilite; sarebbe pervertire la nostra facoltà il pensare di negare una verità così universale.
Ma le pietre non servono, in ogni luogo e tempo, a costruire case; né tutti i nasi portano occhiali, né tutte le dita anelli, né tutte le gambe vestono calze di seta. Il baco da seta non è stato dunque creato per coprirmi le gambe, come la vostra bocca è fatta per mangiare e il nostro deretano per andare al gabinetto. Ci sono, dunque, effetti prodotti da cause finali e altri, in grandissimo numero, che non possono chiamarsi con questo nome.
Ma gli uni e gli altri fanno parte egualmente del disegno della Provvidenza generale; niente, indubbiamente, accade contro di essa o senza di essa. Tutto ciò che appartiene alla natura è uniforme, immutabile, è l'opera immediata del Signore: è lui che ha creato le leggi per cui la luna conta per tre quarti nella causa del flusso e del riflusso dell'oceano, e il sole per un quarto; è lui che ha dato un movimento di rotazione al sole, per cui questo astro, in cinque minuti e mezzo, invia raggi di luce negli occhi degli uomini, dei coccodrilli e dei gatti.
Ma se, dopo tanti secoli, ci è successo di inventare forbici e spiedi, di tosare con le prime la lana dei montoni, e di farli cuocere con i secondi per mangiarli, che altro si può inferire se non che Dio ci ha fatti in modo che un giorno dovessimo diventare industriosi e carnivori?
Senza dubbio, i montoni non furono certo creati per essere cotti e mangiati, poiché molti popoli si astengono da questo orrore; gli uomini non furono certo creati per massacrarsi a vicenda, poiché i bramini e i quaccheri non ammazzano nessuno; ma la pasta di cui siam fatti produce spesso massacri, come produce calunnie, vanità, persecuzioni e impertinenze. Non che la conformazione dell'uomo sia precisamente la causa finale dei nostri furori e delle nostre sciocchezze: perché una causa finale è universale e invariabile in ogni tempo e in ogni luogo; ma gli orrori e le assurdità della specie umana fanno parte egualmente dell'ordine eterno delle cose. Quando noi battiamo il grano, il correggiato è la causa finale della separazione del grano. Ma se questo correggiato, battendo il mio grano, schiaccia mille insetti, ciò non avviene affatto perché lo voglio, e nemmeno per caso: è solo perché quegli insetti si son trovati in quel momento sotto il mio correggiato, e dovevano trovarcisi.
È una conseguenza della natura delle cose che un uomo sia ambizioso, che un altro arruoli talvolta altri uomini, che sia vincitore o che sia sconfitto. Ma mai si potrà dire: «L'uomo è stato creato da Dio per essere ucciso in guerra.»
Gli strumenti che ci ha dato la natura non possono essere sempre cause finali in azione, che abbiano il loro immancabile effetto: gli occhi dati per vedere non sono sempre aperti; ogni senso ha i suoi momenti di riposo. Vi sono anche dei sensi di cui non si fa mai uso. Per esempio: una povera sciocca sventurata, rinchiusa in un chiostro a quattordici anni, chiude per sempre in sé la porta da cui sarebbe dovuta uscire una nuova generazione; ma la causa finale sussiste lo stesso: essa agirà, non appena sarà libera.
Non è il caso di rivolgerci al libro di Erasmo, che oggi sarebbe soltanto un insieme di luoghi comuni e abbastanza insipidi.
Noi chiamiamo «follia» quella malattia degli organi del cervello che impedisce ad un uomo di pensare e agire come gli altri. Se costui non può amministrare i suoi beni, lo si interdice; se non riesce ad avere idee consone alla società, lo si esclude; se e pericoloso, lo si rinchiude; se è furioso, lo si lega.
Ciò che importa osservare è che quest'uomo non è affatto privo di idee; ne ha come tutti gli altri, durante la veglia, e spesso anche quando dorme. Ci si può domandare come mai la sua anima spirituale, immortale, situata nel suo cervello, pur ricevendo attraverso i sensi tutte le idee ben nette e distinte, non ne ricavi mai pero un retto giudizio. Essa vede gli oggetti come li vedeva l'anima di Aristotele e di Platone, di Locke e di Newton; ode gli stessi suoni, ha la stessa sensazione del tatto: come mai, dunque, ricevendo le stesse percezioni delle persone più sagge, non può fare a meno di combinarle in modo stravagante?
Se questa sostanza semplice ed eterna ha per le sue azioni gli stessi strumenti che hanno le anime dei cervelli sani, dovrebbe ragionare come loro. Chi può impedirglielo? Concepisco chiaramente che, se un pazzo vede rosso e i sani vedono blu; se quando questi odono una musica, lui ode il raglio di un asino; se quando i sani sono alla predica, costui crede di essere a teatro; se quando essi intendono «sì», egli intende «no», allora la sua anima deve pensare il contrario di quel che pensano gli altri. Ma il pazzo ha le medesime percezioni loro; non c'è nessuna ragione apparente perché la sua anima, avendo ricevuto dai suoi sensi tutti i suoi strumenti, non possa farne uso. Essa è pura, dicono; non è di per sé soggetta ad alcuna infermità: eccola fornita di tutti gli ausili necessari; qualsiasi cosa accada nel corpo, niente può mutare l'essenza di quest'anima; con tutto ciò, la si porta, col suo involucro, al manicomio!
Questa riflessione può far sospettare che la facoltà di pensare, data da Dio all'uomo, sia soggetta a guasti, come gli altri sensi. Un pazzo è un infermo il cui cervello soffre, come il gottoso è un infermo che ha male ai piedi e alle mani: egli pensava con il cervello, come camminava con i piedi, senza nulla sapere né della sua incomprensibile facoltà di camminare, né della sua non meno incomprensibile facoltà di pensare. Si ha la gotta al cervello come la si ha ai piedi. Infine, dopo mille ragionamenti, forse solo la fede può convincerci che una sostanza semplice e immateriale possa essere malata.
I dotti o i dottori diranno al pazzo: «Amico mio, sebbene tu abbia perduto il senso comune, la tua anima è altrettanto spirituale, pura, immortale della nostra. Ma la nostra è alloggiata bene, e la tua, male; le finestre della casa sono ostruite per lei, le manca l'aria, soffoca.» Il pazzo, nei suoi momenti di lucidità, potrebbe rispondere: «Amici miei, voi, come al solito, presupponete quel che invece è in discussione. Le mie finestre sono aperte altrettanto bene che le vostre, poiché vedo gli stessi oggetti e odo le stesse parole; bisogna dunque, necessariamente, che la mia anima faccia un cattivo uso dei suoi sensi, o che essa stessa sia un senso viziato, una qualità depravata. In poche parole: o la mia anima è di per sé pazza, o io non ho anima.»
Uno dei dottori potrà rispondere: «Fratello mio, Dio forse ha creato anime folli, come ha creato anime sagge.» Il pazzo replicherà: «Se credessi a quel che dite, sarei ancora più pazzo di quel che sono. Di grazia, voi che ne sapete tante, ditemi: perché sono pazzo?» Se i dottori hanno ancora un po' di buon senso, gli risponderanno: «Non ne sappiamo un'acca.» Essi non comprenderanno perché un cervello abbia idee incoerenti; del resto, non comprenderanno nemmeno perché un altro cervello possa avere idee normali e coerenti. Si crederanno saggi, e invece saranno altrettanto pazzi quanto lui.
FRODE. SE SIA NECESSARIO USARE PIE FRODI CON IL POPOLO
Il fachiro Bambabef incontrò un giorno un discepolo di Kung Fu-tzu, che noi chiamiamo Confucio, e questo discepolo si chiamava Uang. Bambabef sosteneva che il popolo ha bisogno di essere ingannato. Uang invece affermava che non bisogna mai ingannare nessuno. Eccovi, riassunta, la loro discussione.
BAMBABEF: Bisogna imitare l'Essere supremo, che non ci mostra le cose quali sono in realtà: egli ci fa vedere il sole con un diametro di due o tre piedi, sebbene questo astro sia un milione di volte più grande della terra; ci fa vedere la luna e le stelle attaccate sullo stesso fondo azzurro, mentre si trovano a distanze diverse. Vuole che, vista da lontano, una torre quadrata ci sembri rotonda; vuole che il fuoco ci sembri caldo, sebbene in sé non sia né caldo né freddo. Insomma, ci circonda di errori convenienti alla nostra natura.
UANG: Quelli che voi chiamate errori non sono tali. Il sole, quale si trova a milioni di milioni di li di là dal nostro globo, non è quello che noi vediamo. Noi non vediamo, in realtà, e non possiamo vedere che il sole che si riflette sulla nostra retina, sotto un determinato angolo. I nostri occhi non ci sono stati dati per conoscere le grandezze e le distanze; per conoscerle occorrono altri ausili e altre operazioni.
Bambabef sembrò molto stupito a queste parole. Uang, che era molto paziente, gli spiegò la teoria dell'ottica; e Bambabef, che non era affatto stupido, si arrese alle dimostrazioni del discepolo di Confucio. Poi riprese la disputa in questi termini:
BAMBABEF: Se Dio non ci inganna per mezzo dei nostri sensi, come io credevo, ammettete almeno che i medici ingannano sempre i bambini per il loro bene; dicono che daranno loro dello zucchero, e invece danno loro del rabarbaro. E dunque, io, fachiro, posso ingannare il popolo, che è ignorante come i bambini.
UANG: Io ho due figli, e non li ho mai ingannati. Ho detto loro, quando erano malati: «Ecco una medicina molto amara, bisogna avere il coraggio di berla; vi farebbe male se fosse dolce.» Non ho mai sopportato che governanti e precettori incutessero loro paura degli spiriti, dei fantasmi, dei folletti, degli stregoni. E così ne ho fatti dei giovani cittadini coraggiosi e saggi.
BAMBABEF: Il popolo non è nato in una condizione felice come quella della vostra famiglia.
UANG: Tutti gli uomini si somigliano: sono nati con le stesse disposizioni. Sono i fachiri che corrompono la natura degli uomini,
BAMBABEF: Noi insegnamo loro degli errori, lo confesso, ma per il loro bene. Noi facciamo credere loro che, se non comprano i nostri chiodi benedetti, se non espiano i loro peccati dandoci del denaro, diventeranno, in un'altra vita, cavalli da posta, cani o lucertole: ciò li sgomenta, e così diventano gente per bene.
UANG: Ma non vi accorgete di pervertire questa povera gente? Ce ne sono fra loro, più che non si creda, che ragionano, e che se la ridono dei vostri miracoli, delle vostre superstizioni; che sanno benissimo che non saranno cambiati né in lucertole né in cavalli da posta; e allora, che accade? Essi hanno abbastanza buon senso da capire che gli insegnate una religione balorda, ma non ne hanno abbastanza per elevarsi verso una religione pura e libera da superstizioni come la nostra. Le passioni li portano a credere che non c'è religione, perché la sola che si insegna loro è ridicola; voi diventate colpevoli di tutti i vizi in cui affondano.
BAMBABEF: Niente affatto, perché noi insegnamo loro una buona morale.
UANG: Vi fareste lapidare dal popolo, se gli insegnaste una morale impura. Gli uomini sono cosiffatti che accettano volentieri di commettere il male, ma non accettano che glielo si predichi. Bisognerebbe soltanto non mischiare una morale saggia con favole assurde, perché così voi indebolite, con le vostre imposture, di cui potreste fare a meno, quella morale che siete obbligati a insegnare.
BAMBABEF: E che! Voi credete che si possa insegnare la verità al popolo senza sostenerla con delle favole?
UANG: Lo credo fermamente. I nostri letterati sono della stessa pasta dei nostri sarti, dei nostri tessitori e dei nostri contadini. Essi adorano un Dio creatore, remuneratore e vendicatore. Essi non macchiano il loro culto né con sistemi assurdi, né con cerimonie stravaganti; e ci sono molto meno delitti fra i letterati che non tra il popolo. Perché non degnarsi di istruire i nostri operai, come istruiamo i nostri letterati?
BAMBABEF: Fareste una grossa sciocchezza. È come se voleste che fossero forniti delle stesse doti, che fossero tutti giureconsulti. Occorre pane bianco per i padroni e pane bigio per i domestici.
UANG: Ammetto che non tutti gli uomini debbano avere la stessa scienza; ma ci sono cose necessarie a tutti. È necessario che ognuno sia giusto, e il modo più sicuro di insegnare la giustizia a tutti è di insegnare la religione senza superstizioni.
BAMBABEF: È bel progetto, ma impraticabile. Pensate forse che agli uomini basti credere in un Dio che punisce e ricompensa? Voi mi avete detto che spesso succede, tra il popolo, che i più intelligenti si ribellano alle mie favole: costoro si ribelleranno ugualmente alla vostra verità. Diranno: «Chi mi assicura che Dio punisce e ricompensa? Che prova c'è? E che missione avete, voi? Che miracolo avete compiuto perché vi creda?» E si burleranno di voi molto più che di me.
UANG: Ecco dov'è il vostro errore. Voi vi immaginate che si scuoterà il giogo di un'idea onesta, verosimile, utile a tutti, concorde con la ragione umana, solo perché si rifiutano cose disoneste, assurde, inutili, pericolose, che suscitano avversione in chi è dotato di buon senso.
Il popolo è dispostissimo a credere ai suoi magistrati; quando questi gli propongono una credenza ragionevole, la fa sua volentieri. Non c'è nessun bisogno di miracoli per credere in un Dio giusto, che legge nel cuore dell'uomo: è un'idea troppo naturale per essere combattuta. Non è necessario precisare in qual modo Dio punirà e ricompenserà: basta che si creda alla sua giustizia. Vi assicuro che ho visto intere città che non avevano quasi altri dogmi, e sono quelle dove ho trovato più virtù.
BAMBABEF: Fateci caso: in queste città troverete anche dei filosofi che vi negheranno e le pene e le ricompense.
UANG: Ma ammetterete che questi filosofi negheranno ancor più vivamente le vostre invenzioni: Perciò non avete niente da guadagnarci. E quand'anche vi fossero dei filosofi che rifiutassero i miei principi, non sarebbero per questo meno onesti né meno ricchi di quella virtù che deve essere praticata per amore, non per paura. Ma c'è di più: lo vi assicuro che nessun filosofo potrebbe mai essere certo che la Provvidenza non riservi pene ai malvagi e ricompense ai buoni; perché se essi mi chiederanno chi mi ha detto che Dio punisce, io chiederò loro chi gli ha detto che Dio non punisce. Insomma, sostengo che i filosofi mi aiuteranno, lungi dal contraddirmi. Volete essere filosofo anche voi?
BAMBABEF: Volentieri. Ma non ditelo ai fachiri.
Ultima modifica 12.01.2009