CARATTERE | |||||
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CATENA DEGLI AVVENIMENTI | |||||
CONCILI |
Dal greco, impressione, impronta. È ciò che la natura ha impresso in noi. Possiamo cancellarlo? Che grosso problema. Se io ho il naso storto e due occhi da gatto, potrò nasconderli con una maschera. Ma posso fare altrettanto con il carattere che la natura mi ha dato? Un uomo nato violento, facile ad infuriarsi, si presenta davanti a Francesco I, re di Francia, per protestare contro un sopruso; il volto del re, il contegno rispettoso dei cortigiani, il luogo stesso in cui si trova, fanno una profonda impressione su quest'uomo; macchinalmente abbassa gli occhi, addolcisce la sua rude voce, presenta umilmente la sua richiesta; lo si crederebbe tanto mite quanto (almeno in quel momento) lo sono i cortigiani fra i quali si trova, sconcertato; ma se Francesco I conosce le fisionomie, scoprirà facilmente nei suoi occhi bassi, ma accesi da una cupa fiamma, nei muscoli tesi del viso, nelle labbra serrate, che quell'uomo non è così mite com'è costretto ad apparire. Quell'uomo lo segue a Pavia, vien fatto prigioniero con lui, e con lui condotto in prigione a Madrid; la maestà di Francesco I non fa più su di lui la stessa impressione; egli si familiarizza con l'oggetto del suo rispetto. Un giorno, cavando gli stivali al re, e tirandoli male, fa arrabbiare Francesco I, inasprito dalla sua sventura; il nostro uomo manda al diavolo il re e butta gli stivali dalla finestra.
Sisto V era nato petulante, testardo, altero, impetuoso, vendicativo, arrogante: questo carattere sembra farsi più mite nelle prove del noviziato. Ma appena comincia a godere di qualche credito nel suo ordine, s'infuria contro un guardiano e quasi lo accoppa a forza di pugni; inquisitore a Venezia, esercita il suo incarico con insolenza; eccolo cardinale, posseduto dalla «rabbia papale»; questa rabbia gli fa vincere la sua natura; seppellisce nell'oscurità la sua persona e il suo carattere: si atteggia ad umile, si finge moribondo. Viene eletto papa: questo restituisce alla molla, che la politica aveva piegato, tutta la sua elasticità a lungo compressa: adesso è il più fiero e il più dispotico dei sovrani.
Naturam expellas furca, tamen ipsa redibit.
La religione, la morale mettono un freno alla forza del naturale: non possono distruggerla. L'ubriacone in un chiostro, ridotto a un mezzo bicchiere di sidro per pasto, non si ubriacherà più, ma penserà sempre con desiderio al vino.
L'età indebolisce il carattere; è un albero che non produce più che qualche frutto degenere, ma sempre della stessa natura: si copre di nodi e di musco, diventa tarlato, ma resta sempre una quercia o un pero. Se potessimo cambiare il nostro carattere, ce ne daremmo uno e saremmo padroni della natura. Ma possiamo, noi, darci qualcosa? Non riceviamo tutto? Cercate di spingere un indolente ad una attività continua, di smorzare con l'apatia l'animo bollente dell'impetuoso, d'ispirare il gusto per la musica e la poesia a chi manca di gusto e d'orecchio: non riuscireste meglio che se tentaste di ridare la vista a un cieco nato. Noi perfezioniamo, mitighiamo, nascondiamo quel che la natura ha messo in noi; ma non ci mettiamo niente.
Si dice a un coltivatore: «Avete troppi pesci in questo vivaio; non potranno prosperare; troppo bestiame nei vostri prati e troppa poca erba: dimagrirà.» Dopo questa esortazione si arriva al fatto che i lucci mangiano metà delle carpe del nostro uomo, e i lupi metà dei suoi montoni; quello che resta vivo ingrassa. Si rallegrerà della propria economia? Questo campagnolo sei tu; una delle tue passioni ha divorato le altre, e tu credi d'aver trionfato di te stesso. Non somigliamo quasi tutti a quel vecchio generale di novant'anni che, incontrati alcuni giovani ufficiali mentre facevano un po' di chiasso con delle donnine allegre, urlò loro infuriato: «Signori, è forse questo l'esempio che io vi do?»
(Tradotto in latino dal padre Fouquet, ex gesuita. Il manoscritto si trova nella Biblioteca Vaticana, n. 42759)
Dialogo primo
KU:Che devo intendere quando mi si dice d'adorare il cielo (Shang-ti)?
CU-SU:Non d'adorare il cielo materiale, che vediamo; perché questo cielo non è che aria, e quest'aria è composta da tutte le esalazioni della terra; sarebbe una follia ben assurda l'adorare dei vapori.
KU: Tuttavia non ne sarei sorpreso. Mi sembra che gli uomini abbiano commesso follie anche più grandi.
CU-SU: È vero; ma voi siete destinato a governare; perciò dovete essere saggio.
KU: Ci sono tanti popoli che adorano i cieli e i pianeti!
CU-SU: I pianeti non sono che terre come la nostra. La luna, per esempio, avrebbe tanta ragione d'adorare la nostra sabbia e il nostro fango, quanto noi d'inginocchiarci davanti alla sabbia e al fango della luna.
KU: E allora che significa quando diciamo: il cielo e la terra, salire in cielo, essere degni del cielo?
CU-SU: Che diciamo un'enorme sciocchezza. Il cielo non c'è: ogni pianeta è circondato dalla sua atmosfera come da un guscio, e ruota nello spazio attorno al suo sole. Ogni sole è centro di molti pianeti che viaggiano continuamente attorno a lui: non c'è né alto né basso, né salita né discesa. Voi capite che, se gli abitanti della luna dicessero che si sale in terra, che bisogna rendersi degni della terra, direbbero una cosa insensata. Noi pronunziamo una frase priva di senso, quando diciamo che bisogna rendersi degni del cielo; è come se dicessimo: bisogna rendersi degni dell'aria, o della costellazione del dragone, o dello spazio.
KU: Credo di capire. Bisogna adorare soltanto Dio, che ha fatto il cielo e la terra.
CU-SU: Senza dubbio: bisogna adorare soltanto Dio. Ma quando diciamo che egli ha fatto il cielo e la terra, diciamo piamente una grande banalità. Perché se noi intendiamo per cielo lo spazio prodigioso nel quale Dio ha acceso tanti soli e fatto ruotare tanti mondi, è molto più ridicolo dire «il cielo e la terra» che dire «le montagne e un granello di sabbia». Il nostro globo è infinitamente più piccolo di un grano di sabbia, a paragone di quei miliardi di universi davanti ai quali noi scompariamo. Tutto quel che possiamo fare è di unire la nostra debole voce a quella degli innumerevoli esseri che rendono omaggio a Dio nell'abisso dello spazio.
KU: Ci han dunque ben ingannati quando ci hanno detto che Fo discese tra noi dal quarto cielo, in forma di elefante bianco.
CU-SU: Sono favole che i bonzi raccontano ai bambini e alle vecchiette: noi dobbiamo adorare solo l'eterno creatore di tutti gli esseri.
KU: Ma come ha potuto un essere crearne altri?
CU-SU: Guardate quella stella: essa è a millecinquecentomila milioni di li dal nostro piccolo globo: da lei partono raggi che producono sui vostri occhi due angoli eguali al vertice; essi producono gli stessi angoli negli occhi di tutti gli animali: non è questo il segno di un piano deliberato? di una legge ammirevole? Ora, chi compie un'opera se non un operaio? e chi emana leggi se non un legislatore? C'è dunque un operaio, un legislatore eterno.
KU: Ma chi ha creato quest'operaio? E come è fatto?
CU-SU: Principe, passeggiavo ieri vicino a quel gran palazzo fatto costruire dal re vostro padre; sentii due grilli che dicevano l'uno all'altro: «Che immane edificio!» «Sì,» rispose il compagno, «per quanto orgoglioso io sia, confesso che chi ha compiuto questo prodigio è qualcuno molto più potente dei grilli; ma non ho la minima idea di questo essere: vedo che c'è, ma non so che cosa sia.»
KU: E io vi dico che siete un grillo più istruito di me; e quel che mi piace in voi è che non pretendete di sapere quel che ignorate.
Dialogo secondo
CU-SU: Ammettete dunque che c'è un essere onnipotente, che esiste per se stesso, supremo artefice di tutta la natura?
KU: Sì. Ma se egli esiste per se stesso, niente può limitarlo: dunque è dappertutto; esiste dunque in tutta la materia, in tutte le parti di me stesso?
CU-SU: E perché no?
KU: Dunque io stesso sarei una parte della divinità?
CU-SU: Questa, forse, non è una conseguenza necessaria, Questo pezzetto di vetro è penetrato da ogni parte dalla luce, ma è forse luce lui stesso? no, non è che sabbia, nient'altro. Certo, tutto è in Dio: ciò che anima tutto deve essere dappertutto. Dio non è come l'imperatore della Cina, che abita nel suo palazzo e manda i suoi ordini per mezzo dei «Kolao». Per il fatto stesso che esiste, l'essere suo pervade necessariamente tutto lo spazio e tutte le sue opere. E poiché egli è in voi, questo è un ammonimento continuo a non far nulla di cui possiate arrossire davanti a lui.
KU: E che cosa bisogna fare per poter guardare se stessi senza ripugnanza e senza onta, davanti all'Essere supremo?
CU-SU: Essere giusti.
KU: E poi?
CU-SU: Essere giusti.
KU: Ma la setta di Laokium sostiene che non c'è né giusto né ingiusto, né vizio né virtù.
CU-SU: La setta di Laokium sostiene forse che non c'è né salute né malattia?
KU: No: essa non sostiene un così grave errore.
CU-SU: L'errore di pensare che non c'è né salute dell'anima né malattia dell'anima, né virtù né vizio, è altrettanto grande e più funesto. Coloro che han detto che tutto è uguale sono dei mostri: è la stessa cosa nutrire il proprio figlio o schiacciarlo contro una pietra, soccorrere la propria madre o piantarle un pugnale nel cuore?
KU: Mi fate rabbrividire. Io detesto la setta di Laokium. Però ci sono tante sfumature del giusto e dell'ingiusto. Quanto spesso siamo nell'incertezza. Quale uomo sa con precisione quel che è permesso e quel che è proibito? Chi potrà fissare con sicurezza i limiti che separano il bene dal male? Quale regola mi darete per riconoscerli?
CU-SU: Quella di Confucio, il mio maestro: «Vivi come vorresti aver vissuto quando ci penserai in punto di morte; tratta il tuo prossimo come vorresti che egli ti trattasse.»
KU: Queste massime, lo riconosco, devono essere il codice del genere umano; ma che m'importerà, in punto di morte, di aver ben vissuto? Che ci guadagnerò? Quest'orologio, quando sarà distrutto, sarà felice d'aver suonato con precisione le ore?
CU-SU: Quest'orologio non sente, non pensa, non può avere rimorsi, mentre voi ne avete, quando vi sentite colpevole.
KU: Ma se, dopo aver commesso molti delitti, riuscissi a non avere più rimorsi?
CU-SU: Allora bisognerebbe strangolarvi. E state sicuro che fra gli uomini, che non amano essere oppressi, si troverà qualcuno che vi toglierà la possibilità di commettere nuovi delitti.
KU: E così Dio, che è in essi, permetterà loro d'essere malvagi, dopo averlo permesso a me?
CU-SU: Dio vi ha dato la ragione: non abusatene, né voi né loro. Non solo sarete infelici in questa vita, ma chi vi ha detto che non possiate esserlo anche in un'altra?
KU: E chi vi ha detto che c'è un'altra vita?
CU-SU: Solo per il fatto che ne dubitate, dovreste comportarvi come se ci fosse.
KU: E se fossi sicuro che non c'è?
CU-SU: Vi sfido a provarlo.
Dialogo terzo
KU: Mi sfidate, Cu-Su? Bene. Perché io possa venir ricompensato o punito quando non ci sarò più, bisogna che sussista in me qualche cosa che senta e pensi dopo di me. Ora, come prima della mia nascita niente di me aveva sentimento o pensiero, perché dovrebbe averne dopo la mia morte? e che potrebbe essere questa parte incomprensibile di me? Forse il ronzio di quest'ape resterà nell'aria quando non ci sarà più l'ape? La vegetazione di questa pianta sussisterà quando la pianta sarà stata divelta? La vegetazione non è forse una parola di cui ci serviamo per significare il modo inesplicabile con cui l'Essere supremo ha voluto che la pianta traesse i suoi succhi dalla terra? Così l'anima è una parola inventata per esprimere debolmente e oscuramente le energie della nostra vita. Tutti gli animali si muovono; e questa facoltà di muoversi noi la chiamiamo «forza attiva»: ma non esiste un ente distinto che sia questa forza. Noi abbiamo passioni, e memoria e ragione; ma queste passioni, questa memoria, questa ragione non sono, indubbiamente, enti a parte, piccoli individui che abbiano un'esistenza propria; sono semplicemente termini generici, inventati per fissare le nostre idee. E dunque l'anima, che significa la nostra memoria, la nostra ragione, le nostre passioni, non è che una parola. Chi imprime il moto alla natura? Dio. Chi fa vegetare tutte le piante? Dio. Chi fa muovere gli animali? Dio.
Se l'anima umana fosse una personcina rinchiusa nel nostro corpo per dirigerne i movimenti e le idee, questo non indicherebbe nell'eterno artefice del mondo un'impotenza e un artificio indegni di lui? Dio, dunque, non sarebbe stato capace di creare degli automi che avessero in sé il dono del movimento e del pensiero? Voi mi avete insegnato il greco, m'avete fatto leggere Omero. Io giudico Vulcano un fabbro divino, quando foggia dei tripodi d'oro che si muovono da soli per andare al concilio degli dei; ma questo stesso Vulcano mi sembrerebbe un volgare ciarlatano se avesse nascosto, nell'interno di quei tripodi, qualcuno dei suoi garzoni che, non visto, li facesse muovere.
Certi frigidi sognatori han creduto una bella idea che i pianeti possano essere mossi da geni che li spingono senza posa: ma non possiamo credere che Iddio sia stato ridotto a questo misero artificio. In breve, perché adoperare due forze per un'opera, quando ne basta una? Non oserete negare che Dio abbia il potere di rendere animato quell'ente assai poco conosciuto che noi chiamiamo «materia»; Perché dunque dovrebbe servirsi di un altro ente per animarla?
Ma c'è di più: che cosa sarebbe quest'anima, che voi elargite così liberalmente al nostro corpo? Da dove verrebbe? E quando? Dovremmo immaginare il Creatore dell'Universo continuamente intento a spiare ogni accoppiamento degli uomini e delle donne per cogliere il momento esatto in cui un germe esce dal corpo dell'uomo ed entra nel corpo della donna, e inviare, in un baleno, un'anima in quel germe? E se quel germe muore, che sarà di quell'anima? Sarà stata creata inutilmente o dovrà attendere un'altra occasione?
Mi sembra, ve lo confesso, una strana occupazione per il padrone dell'Universo. E non solo egli dovrebbe sorvegliare continuamente ogni copulazione delle specie umana; ma dovrebbe fare lo stesso anche con tutti gli animali: perché essi han tutti, come noi, memoria, idee, passioni; e se crediamo necessaria un'anima per formare questi sentimenti, questa memoria, queste idee e queste passioni, dobbiamo anche credere che Dio lavori senza posa a fabbricare anime per gli elefanti e per le pulci, per i gufi, per i pesci e per i bonzi. Che immagine sarebbe questa dell'architetto di tanti milioni di mondi, obbligato a fabbricar di continuo tante molle invisibili per perpetuare l'opera sua?
Ecco una piccolissima parte delle ragioni che possono farmi dubitare dell'esistenza dell'anima.
CU-SU: Voi ragionate in buona fede, e questo sentimento virtuoso, quand'anche fosse erroneo, sarebbe gradito all'Essere supremo. Potete anche ingannarvi, ma dal momento che non ne avete l'intenzione, siete scusabile. Ma pensate che finora mi avete proposto soltanto dei dubbi; e questi dubbi sono tristi. Vogliate ammettere delle verosimiglianze più consolanti. È duro essere annientati: cercate di sperare di sopravvivere. Voi sapete che un pensiero non è materia, che non ha nessun rapporto con la materia: perché dunque vi sarebbe così difficile credere che Dio abbia messo in voi un principio divino che, non potendo mai essere dissolto, non può essere soggetto alla morte? Osereste affermare che è impossibile che abbiate un'anima? No, senza dubbio; e se ciò è possibile, non è verosimile che ne abbiate una? Potreste respingere un sistema così bello e così necessario al genere umano? Solo qualche difficoltà basterà a scoraggiarvi?
KU: Vorrei abbracciare questo sistema, ma vorrei che mi venisse provato. Non è in poter mio credere a qualcosa che non mi risulti evidente. Io sono sempre stato colpito da questa grande idea, che Dio abbia creato ogni cosa, che sia dovunque, che penetri in tutto, e a tutto dia moto e vita; e se egli è in tutte le parti del mio essere come egli è in tutte le parti della natura, non vedo che bisogno posso avere di un'anima. Che me ne faccio di questo piccolo essere subalterno, quando sono animato da Dio stesso? A che mi servirebbe quest'anima? Non siamo noi a darci le nostre idee, poiché le abbiamo quasi sempre nostro malgrado, ne abbiamo persino quando dormiamo; e tutto avviene in noi senza che ce ne occupiamo. L'anima avrebbe un bel dire al sangue e agli spiriti animali: «Circolate, vi prego, in questo modo, per farmi piacere.» Essi circoleranno sempre nel modo prescritto loro da Dio. Preferisco essere la macchina di un Dio che mi è dimostrato, che non la macchina di un'anima della quale dubito.
CU-SU: Ebbene, se Dio stesso vi anima, attento a non macchiare con dei delitti quel Dio che è in voi; e se egli vi ha dato un'anima, che quest'anima non lo offenda mai. Secondo l'uno o l'altro sistema, voi avete una volontà, siete libero; vale a dire, avete il potere di fare ciò che volete: servitevi di tale potere per servire il Dio che ve lo ha dato! È bene che siate filosofo, ma è necessario che siate giusto. Lo sarete ancora di più se crederete di avere un'anima immortale. Degnatevi di rispondermi: non è forse vero che Dio è la suprema giustizia?
KU: Senza dubbio; e quand'anche fosse possibile ch'egli cessasse di esserlo (e questa è una bestemmia), io vorrei pur sempre agire con equità.
CU-SU: Non è forse vero che, quando sarete sul trono, il vostro dovere sarà di ricompensare le azioni virtuose e di punire quelle criminali? Vorreste forse che Dio non facesse quel che voi stesso avete il dovere di fare? voi sapete che in questa vita ci sono, e ci saranno sempre, virtù disgraziate e delitti impuniti; è dunque necessario che il bene e il male trovino il loro giudizio in un'altra vita. È quest'idea, così semplice, così naturale, così generale, quella che ha istituito in tanti popoli la credenza nell'immortalità delle nostre anime e nella giustizia divina che le giudicherà quando esse avranno abbandonato le spoglie mortali. C'è un sistema più ragionevole di questo, più confacente alla Divinità, e più utile al genere umano?
KU: Ma perché, allora, tante nazioni non hanno adottato questo sistema? Voi sapete che nella nostra provincia vivono circa duecento famiglie di antichi Sinus, che una volta abitavano una parte dell'Arabia Petrea: né costoro, né i loro antenati hanno mai creduto nell'anima immortale. Essi hanno i loro Cinque Libri, come noi abbiamo i nostri Cinque King; ne ho letto la traduzione: le loro leggi, necessariamente simili a quelle di tutti gli altri popoli, ordinano loro di rispettare i loro padri, di non rubare, di non mentire, di non essere né adulteri né omicidi; ma queste stesse leggi non parlano né di ricompense né di castighi in un'altra vita.
CU-SU: Se quest'idea non è ancora sviluppata presso questo povero popolo, lo sarà senza dubbio un giorno. Ma che ci importa una sventurata piccola nazione, quando i babilonesi, gli egiziani, gli indiani e tutte le nazioni civili hanno ricevuto questo dogma salutare? Se foste malato, rifiutereste un rimedio approvato da tutti i cinesi, col pretesto che alcuni barbari delle montagne non han voluto servirsene? Dio vi ha dato la ragione: essa vi dice che l'anima deve essere immortale; è dunque Dio stesso che ve lo dice.
KU: Ma come potrò essere ricompensato o punito, quando non sarò più io, quando non sarò più niente di ciò che costituisce la mia persona? Solo in virtù della mia memoria io sono sempre io: se durante la mia ultima malattia perdo la memoria, bisognerà dunque che dopo la mia morte un miracolo me la restituisca per farmi rientrare nell'esistenza che ho perduto?
CU-SU: Se un principe avesse sgozzato la sua famiglia per regnare, se avesse tiranneggiato i suoi sudditi, credete che se la caverebbe dicendo a Dio: «Non sono più io, ho perduto la memoria, tu t'inganni, non sono più la stessa persona.» Credete che Dio si contenterebbe di questo sofisma?
KU: Ebbene, sia, m'arrendo. Volevo fare il bene per me stesso, lo farò anche per piacere all'Essere supremo; pensavo che bastasse che la mia anima fosse giusta in questa vita, spererò ch'essa sia felice in un'altra. Vedo che questa opinione è buona per i popoli e per i principi, ma il culto di Dio mi mette in imbarazzo.
Dialogo quarto
CU-SU: Cos'è che vi urta nel nostro Shu-King, questo primo libro canonico così rispettato da tutti gli imperatori cinesi? Voi coltivate un campo con le vostre mani regali per dare l'esempio al popolo e ne offrite le primizie allo Shang-ti, al Tien, all'Essere supremo; gli sacrificate quattro volte l'anno; siete re e pontefice; promettete a Dio di fare tutto il bene che sarà in vostro potere. C'è in questo qualcosa che vi ripugna?
KU: Me ne guardo bene dal trovarvi da ridire. So che Dio non ha nessun bisogno né dei nostri sacrifici né delle nostre preghiere; il suo culto non è stabilito per lui, ma per noi. Amo molto pregare: ma vorrei anzitutto che le mie preghiere non fossero ridicole; perché, quando avrò ben gridato che «la montagna dello Shang-ti è una montagna grassa e che non bisogna guardare le montagne grasse»; quando avrò fatto fuggire il sole e inaridire la luna, queste insensatezze saranno gradite all'Essere supremo, utili ai miei sudditi e a me stesso?
Soprattutto non posso soffrire la demenza delle sette che ci circondano: da un lato vedo Lao Tze, concepito da sua madre in virtù dell'unione del cielo e della terra, e di cui essa rimase incinta ottant'anni: io non ho maggior fede nella sua dottrina dell'annientamento e del deperimento universale di quanto ne abbia nei capelli bianchi con cui nacque, o nella vacca nera sulla quale salì per andare a predicare la sua dottrina.
E nemmeno il dio Fo m'impressiona di più, anche se ha avuto per padre un elefante bianco, e promette una vita immortale. Ciò che soprattutto mi contraria è il fatto che tali fantasticherie sono predicate ogni giorno dai bonzi, che seducono il popolo per governarlo; essi si rendono rispettabili con mortificazioni che insultano la natura: gli uni si privano per tutta la vita degli alimenti più salutari, come se non si potesse piacere a Dio se non mangiando male; gli altri si mettono attorno al collo una catena da forzato, della quale talvolta si rendono degnissimi; si piantano chiodi nelle cosce, come se queste fossero delle tavole; e il popolo li segue in folla. Se un re emana qualche editto che loro non approvano, vi dicono freddamente che quell'editto non si trova nei commentari del dio Fo e che è meglio obbedire a Dio che agli uomini. Come rimediare a una malattia popolare così stravagante e pericolosa? Voi sapete che la tolleranza è il principio del governo della Cina e di tutti quelli dell'Asia; ma quest'indulgenza non è poi funesta, quando espone un impero ad essere sconvolto dalle opinioni dei fanatici?
CU-SU: Che Shang-ti mi preservi dal voler spegnere in voi questo spirito di tolleranza, questa virtù così rispettabile, che è per le anime ciò che la possibilità di nutrirsi è per i corpi. La legge naturale permette a ciascuno di credere quel che vuole, come di nutrirsi di quel che preferisce. Un medico non ha il diritto di uccidere i suoi malati perché non hanno osservato la dieta prescritta. Un principe non ha il diritto di far impiccare quei sudditi che non la pensano come lui: ha però il diritto di impedire i disordini; e, se è saggio, gli sarà facile sradicare le superstizioni. Sapete cosa accadde a Daone, sesto re della Caldea, circa quattromila anni fa?
KU: No, non ne so niente; mi fate cosa grata se me lo racconterete.
CU-SU: I sacerdoti caldei ebbero la bella idea di adorare i lucci dell'Eufrate; pretendevano che un famoso luccio, chiamato Oannes, avesse loro insegnato una volta la teologia; che questo luccio fosse immortale, lungo tre piedi e con una piccola mezzaluna sulla coda. Per rispetto a questo Oannes era proibito mangiar lucci. Scoppiò una grande disputa tra i teologi per sapere se il luccio Oannes fosse maschio o portasse uova. Le due fazioni si scomunicarono a vicenda e vennero più volte alle mani. Ecco cosa escogitò il re Daone per far cessare il disordine.
Egli ordinò un rigoroso digiuno di tre giorni ai due partiti; dopo di che fece venire i partigiani del luccio con le uova e li fece assistere al suo pranzo; si fece portare un luccio lungo tre piedi, al quale aveva fatto mettere una mezzaluna sulla coda. «Sarebbe questo il vostro Dio?» chiese ai dottori. «Si, Maestà, perché ha una mezzaluna sulla coda e ha sicuramente delle uova.» Il re dette ordine di aprire il luccio, che risultò essere invece un bellissimo maschio. «Vedete bene,» disse, «che non è questo il vostro Dio, perché è maschio.» E il luccio fu mangiato dal re e dai suoi satrapi, con grande soddisfazione dei teologi delle uova, i quali vedevano che il Dio dei loro avversari era stato fritto.
Poi, il re mandò a cercare i dottori del partito contrario: fu mostrato loro un Dio lungo tre piedi, con una mezzaluna sulla coda; costoro assicurarono che quello era il dio Oannes, e che era maschio: fu fritto come l'altro e, aperto, trovato pieno di uova. Allora, essendo i due partiti rimasti assai confusi e delusi e non avendo pranzato, il buon re Daone disse di non avere altro che lucci da offrir loro. Essi ne mangiarono ingordamente, lucci maschi e lucci femmine. La guerra civile si placò, e ciascuno benedisse il buon re Daone; e i cittadini, da allora in poi, mangiarono tutti i lucci che vollero.
KU: Mi è molto simpatico questo re Daone, e mi riprometto d'imitarlo alla prima occasione che mi si offrirà. Impedirò sempre, finché potrò (senza fare violenza a nessuno), che si adorino dei Fo e dei lucci.
So che nel Pegu e nel Tonchino ci sono piccoli dei e piccoli talapoini che fanno scendere la luna nel suo ultimo quarto, e che predicono chiaramente l'avvenire; insomma, vedono chiaramente quel che non esiste, poiché l'avvenire non esiste. Impedirò fin che potrò che i talapoini vengano da me a prendere il futuro per il presente e a far scendere in terra la luna. Che miseria che ci siano delle sette che vanno di città in città a raccontare i loro sogni, come i ciarlatani che vendono droghe! Che vergogna per lo spirito umano, che certe piccole nazioni pensino che la verità stia dalla loro parte, e che il vasto impero della Cina sia perduto nell'errore! L'Essere eterno non sarebbe altri che il Dio dell'isola di Formosa o di Borneo? e avrebbe abbandonato tutto il resto dell'universo? Mio caro Cu-Su, Dio è padre di tutti gli uomini; egli permette a tutti di mangiare il luccio; e il più degno omaggio che si possa rendergli è di essere virtuosi; un cuore puro è il più sacro di tutti i templi, come diceva il grande imperatore Hiao.
Dialogo quinto
CU-SU: Poiché amate la virtù, come la praticherete quando sarete re?
KU: Non commettendo ingiustizie, né contro i miei vicini né contro il mio popolo.
CU-SU: Non basta non fare il male: dovrete fare il bene; nutrirete i popoli, occupandoli in lavori utili, e non premiando l'ozio; abbellirete le grandi strade; farete scavare canali; costruirete edifici pubblici, incoraggerete tutte le arti, ricompenserete il merito in ogni campo, perdonerete le colpe involontarie.
KU: È quel che io chiamo non essere ingiusto: dato che questi sono altrettanti doveri.
CU-SU: Pensiero degno di un re. Ma c'è il re e c'è l'uomo: la vita pubblica e la vita privata. Presto vi sposerete. Quante mogli contate di avere?
KU: Credo che una dozzina mi basterà; un numero maggiore potrebbe sottrarmi il tempo destinato agli affari. Non mi piacciono affatto quei re che hanno trecento mogli, settecento concubine, e migliaia di eunuchi per servirle. Questa mania degli eunuchi, soprattutto, mi sembra un troppo grave oltraggio alla natura umana. Ammetto tutt'al più che si castrino i galli: diventano più buoni da mangiare; ma nessuno ha ancora infilzato degli eunuchi allo spiedo. A che serve la loro mutilazione? Il Dalai Lama ne ha cinquanta per cantare nella sua pagoda: vorrei sapere se lo Shang-ti gode veramente nell'ascoltare le voci bianche di quei cinquanta castrati.
Trovo anche molto ridicolo che ci siano bonzi che non si sposino. Si vantano di essere più saggi degli altri cinesi: ebbene, facciano allora dei figli saggi! Bella maniera d'onorare lo Shang-ti: privandolo di adoratori! Singolare modo di servire il genere umano, dando l'esempio di come annientarlo! Il buon piccolo Lama chiamato Stelca ed isant Errepi usava dire che «ogni prete doveva fare più figli che poteva»; egli ne dava l'esempio, e fu un uomo assai utile al suo tempo lo farei sposare tutti i lama e tutti i bonzi, e le lamesse e le bonzesse che avranno vocazione per questa santa opera: diventeranno certamente migliori cittadini, credo che con ciò farò un gran bene al regno di Lu.
CU-SU: Oh, che buon principe avremo in voi! Mi fate piangere di gioia. Ma non vi accontenterete di avere solo mogli e sudditi; perché, certo, non si può passare la giornata a fare editti e bambini. Avrete senza dubbio degli amici.
KU: Ne ho già, e buoni, che mi avvertono dei miei difetti; io mi prendo la libertà di riprendere i loro; essi mi consolano, io li consolo; l'amicizia è il balsamo della vita, vale più di quello del chimico Erueil ed anche dei sacchetti del gran Ranoud. Sono sbalordito che non si sia fatto dell'amicizia un precetto religioso: ho voglia d'inserirlo nel mio rituale.
CU-SU: Guardatevene bene: l'amicizia è già sacra in se stessa; non fatene mai un obbligo; bisogna che il cuore sia libero; e poi, se faceste dell'amicizia un precetto, un mistero, un rito, una cerimonia, ci sarebbero mille bonzi che, predicando e scrivendo le loro fantasie, la renderebbero ridicola: non bisogna esporla a questa profanazione.
Ma come tratterete i vostri nemici? Confucio raccomanda in venti passi d'amarli. Non vi sembra un po' difficile?
KU: Amare i propri nemici? Mio Dio, niente è così facile.
CU-SU: Cosa intendete?
KU: Come bisogna intenderlo, credo. Ho fatto il mio tirocinio di guerra sotto il principe di Décon, contro il principe Vis-Brunck: quando uno dei nostri nemici era ferito e cadeva nelle nostre mani, ci prendevamo cura di lui come di un fratello; spesso abbiamo ceduto il nostro letto ai nostri nemici feriti e prigionieri, coricandoci vicino a loro, in terra, su pelli di tigre; li abbiamo serviti noi stessi: che volete di più? Che li amassimo come si ama la propria amante?
CU-SU: Sono molto edificato da quello che mi dite, e vorrei che tutte le genti vi sentissero: perché m'assicurano che ci sono dei popoli tanto insolenti da osar dire che noi non conosciamo la vera virtù; che le nostre buone azioni non sono che splendidi peccati, e che abbiamo bisogno delle lezioni dei loro talapoini, per imparare i buoni principi. Ahimè! Disgraziati! Da ieri soltanto hanno imparato a leggere e a scrivere, e pretendono di dar lezione ai loro maestri!
Dialogo sesto
CU-SU: Non starò a enumerarvi tutti i luoghi comuni che si continuano a ripetere fra noi da cinque o seimila anni su tutte le virtù. Ce ne sono alcune che servono solo a noi stessi, come la prudenza per guidare le nostre anime, la temperanza per governare i nostri corpi: sono semplici precetti di politica e di salute. Le vere virtù sono quelle che sono utili alla società, come la fedeltà, la magnanimità, la beneficenza, la tolleranza ecc. Grazie al cielo, non c'è tra noi vecchietta che non insegni tutte queste virtù ai suoi nipotini: sono i rudimenti della nostra educazione, in campagna come nelle città. Ma c'è una grande virtù che comincia a cadere in disuso, e me ne dolgo.
KU: Qual è? Ditemelo, presto, e cercherò di rimetterla in onore.
CU-SU: È l'ospitalità. Questa virtù così sociale, questo vincolo sacro fra gli uomini, comincia ad allentarsi da quando abbiamo le locande. Questa perniciosa istituzione ci è venuta, dicono, da certi selvaggi dell'Occidente. A quanto pare, quei miserabili non hanno case per accogliere i viaggiatori. Che piacere accogliere, nella grande città di Lu, un generoso straniero che arrivi da Samarcanda, per il quale io divento da quel momento un uomo sacro, e che sarà obbligato da tutte le leggi umane e divine a ricevermi a casa sua quando viaggerò in Tartaria, e ad essermi intimo amico!
I selvaggi di cui vi parlo non ricevono gli stranieri se non per denaro in disgustose catapecchie; e vendono cara quest'infame accoglienza. Poi sento dire che quei disgraziati si credono superiori a noi: si vantano d'avere una morale più pura. Pretendono che i loro predicatori siano migliori di Confucio; e che infine spetti loro insegnarci la giustizia, forse perché essi vendono del pessimo vino lungo le strade maestre, e le loro donne vanno in giro come pazze per le strade, e ballano, mentre le nostre allevano bachi da seta.
KU: Io trovo bellissima l'ospitalità; la esercito con piacere, ma ne temo gli abusi. C'è gente, verso il gran Tibet, che abita in case molto misere, cui piace andare di qua e di là e che viaggerebbe per un nulla fino in capo al mondo; ma quando poi, voi andaste nel gran Tibet per godere presso di loro del diritto dell'ospitalità, non trovereste né letto né cena; e questo può portare a disgustarci della nostra cortesia.
CU-SU: È un lieve inconveniente; e sarà facile rimediarvi ricevendo solo persone ben raccomandate. Non c'è virtù che non abbia i suoi pericoli: proprio per questo è bello praticarla.
Quant'è saggio e santo il nostro Confucio! Non c'è virtù ch'egli non ispiri; la felicità degli uomini è legata ad ogni sua sentenza; eccone una che mi ritorna alla memoria, la cinquantesimaterza:
«Ricambia i benefici con i benefici, e non ti vendicare mai delle ingiurie.»
Quale massima, quale legge potrebbero opporre i popoli dell'Occidente a una morale così pura? E in quanti luoghi Confucio raccomanda l'umiltà! Se questa virtù venisse praticata non si avrebbero mai liti sulla terra.
KU: Ho letto tutto quel che Confucio e i saggi dei secoli precedenti hanno scritto sull'umiltà; ma mi sembra che essi non ne abbiano mai dato una definizione abbastanza precisa. Forse c'è poca umiltà nell'osare criticarli; ma io ho almeno l'umiltà di confessare che non li ho capiti. Ditemi cosa ne pensate.
CU-SU: Obbedirò umilmente. Io credo che l'umiltà sia la modestia dell'anima: perché la modestia esteriore è semplicemente urbanità. L'umiltà non può consistere nel negare a se stessi la superiorità che si sia acquisita sugli altri: un buon medico non può nascondersi di saperne più del suo malato in delirio; chi insegna astronomia deve riconoscere che ne più dei suoi discepoli; non può impedirsi di crederlo, ma non deve presumere troppo di sé. L'umiltà non è l'abiezione; è il correttivo dell'amor proprio, come la modestia è il correttivo dell'orgoglio.
KU: Ebbene, è nell'esercizio di tutte queste virtù e nel culto di un Dio semplice e universale che io voglio vivere, lontano dalle chimere dei sofisti e dalle illusioni dei falsi profeti. L'amore del prossimo sarà la mia virtù sul trono, e l'amore di Dio la mia religione. Disprezzerò il dio Fo e Lao Tze e Visnù, che si è incarnato tante volte tra gli indiani, e Sammonocodom che discese dal cielo per giocare all'aquilone fra i siamesi, e i Camni, che arrivarono in Giappone dalla luna.
Sventura a quel popolo così stupido e barbaro da credere che ci sia un Dio soltanto per la sua provincia. È bestemmia. Come! La luce del sole rischiara gli occhi di tutti, e la luce di Dio non dovrebbe rischiarare che una piccola e debole nazione in un angolo del globo? Che orrore! e che idiozia! La Divinità parla al cuore di tutti gli uomini, e i legami della carità devono unirli da un capo all'altro dell'universo.
CU-SU: O saggio Ku! Voi avete parlato come un uomo ispirato dallo stesso Shang-ti. Sarete un degno principe. Ero il vostro maestro, e voi siete diventato il mio.
ARISTONE: Ebbene, caro Teotimo, state per diventare parroco di campagna?
TEOTIMO: Sì, m'han dato una piccola parrocchia, e io la preferisco a una grande. Non ho che una porzione limitata d'intelligenza e attività; non potrei certo dirigere settantamila anime, dato che io ne ho una sola. Ho sempre ammirato la fiducia di coloro che si caricano sulle spalle immensi distretti; quanto a me non mi sento capace di una tale amministrazione; un gregge numeroso mi spaventa, mentre potrò fare un po' di bene a uno piccolo. Ho studiato giurisprudenza abbastanza da impedire, fin tanto che lo potrò, che i miei poveri parrocchiani si rovinino con i processi. So quel che basta di medicina da indicare loro i rimedi più semplici quando saranno ammalati. Conosco abbastanza l'agricoltura per poter dare loro, qualche volta, utili consigli. Il signore del luogo e sua moglie, gente onesta, nient'affatto bigotta, mi aiuteranno a fare del bene. Mi lusingo di riuscire a vivere abbastanza felice, e che gli altri non si trovino male con me.
ARISTONE: Non vi addolora il fatto di non avere moglie? Sarebbe una grande consolazione; sarebbe dolce, dopo avere predicato, cantato, confessato, comunicato, battezzato, seppellito, trovare a casa una donna gentile, piacevole e onesta, che si prendesse cura della vostra biancheria, e della vostra persona, che vi tenesse allegro quando state bene e vi curasse quando siete ammalato, che vi desse dei graziosi bambini, la cui buona educazione sarebbe utile allo Stato. Vi compiango, voi che servite gli uomini, d'essere privato di una consolazione così necessaria agli uomini:
TEOTIMO: La Chiesa greca si preoccupa d'incoraggiare i parroci al matrimonio; la Chiesa anglicana e quelle protestanti hanno la medesima saggezza; la Chiesa latina ha una saggezza contraria: bisogna che io mi sottometta. Forse oggi che lo spirito filosofico ha compiuto tanti progressi, un concilio farebbe leggi più favorevoli all'umanità di quelle del concilio di Trento. Ma, nell'attesa, io devo conformarmi alle leggi vigenti. Mi costa molto, lo so; ma tanti che valevano più di me si sono sottomessi, e non sarò certo io a mormorare.
ARISTONE: Voi siete istruito e sapete parlare con saggia eloquenza. Come pensate di predicare a gente di campagna?
TEOTIMO: Come predicherei davanti ai re. Parlerò sempre di morale, mai di controversie religiose. Dio mi guardi dall'approfondire la grazia concomitante, la grazia efficace, alla quale si resiste, la grazia sufficiente, che non è sufficiente; dall'esaminare se gli angeli che mangiarono con Abramo e con Loth avevano un corpo o se fecero finta di mangiare. Ci sono mille cose che il mio auditorio non capirebbe, e io neppure. Cercherò di formare uomini dabbene, e d'essere tale anch'io; ma non ne farò dei teologi, e io stesso lo sarò meno che potrò.
ARISTONE: Che buon curato! Voglio comperare una casa di campagna nella vostra parrocchia. Ditemi, vi prego, come vi comporterete nella confessione.
TEOTIMO: La confessione è una cosa eccellente, un freno ai delitti, inventato nell'età più remota; la celebrazione di tutti gli antichi misteri comprendeva la confessione; noi abbiamo imitato e santificato questa saggia pratica. Essa è ottima per predisporre i cuori ulcerati dall'odio a perdonare, e per indurre i ladruncoli a restituire quanto possono aver rubato al loro prossimo. Ha però diversi inconvenienti. Ci sono molti confessori indiscreti, soprattutto fra i monaci, che insegnano talvolta alle ragazze più stupidaggini di quante potrebbero indurle a fare tutti i giovanotti di un villaggio. Niente particolari, nella confessione: non è un interrogatorio giudiziario, ma la confessione delle proprie colpe che un peccatore rende all'Essere supremo nelle mani di un altro peccatore, che poi si confesserà a sua volta. Questa confessione salutare non è fatta per soddisfare la curiosità di un altro uomo.
ARISTONE: E di scomuniche, ne farete uso?
TEOTIMO: No. In certi rituali si scomunicano le cavallette, gli stregoni e i commedianti: io non proibirò alle cavallette d'entrare in chiesa, dato che esse non ci entrano mai; non scomunicherò gli stregoni, perché non esiste nessuno stregone; e, riguardo ai commedianti, siccome sono pensionati dal re e autorizzati dal magistrato, mi guarderò bene dal diffamarli. Vi confesserò anzi, in tutta confidenza, che mi piacciono le commedie, quando non offendono i costumi. Mi piacciono molto Il misantropo, Atalia e altri drammi che mi sembrano scuole di virtù e di buone maniere. Il signore del mio villaggio fa rappresentare nel suo castello di queste commedie da giovani di talento: queste rappresentazioni ispirano la virtù attraverso il piacere; formano il gusto; insegnano a parlare e a pronunziar bene. Le reputo un piacere innocentissimo e utilissimo; mi riprometto di assistere anch'io a questi spettacoli per mia istruzione, ma in un palchetto munito di una grata, per non scandalizzare gli spiriti deboli.
ARISTONE: Più mi scoprite i vostri sentimenti, e più desidero diventare vostro parrocchiano. Ma c'è un punto molto importante che mi preoccupa. Come farete per impedire ai contadini di ubriacarsi nei giorni di festa? È il loro antico modo di celebrarli. Vedete gli uni, oppressi da un liquido veleno, la testa penzoloni sui ginocchi, le braccia cascanti, ridotti a non vedere né capire più niente, in uno stato molto inferiore a quello dei bruti, riportati a casa vacillanti dalle mogli disperate, incapaci di lavorare il giorno dopo, spesso malati e abbruttiti per il resto della loro vita. Ne vedete altri diventati furiosi per il vino bevuto, suscitare liti cruente, picchiare ed essere picchiati; e qualche volta, queste scene orribili che sono la vergogna del genere umano, eccole esplodere in un delitto. Bisogna confessarlo: lo Stato perde più sudditi nei giorni di festa che in guerra. Come riuscirete a far diminuire nella vostra parrocchia un abuso così esecrabile?
TEOTIMO: Ho già deciso: permetterò, anzi li inciterò a coltivare i loro campi anche nei giorni di festa, dopo il servizio divino, che celebrerò di primo mattino. È l'ozio della festa che li spinge all'osteria. I giorni di lavoro non sono mai giorni di disordini e di omicidi. Il lavoro moderato contribuisce alla salute del corpo e a quella dell'anima; per di più questo lavoro è necessario allo Stato. Supponiamo cinque milioni di uomini che ogni giorno producono, in media, per dieci soldi, e questo calcolo è molto modesto; rendete questi cinque milioni di uomini inutili trenta giorni all'anno: fa trenta volte cinque milioni di monete da dieci soldi che lo Stato perde in manodopera. Ora, certamente Dio non ha mai ordinato né questa perdita né l'ubriachezza.
ARISTONE: Così concilierete le preghiere e il lavoro; Dio ordina l'una e l'altro. Così servirete Dio e il Prossimo. Ma nelle dispute ecclesiastiche, quale partito prenderete?
TEOTIMO: Nessuno. Non si discute mai sulla virtù, perché essa viene da Dio; si disputa su opinioni, che vengono dagli uomini.
ARISTONE: Che buon curato. Che buon curato.
L'INDIANO: È vero che una volta i giapponesi non sapevano fare cucina, che avevano sottomesso il loro regno al gran lama, il quale decideva in modo sovrano e del loro bere e del loro mangiare, e vi inviava di tanto in tanto un piccolo lama, che veniva a raccogliere i tributi e vi dava in cambio un segno di protezione, fatto con le due prime dita e con il pollice?
IL GIAPPONESE: Ahimè, è vero. Figuratevi che tutti i posti di canusi, che sarebbero i grandi cucinieri della nostra isola, erano conferiti dal lama, e non erano dati per l'amor di Dio. Inoltre, ogni casa dei nostri secolari pagava annualmente un'oncia d'argento a quel gran cuoco del Tibet. Egli ci dava, come unica ricompensa, certi piatti di sapore abbastanza cattivo, chiamati «resti». E quando gli veniva qualche nuova fantasia, ad esempio quella di far guerra ai popoli di Tangut, ci imponeva nuovi tributi. Il nostro paese si lamentò spesso, ma senza alcun frutto; anzi, ad ogni lamentela finiva col pagare un po' di più. Finalmente l'amore, che fa tutto per il meglio, ci liberò da questa servitù. Uno dei nostri imperatori litigò col gran lama per una donna; ma bisogna confessare che quelli che più ci aiutarono in questa storia furono i nostri canusi, o peiscopi; dobbiamo a loro di essere riusciti a scuotere il giogo. Ed ecco come.
Il gran lama aveva una curiosa mania: credeva di aver sempre ragione: il nostro dairi e i nostri canusi vollero aver ragione anche loro, almeno qualche volta. Il gran lama trovò assurda questa pretesa; i nostri canusi tennero duro e ruppero per sempre con lui.
L'INDIANO: Bene. Da quel momento sarete stati certo felici e tranquilli.
IL GIAPPONESE: Niente affatto. Per quasi due secoli ci siamo perseguitati, lacerati e divorati. I nostri canusi volevano aver ragione ad ogni costo: solo da cento anni sono diventati ragionevoli. Così, da allora, possiamo fieramente considerarci una delle nazioni più felici della terra.
L'INDIANO: Ma come potete godere di tanta felicità, se è vero quello che mi hanno detto: che avete nel vostro impero dodici specie di cucine? Avrete dodici guerre civili all'anno.
IL GIAPPONESE: Perché? Se ci sono dodici osti, ciascuno dei quali ha una ricetta differente, bisognerà per questo tagliarsi la gola invece di mettersi a tavola? Al contrario, ognuno mangerà quel che preferisce, dal cuoco che riterrà migliore.
L'INDIANO: È vero che non si deve mai disputare sui gusti; ma invece se ne disputa, e la lite divampa.
IL GIAPPONESE: Dopo aver disputato a lungo, e aver capito finalmente che tutte quelle diatribe insegnano agli uomini solo a nuocersi, si prende alla fine la risoluzione di tollerarsi a vicenda; e questo è innegabilmente ciò che si può fare di meglio.
L'INDIANO: E chi sono, di grazia, questi osti che si dividono la vostra nazione nell'arte di mangiare e bere?
IL GIAPPONESE: Ci sono prima di tutto i berei, che non vi daranno da mangiare ne sanguinacci né lardo; essi sono attaccati all'antica cucina; preferirebbero morire piuttosto che lardellare un pollo; grandi calcolatori, del resto: se c'è un'oncia d'argento da dividere tra loro e gli altri undici cucinieri, cominciano col prenderne per sé la metà, e il resto è per quelli che sanno meglio contare.
L'INDIANO: Penso che voi non ceniate mai con questa gente
IL GIAPPONESE: No. Ci sono poi i pispati, i quali, in certi giorni della settimana, e anche per un lungo periodo dell'anno, preferirebbero cento volte mangiare per cento scudi di lumache, trote, sogliole, salmoni, storioni, piuttosto che una fricassea di vitello da pochi soldi.
Quanto a noi canusi, ci piace molto il bue, e un certo pasticcio che si chiama in giapponese pudding. Del resto, tutti ammettono che i nostri cuochi sono infinitamente più istruiti di quelli dei pispati. Nessuno ha approfondito meglio di noi il garum dei romani, né meglio conosciuto le cipolle dell'antico Egitto, la pasta di cavallette degli antichi arabi, la carne di cavallo dei tartari; c'è sempre qualcosa da imparare nei libri dei canusi, comunemente chiamati peiscopi.
Non perderò tempo a parlarvi di quelli che mangiano soltanto alla Terluo, né di quelli che sono per il regime di Vioncal, né dei batistatani, né degli altri; ma i queccari meritano un'attenzione particolare. Sono i soli convitati che non ho mai veduto ubriacarsi né bestemmiare. È molto difficile ingannarli, ma loro non vi inganneranno mai. Sembrerebbe che il precetto d'amare il nostro prossimo come noi stessi sia stato fatto solo per loro; perché, in verità, come può un buon giapponese vantarsi d'amare il suo prossimo come se stesso, quando va, per un po' di denaro, a tirargli una palla di piombo nel cervello o a sgozzarlo con un kriss largo quattro dita, il tutto secondo le ottime regole dell'arte della guerra? Certo, espone anche se stesso a essere sgozzato o a ricevere una palla in testa; e perciò si può dire con molta più verità che egli odia il suo prossimo come se stesso. I queccari non hanno mai avuto di queste frenesie: dicono che i poveri umani sono vasi di argilla fatti per durare pochissimo, e che non vale la pena che se ne vadano a cuor leggero gli uni contro gli altri a farsi a pezzetti.
Vi confesso che, se non fossi canuso, non mi dispiacerebbe essere queccaro: dovete riconoscere che è difficile attaccar lite con cuochi così pacifici. Ce ne sono poi altri, in grandissimo numero, che vengono chiamati diesti: costoro danno da mangiare a tutti indifferentemente e da loro siete liberi di mangiare tutto quello che vi piace, con lardo o senza, con le uova, con l'olio, pernice o salmone, vino bianco o vino rosso; tutto ciò per loro è indifferente; purché voi rivolgiate qualche preghiera a Dio prima o dopo il desinare, o anche semplicemente prima di colazione, e siate gente dabbene, rideranno con voi a spese del gran lama (cui ciò non farà alcun male) e di Terluo, di Vioncal, di Memnone ecc. È solo necessario che i nostri diesti ammettano che i nostri canusi sono dottissimi cuochi, e soprattutto che non parlino mai di ridurre le nostre rendite; e allora vivremo tutti insieme nel più pacifico dei modi.
L'INDIANO: Ma, infine, bisogna pur che ci sia una cucina dominante: quella del re.
IL GIAPPONESE: È vero. Ma quando il re del Giappone ha mangiato bene, deve essere di buon umore e non deve impedire la digestione dei suoi fedeli sudditi.
L'INDIANO: E se, in barba al re, dei testardi volessero mangiare delle salsicce per le. quali il re prova avversione, e si riunissero in quattro o cinquemila, armati di graticole per farle cuocere, insultando quelli che non ne mangiano?
IL GIAPPONESE: Allora bisogna punirli come ubriachi che turbano la quiete pubblica. Noi abbiamo ovviato a questo pericolo. Solo coloro che seguono la cucina del re possono ricevere cariche dallo Stato; gli altri possono mangiare a loro gusto, ma sono esclusi dalle cariche. Gli assembramenti sono assolutamente vietati e puniti subito, senza remissione; tutte le liti a tavola sono accuratamente represse, secondo il precetto del nostro grande cuoco giapponese, che ha scritto in lingua sacra, Suti Raho Cus flac.
Natis in usum laetitiae scyphis
Pugnare Thracum est...
il che vuol dire: «Il pranzo è fatto per un piacere moderato e non per buttarsi in faccia i bicchieri.»
Con queste massime, qui da noi si vive felici. La nostra libertà è sicura sotto i nostri «taicosema»; le nostre ricchezze aumentano, abbiamo duecento giunche di linea, e siamo il terrore dei nostri vicini.
L'INDIANO: E perché allora quel buon verseggiatore Recina, figlio del grande poeta indiano Recina così delicato, esatto, armonioso ed eloquente, ha detto, in un poema didattico in rima, intitolato La Grâce e non Les Grâces:
Le Japon, où jadis brilla tant de lumière,
N'est plus qu'un triste amas de folles visions?
IL GIAPPONESE: Il Recina di cui parlate è lui stesso un gran visionario. Quel povero indiano ignora forse che noi gli abbiamo insegnato cos'è la luce, e che se oggi si conosce in India il vero corso dei pianeti, è merito nostro: che noi soli abbiamo insegnato agli uomini le leggi fondamentali della natura e il calcolo dell'infinito; che, se vogliamo scendere a cose d'uso più comune, la gente del suo paese ha imparato da noi a costruire le giunche secondo proporzioni matematiche, e che essa deve a noi perfino quelle calze tessute al telaio con cui si copre le gambe? Sarebbe mai possibile che, avendo inventato tante cose ammirevoli ed utili, noi non fossimo che dei pazzi, e che l'unico saggio fosse un uomo che ha messo in versi i sogni altrui? Ditegli che ci lasci cucinare a modo nostro, e lui faccia, se vuole, dei versi su argomenti più poetici.
L'INDIANO: Che volete! Ha i pregiudizi del suo paese, quelli della sua setta, e i suoi personali.
IL GIAPPONESE: Un po' troppi, già!
CATECHISMO DEL GIARDINIERE, OVVERO DIALOGO DEL PASCIÀ TUCTAN
E DEL GIARDINIERE KARPOS
TUCTAN: Eh si, amico Karpos, li vendi cari i tuoi ortaggi, ma sono buoni... Di che religione sei, adesso?
KARPOS: Sinceramente, pascià, sarei imbarazzato a dirvelo. Quando la nostra piccola isola di Samo apparteneva ai greci, mi ricordo che mi facevano dire che l'aghion pneuma procedeva solamente dal tu patru; mi facevano pregare Dio in piedi, le mani giunte e mi proibivano di bere latte in quaresima. Poi sono venuti i veneziani, e allora il mio parroco veneziano mi ha fatto dire che l'aghion pneuma veniva dal tu patru e dal tu uiu; mi ha permesso di bere il latte e m'ha fatto pregare Dio in ginocchio. Poi sono tornati i greci, che hanno cacciato i veneziani, e così ho dovuto rinunciare al tu uiu e al latte. Voi infine avete cacciato i greci, e io vi sento gridare Allah illa Allah a perdi fiato. Io non so più bene quel che sono: amo Dio con tutto il cuore, e vendo i miei ortaggi a un prezzo molto ragionevole.
TUCTAN: Hai dei fichi bellissimi.
KARPOS: Pascià, sono al vostro servizio.
TUCTAN: Dicono che hai anche una figlia graziosa.
KARPOS: Sì, pascià, ma lei non è al vostro servizio.
TUCTAN: E perché mai, straccione?
KARPOS: Perché sono un uomo onesto; e l'onestà mi permette di vendere i miei fichi, ma non mia figlia.
TUCTAN: E per quale legge non ti è permesso di vendere anche quel frutto?
KARPOS: Per la legge di tutti i giardinieri onesti; l'onore di mia figlia non è mio: appartiene a lei e non è una merce.
TUCTAN: Tu non sei dunque fedele al tuo pascià?
KARPOS: Fedelissimo nelle cose giuste, finché sarete il mio padrone.
TUCTAN;Ma se il tuo papa greco facesse una cospirazione contro di me, ti ordinasse in nome del tu patru e del tu uiu di prendervi parte, non saresti così devoto da ubbidirgli?
KARPOS: lo? Niente affatto. Me ne guarderei bene.
TUCTAN: E perché rifiuteresti di obbedire al tuo papa greco in una così bella occasione?
KARPOS: Perché ho giurato obbedienza a voi, e so bene che tu patru non ordina a nessuno di cospirare.
TUCTAN: Ne sono contento. Ma se per disgrazia i tuoi greci riconquistassero l'isola e mi cacciassero, mi saresti ancora fedele?
KARPOS: Eh, come potrei restarvi fedele, se voi non foste più il mio pascià?
TUCTAN: E il giuramento che mi hai fatto, che fine farebbe?
KARPOS: Quella dei miei fichi, che non vi servirebbero più. Non è forse vero, con tutto il rispetto, che se voi foste morto, nel momento in cui parlo, non vi sarei più obbligato?
TUCTAN: Quest'ipotesi è incivile, ma la cosa è vera.
KARPOS: Ebbene, se veniste scacciato, è come se foste morto; perché avreste un successore al quale dovrei fare un altro giuramento. Potreste esigere da me una fedeltà che non vi servirebbe a nulla? Sarebbe come se, non potendo più mangiare i miei fichi, voleste impedirmi di venderli ad altri.
TUCTAN: Ragioni bene: hai dunque i tuoi principi?
KARPOS: Sì, a modo mio. Non sono tanti, ma mi bastano; se ne avessi di più, m'imbarazzerebbero.
TUCTAN: Sarei curioso di saperli, questi tuoi principi.
KARPOS: Essere un buon marito, un buon padre, un buon vicino, un buon suddito e un buon giardiniere. Non vado più in lì, e spero che Dio mi userà misericordia.
TUCTAN: E credi che Dio userà misericordia anche a me, che sono il governatore della tua isola?
KARPOS: E come volete che lo sappia? Sta forse a me indovinare come Dio si comporta con i pascià? È una faccenda tra voi e lui, e io non me ne immischio certo. Tutto quel che penso è che, se voi siete un buon pascià come io sono un buon giardiniere, Dio vi tratterà molto bene.
TUCTAN: Per Maometto! Questo idolatra m'è molto simpatico. Addio, amico; che Allah ti protegga.
KARPOS: Grazie tante, Theos abbia misericordia di voi, pascià.
Da molto tempo si sostiene che tutti gli avvenimenti sono concatenati fra loro da una fatalità invincibile: il Destino, che in Omero è più forte dello stesso Giove. Questo signore degli dei e degli uomini dichiara francamente di non poter impedire che suo figlio Sarpedone muoia nel tempo prestabilito. Sarpedone era nato nel momento in cui era necessario che nascesse, e non poteva nascere in un altro momento; non poteva morire se non sotto le mura di Troia; non poteva essere seppellito che in Licia, e il suo corpo doveva produrre, nel tempo prestabilito, certi legumi che si sarebbero trasformati nella sostanza di alcuni lici; i suoi eredi dovevano stabilire un nuovo ordine nei suoi Stati; questo nuovo ordine avrebbe influito sui regni vicini; ne sarebbe risultata una nuova condizione di guerra e di pace con i vicini dei vicini della Licia: così, progressivamente, il destino di tutta la terra è dipeso dalla morte di Sarpedone, la quale dipendeva da un altro avvenimento, che era legato ad altri, fino all'origine delle cose.
Se uno solo di questi fatti si fosse svolto in modo diverso, ne sarebbe risultato un altro universo; ma non era possibile che l'universo attuale non esistesse: dunque, non era possibile a Giove - sebbene fosse Giove - salvare la vita di suo figlio.
Questo sistema della necessità e della fatalità è stato inventato ai giorni nostri da Leibniz, a quanto egli dice, sotto il nome di ragione sufficiente; ma è in realtà molto antico; non è da oggi soltanto che non c'è effetto senza causa, e la più piccola causa può produrre grandissimi effetti.
Lord Bolingbroke dichiara che le piccole liti fra lady Marlborough e lady Masham fecero nascere l'occasione di stipulare il trattato particolare tra la regina Anna e Luigi XIV; questo trattato portò poi alla pace di Utrecht, che a sua volta insediò Filippo V sul trono di Spagna; Filippo V poi tolse alla casa d'Austria Napoli e la Sicilia; il principe spagnolo che oggi è re di Napoli deve evidentemente il suo regno a lady Masham; e non lo avrebbe avuto, e non sarebbe forse neanche nato, se la duchessa di Marlborough fosse stata più compiacente con la regina d'Inghilterra. La sua esistenza a Napoli dipendeva da una sciocchezza in più o in meno alla corte di Londra. Esaminate le condizioni di tutti i popoli del mondo: tutte fondate su una serie di fatti che sembrano di nessun peso, ma da cui tutto dipende. Tutto è ingranaggio, puleggia, corda, molla, in questa immensa macchina.
Lo stesso accade nell'ordine fisico. Un vento che soffia dal fondo dell'Africa e dai mari australi porta con sé una parte dell'atmosfera africana, la quale ricade in pioggia nelle valli delle Alpi; queste piogge fecondano le nostre terre; il nostro vento del nord, a sua volta, spinge i nostri vapori sulle terre dei negri; noi facciamo del bene alla Guinea, e la Guinea a sua volta ne fa a noi. Questa catena si estende da un capo all'altro dell'universo.
Però mi sembra che si abusi stranamente della verità di questo principio. Se ne è concluso che non c'è atomo, per minuscolo che sia, che non abbia influito sulla sistemazione attuale del mondo intero; che non c'è accidente così piccolo, sia tra gli uomini che tra gli animali, che non sia un anello essenziale della grande catena del destino.
Intendiamoci: ogni effetto ha evidentemente la sua causa nell'abisso dell'eternità; ma, se discendiamo fino alla fine dei secoli, non tutte le cause hanno avuto il loro effetto. Tutti gli avvenimenti sono prodotti gli uni dagli altri, lo riconosco: se il passato ha partorito il presente, il presente partorisce il futuro. Tutto ha un padre, ma non tutto ha sempre dei figli. Avviene qui come negli alberi genealogici: ogni casata risale, come si sa, ad Adamo; ma in ogni famiglia molti sono i membri morti senza lasciare posterità.
C'è un albero genealogico degli avvenimenti di questo mondo. È incontestabile che gli abitanti della Gallia e della Spagna discendano da Gomez, e i russi da Magog, suo fratello minore: si trova, questo, scritto in tanti grossi libri! Partendo da ciò, non si può negare che noi dobbiamo a Magog i sessantamila russi che oggi sono in armi sui confini della Pomerania, e i sessantamila francesi che si trovano presso Francoforte. Ma sia che Magog abbia sputato a destra o a sinistra, dalle parti del Caucaso, e abbia così prodotto il movimento di due o tre cerchi nell'acqua di un pozzo, o che abbia dormito sul fianco destro o sul sinistro, non vedo come questo possa aver influito molto sulla decisione presa dall'imperatrice di Russia, Elisabetta, di inviare un esercito in aiuto dell'imperatrice dei romani, Maria Teresa. Che, dormendo, il mio cane sogni o non sogni, non vedo proprio il rapporto che quest'affare così importante può avere con quelli del gran Mogol.
Bisogna considerare che, nella natura, non tutto è assoluto e che ogni movimento non si comunica da un punto all'altro, sino a fare il giro del mondo. Gettate in acqua un corpo di densità uguale e calcolerete facilmente che, dopo un certo tempo, il moto di questo corpo e quello che esso ha comunicato all'acqua si arresteranno; ogni moto cessa e riprende: dunque, il movimento che Magog poté produrre sputando in un pozzo non può avere influito su quello che succede oggi in Russia o in Prussia. Dunque, gli avvenimenti odierni non sono i figli di tutti gli avvenimenti di ieri; hanno le loro linee di discendenza diretta, ma mille piccole linee collaterali non servono loro a niente. Ancora una volta, ogni essere ha un padre, ma non tutti hanno dei figli. Ne diremo forse qualcosa di più quando parleremo del Destino.
La prima volta che lessi Platone e vidi quella gradazione di esseri che si elevano dall'atomo più minuscolo fino all'Essere supremo, restai preso d'ammirazione. Ma poi, quando considerai il tutto attentamente, quel grande fantasma svanì, come una volta tutti gli spettri fuggivano al canto del gallo.
L'immaginazione si compiace dapprima nel vedere il passaggio impercettibile dalla materia bruta alla materia organica, dalle piante agli zoofiti, dagli zoofiti agli animali, da questi all'uomo, dall'uomo ai geni, e da questi geni, dotati d'un minuscolo corpo aereo, a sostanze immateriali, e, finalmente, a mille ordini diversi di tali sostanze, che, di perfezione in perfezione, si innalzano sino a Dio stesso. Una tale gerarchia piace molto alla brava gente, che crede di vedere il papa e i suoi cardinali, seguiti dagli arcivescovi e dai vescovi; e dietro, in fila, i curati, i vicari, i semplici preti, i diaconi, i sottodiaconi e poi ancora i monaci, e, in coda, i cappuccini.
Ma c'è un po' più di distanza tra Dio e le sue più perfette creature, che fra il Santo Padre e il decano del sacro collegio; questo decano può diventare papa, ma il più perfetto dei geni creati dall'Essere supremo non può diventare Dio: tra Dio e lui c'è l'infinito.
Questa catena, questa pretesa gradazione, non esiste neppure tra i vegetali e gli animali; e la prova è che certa specie di piante e d'animali sono estinte. Oggi non si trovano più i murici. Agli ebrei era proibito mangiare carne di issione e di grifone; queste due specie sono scomparse dal mondo, checché pretenda il Bochart. Dov'è, dunque, la catena?
E quand'anche non avessimo perduto alcune specie, è chiaro che se ne possono distruggere. I leoni, i rinoceronti cominciano a diventare assai rari.
È probabilissimo che siano esistite razze d'uomini di cui oggi non si ha più traccia. Ma voglio anche ammettere che siano sopravvissute tutte: come i bianchi, i negri, i cafri, cui la natura ha dato un grembiule di pelle che pende loro dal ventre fino a mezza coscia; i samoiedi, le cui donne hanno mammelle di un bel nero d'ebano ecc.
Non c'è forse, visibilmente, un vuoto tra la scimmia e l'uomo? Non è forse facile immaginare un animale bipede implume, intelligente, anche se non ha l'uso della parola, né il nostro aspetto, che noi potremmo addomesticare, che risponda ai nostri segni e ci serva? E tra questa nuova specie e la specie umana, non potremmo immaginarne altre ancora?
Oltre l'uomo, voi collocate in cielo, o divino Platone, una quantità di sostanze celesti; noi crediamo, oggi, a qualcuna di esse, perché la fede ce lo insegna. Ma voi, che ragione avevate di credervi? A quanto pare, non avete parlato col demone di Socrate; e quel brav'uomo di Er, che risuscitò apposta per insegnarvi i segreti dell'altro mondo, non vi ha rivelato niente di queste sostanze.
La pretesa catena è del pari interrotta nell'universo sensibile.
Quale gradazione c'è, di grazia, fra i nostri pianeti? La Luna è quaranta volte più piccola del nostro globo. Quando avrete viaggiato nel vuoto oltre la Luna, troverete Venere: essa e grande circa come la Terra; di là arriverete a Mercurio, che descrive un'orbita molto differente da quella di Venere ed è ventisette volte più piccolo di noi: mentre il Sole è un milione di volte più grande, Marte cinque volte più piccolo e compie la sua orbita in due anni; Giove, suo vicino, ne impiega dodici e Saturno trenta; Saturno, il più lontano di tutti, è più piccolo di Giove. Dov'è questa pretesa gradazione?
E poi, come volete che nei grandi vuoti ci sia una catena che tutto collega? Se ce n'è una, è certo quella che Newton ha scoperto; quella che fa gravitare tutti i globi del mondo planetario gli uni verso gli altri, in quel vuoto immenso.
O Platone, tanto ammirato! Ci avete raccontato delle favole; e oggi, in quell'isola di Cassiteride, dove ai vostri tempi gli uomini andavano nudi, è sorto un filosofo che ha insegnato al mondo verità tanto grandi quanto erano puerili le vostre fantasie.
«Quanti anni ha il vostro amico Cristoforo?» «Ventotto anni; ho veduto il suo contratto di matrimonio e il suo certificato di battesimo; lo conosco fin dall'infanzia; ha ventotto anni, ne ho la certezza, ne sono certo...»
Ho appena ascoltato la risposta di quest'uomo, così sicuro di quel che dice, e di venti altri che mi confermano la stessa cosa, quando vengo a sapere che il certificato di battesimo di Cristoforo, per ragioni segrete e per un intrigo singolare, è stato antidatato. Quelli con cui avevo parlato non ne sanno ancora niente; tuttavia han sempre la certezza di ciò che non è.
Se voi aveste domandato al mondo intero, prima dei tempi di Copernico: «Il sole s'è levato? è tramontato quest'oggi?», tutti vi avrebbero risposto: «Ne abbiamo l'assoluta certezza.» Si sentivano certi, ed erano nell'errore.
I sortilegi, le divinazioni, le ossessioni diaboliche, sono stati per secoli e per tutti i popoli la cosa più certa del mondo. Quali folle innumerevoli videro tutte queste belle cose, e ne son state certe! Oggi questa certezza s'è un po' smorzata.
Viene a trovarmi un giovanetto che comincia a studiare geometria; è appena arrivato alla definizione dei triangoli. «Non sei certo,» gli dico, «che i tre angoli di un triangolo equivalgano a due angoli retti?» Egli mi risponde che non solo non ne è certo, ma che non ha neppure un'idea precisa di questa proposizione. Io gliela dimostro; ora ne è certissimo, e lo resterà per tutta la vita.
Ecco una certezza ben differente dalle altre: quelle erano semplici probabilità, e tali probabilità, esaminate a fondo, sono diventate errori; ma la certezza matematica è immutabile ed eterna.
Io esisto, penso, sento dolore; tutto questo è altrettanto certo quanto una verità geometrica? Sì. Perché? Perché queste verità sono provate in virtù dello stesso principio che una cosa non può essere e non essere nello stesso tempo. Io non posso nello stesso tempo esistere e non esistere, sentire e non sentire. Un triangolo non può avere a un tempo centottanta gradi, che sono la somma di due angoli retti, e non averli.
La certezza fisica della mia esistenza, del mio sentire, e la certezza matematica hanno dunque lo stesso valore, benché siano d'ordine differente.
Lo stesso non può dirsi della certezza fondata sulle apparenze o sulle relazioni unanimi degli uomini.
«Ma come,» direte, «non siete certo che Pechino esiste? Non avete in casa vostra stoffe di Pechino? Uomini di differenti paesi, di differenti opinioni, che hanno scritto attaccandosi con violenza, e han tutti infine predicato la verità a Pechino, non vi hanno assicurato dell'esistenza di questa città?» Io rispondo che per me è estremamente probabile che ci sia stata un tempo una città chiamata Pechino, ma che non sarei affatto disposto a scommettere la testa sulla sua esistenza; mentre scommetterò sempre la testa sul fatto che la somma degli angoli di un triangolo è di due angoli retti.
Nel Dictonnaire Encyclopédique è stata stampata una cosa assai curiosa: vi si sostiene che un uomo dovrebbe essere altrettanto sicuro, altrettanto certo che il maresciallo di Sassonia è risuscitato, se tutta Parigi glielo dicesse, quanto è certo che il maresciallo di Sassonia vinse la battaglia di Fontenoy, poiché tutta Parigi glielo dice. Vedete un po', vi prego, che ragionamento ammirevole: «Io credo a tutta Parigi quando mi dice una cosa moralmente possibile; dunque, debbo credere a tutta Parigi anche quando mi dice una cosa moralmente e fisicamente impossibile.»
Probabilmente l'autore di questo articolo voleva scherzare e l'altro autore che alla fine dell'articolo si mostra estasiato e scrive contro se medesimo, voleva scherzare anche lui.
Ci sono, tra noi, dei ciechi, dei guerci, degli strabici, dei presbiti, dei miopi, uomini dalla vista acuta o confusa, o debole o instancabile. Tutto questo è un'immagine abbastanza fedele del nostro intelletto. Ma non ci sono occhi che vedono una cosa per un'altra: non c'è quasi nessuno che scambi un gallo per un cavallo, o un vaso da notte per una casa. Perché si incontrano così spesso cervelli, abbastanza lucidi nel giudicare le piccole cose, ma assolutamente ottenebrati nei riguardi di quelle importanti? Perché quello stesso siamese, che non si lascerà mai ingannare quando si tratterà di contargli tre rupie, crede con tanta sicurezza alle metamorfosi di Sammonocodom? Per quale strana bizzarria degli uomini sensati somigliano a don Chisciotte, che credeva di vedere giganti dove gli altri uomini non vedevano che mulini a vento? E don Chisciotte era molto più scusabile del siamese il quale crede che Sammonocodom sia sceso molte volte sulla terra, o del turco convinto che Maometto si sia infilato metà della luna nella manica; perché don Chisciotte, ossessionato dall'idea di dover combattere dei giganti può figurarsi uno di essi con un corpo grosso quanto un mulino e le braccia lunghe quanto le pale del mulino; ma da quale supposizione può partire un uomo sensato per persuadersi che metà della luna è entrata in una manica, e che un Sammonocodom è sceso dal cielo per venire a giocare con il cervo volante nel Siam, abbattere una foresta e fare giochi di bussolotti?
Anche i più grandi geni possono ragionar storto su un principio accolto senza debito esame. Newton ragionò malissimo quando commentò l'Apocalisse.
Tutto ciò che certi tiranni delle anime desiderano è che gli uomini che istruiscono abbiano il cervello storto. Un fachiro educa un ragazzo che promette molto; egli impiega cinque o sei anni a ficcargli in testa che il dio Fo apparve agli uomini in forma d'elefante bianco, e persuade il ragazzo che sarà frustato, dopo morto, per cinquecentomila anni, se non crede a tali metamorfosi. Poi aggiunge che alla fine del mondo il nemico del dio Fo verrà a combattere contro questa divinità.
Il ragazzo studia e diventa un fenomeno; argomenta secondo le lezioni del suo maestro e scopre che il dio Fo non poteva tramutarsi che in un elefante bianco, perché questo è il più bello degli animali: «I re del Siam e del Pegu,» dice, «si son fatti la guerra per un elefante bianco; certo, se Fo non fosse stato nascosto in tale elefante, quei re non sarebbero stati tanto insensati da combattere per il possesso di un semplice animale.
«Il nemico di Fo verrà a sfidarlo alla fine del mondo; certamente questo nemico sarà un rinoceronte, perché il rinoceronte combatte l'elefante.» È così che ragiona, diventato adulto, il dotto allievo del fachiro, e diventa uno dei luminari dell'India; più ha il cervello sottile e più lo ha storto; e formerà a sua volta cervelli storti.
Se si insegna a tutti questi energumeni un po' di geometria, la imparano abbastanza facilmente. Ma, cosa strana, non per questo il loro cervello si raddrizzerà; essi individuano le verità della geometria, ma essa non insegna loro a pesare le probabilità; hanno ormai preso la loro piega: ragioneranno storto tutta la vita, e me ne spiace per loro.
Se un baco da seta desse il nome di «cielo» a quel poco di lanugine che avvolge il suo bozzolo, ragionerebbe esattamente come tutti gli antichi, che dettero il nome di «cielo» all'atmosfera, la quale è, come dice benissimo il signor De Fontenelle nei suoi Mondes, la lanugine del nostro guscio.
I vapori che salgono dai nostri mari e dalla nostra terra, e che formano le nubi, le meteore e i tuoni, furono presi da principio per la dimora degli dei. In Omero, gli dei discendono sempre entro nuvole d'oro; per questo i pittori li dipingono ancora oggi seduti su una nube; ma, siccome era più giusto che il signore degli dei stesse più a suo agio degli altri, per portarlo, gli fu assegnata un'aquila, visto che l'aquila vola più in alto degli altri uccelli.
Gli antichi greci, vedendo che i signori delle città dimoravano in cittadelle, sulla cima di qualche monte, pensarono che anche gli dei potessero avere una loro cittadella, e la situarono in Tessaglia, sul monte Olimpo, la cui cima è qualche volta nascosta dalle nubi; di modo che il loro palazzo era alla stessa altezza del loro cielo.
Le stelle e i pianeti, che sembrano attaccati alla volta azzurra della nostra atmosfera, divennero, in seguito, la dimora degli dei: sette di loro ebbero ciascuno il proprio pianeta, gli altri alloggiarono dove poterono. Il concilio generale degli dei si teneva in una grande sala cui si arrivava per la Via Lattea; poiché bisogna bene avessero una sala in cielo, dato che gli uomini avevano i loro palazzi di città sulla terra.
Quando i Titani, specie di enormi animali tra gli dei e gli uomini, dichiararono una guerra abbastanza giusta a quegli dei, reclamando una loro eredità dal lato materno, dato che erano figli del cielo e della terra, non seppero fare altro che mettere due o tre montagne l'una sull'altra, contando che bastassero per impossessarsi del Cielo e del castello dell'Olimpo.
Neve foret terris securior arduus aether,
Affectasse ferunt regnum coeleste gigantes,
Altaque congestos struxisse ad sidera montes.
Questa fisica per fanciulli e nonnette era straordinariamente antica. Tuttavia, è certissimo che i caldei avevano idee altrettanto giuste delle nostre su quello che si chiama «cielo»: essi ponevano il sole al centro del nostro mondo planetario, pressappoco alla stessa distanza dal nostro globo così com'è calcolata da noi; e facevano girare la terra e tutti i pianeti attorno a quell'astro. Così ci insegna Aristarco di Samo; ed è il vero sistema astronomico, che poi Copernico rinnoverà; ma i filosofi tenevano per sé il segreto, per essere più rispettati dai re e dai popoli, o piuttosto per non essere perseguitati.
Il linguaggio dell'errore è così familiare agli uomini, che noi chiamiamo ancora i nostri vapori e lo spazio dalla terra alla luna con il nome di «cielo»; continuiamo a dire «salire in cielo», come diciamo che «il sole gira», pur sapendo bene che non gira affatto; probabilmente, per gli abitanti della luna il cielo siamo noi, e ogni pianeta situa il proprio cielo nel pianeta vicino.
Se si fosse domandato a Omero in quale cielo era andata l'anima di Sarpedone o quella di Ercole, Omero sarebbe rimasto piuttosto imbarazzato; avrebbe risposto con versi armoniosi.
Quale sicurezza si poteva avere che l'anima aerea di Ercole si fosse trovata più a suo agio in Venere o in Saturno che nel nostro pianeta? O che sarebbe andata nel sole? Difficile trovarsi a proprio agio in quella fornace. Infine, cosa intendevano gli antichi per «cielo»? Essi non ne sapevano niente: gridavano sempre «Il cielo e la terra», che è come se dicessimo: «L'infinito e un atomo.» Per dirla chiara, il cielo non c'è: c'è una quantità prodigiosa di astri che girano nello spazio vuoto, e il nostro globo gira come gli altri.
Gli antichi credevano che andare in cielo significasse salire; ma non si sale da un globo a un altro; i globi celesti sono ora sotto, ora sopra il nostro orizzonte. Così, supponiamo che Venere, dopo essere venuta a Pafo, ritornasse nel suo pianeta dopo che esso era tramontato; la dea Venere, per arrivarci, non doveva salire, rispetto al nostro orizzonte, ma scendere: si sarebbe dunque dovuto dire che essa «discendeva al cielo». Ma gli antichi non andavano tanto per il sottile: avevano nozioni vaghe, incerte, contraddittorie su tutto ciò che riguardava la fisica. Si sono scritti volumi su volumi per sapere che cosa pensassero su molte questioni del genere. Bastano tre parole: essi non pensavano.
Bisogna sempre eccettuare un piccolo numero di saggi, che però sono venuti tardi; pochi di loro hanno spiegato i propri pensieri e, quando l'hanno fatto, i ciarlatani della terra li hanno spediti in cielo per la via più breve.
Uno scrittore chiamato, credo, Pluche, ha preteso fare di Mosè un grande fisico; prima di lui, un altro aveva conciliato Mosè con Descartes e dato alle stampe un Cartesius mosaïzans; secondo lui, Mosè aveva inventato per primo i vortici e la materia sottile; ma è abbastanza noto che Dio, che fece di Mosè un grande legislatore, un gran profeta, non volle affatto farne un professore di fisica; egli istruì gli ebrei sui loro doveri, e non insegnò loro neanche una parola di filosofia. Don Calmet, che ha molto compilato e non ha mai ragionato, parla del sistema degli ebrei; ma quel popolo rozzo era ben lungi dal possedere un sistema; non aveva nemmeno una scuola di geometria; non ne conosceva neanche il nome; la sua sola scienza era il mestiere di sensale e l'usura.
Nei suoi libri si trovano poche idee confuse, incoerenti, e in tutto degne di un popolo barbaro, sulla struttura del cielo. Il loro primo cielo era l'aria; il secondo, il firmamento, cui erano attaccate le stelle; questo firmamento era solido e di ghiaccio e sosteneva le acque superiori, le quali sfuggirono da questo serbatoio per mezzo di porte, chiuse e cateratte, ai tempi del diluvio.
Al di sopra di questo firmamento, o di quelle acque superiori, v'era il terzo cielo, o Empireo, dove fu rapito san Paolo. Il firmamento era una specie di mezza volta che abbracciava la terra. Il sole non faceva il giro di un globo, che essi non conoscevano: quando era giunto in Occidente, tornava in Oriente per una via sconosciuta; e se non lo si vedeva, era - come dice il barone de Foeneste - perché se ne tornava di notte.
Per giunta, gli ebrei avevano rubato queste fantasticherie ad altri popoli. La maggior parte di questi, eccettuati i caldei, consideravano il cielo come solido; la terra, fissa e immobile, era più lunga da oriente a occidente, che non dal mezzogiorno al nord, di un buon terzo: di qui i termini «longitudine» e «latitudine», che noi abbiamo adottato. È evidente che, con tale opinione, era impossibile che ci fossero antipodi. Così sant'Agostino tratta l'idea degli antipodi come un'assurdità, e Lattanzio dice espressamente: «C'è dunque gente così insensata da credere che esistano uomini la cui testa sta più in basso dei piedi?»
E san Crisostomo, nella sua quattordicesima omelia, esclama: «Dove sono coloro che pretendono che i cieli siano mobili, e la loro forma circolare?»
Lattanzio dice inoltre, nel terzo libro delle sue Istituzioni: «Potrei provarvi con parecchi argomenti che è impossibile che il cielo circondi la terra.»
L'autore dello Spettacolo della natura potrà dire finché vorrà al signor cavaliere che Lattanzio e san Crisostomo erano dei grandi filosofi; gli risponderemo che erano dei gran santi, e che non è affatto necessario, per esser santi, essere anche buoni astronomi. Possiamo credere che siano in cielo, ma dovremo riconoscere che non sappiamo in quale parte di esso si trovino precisamente.
Noi andiamo a cercare in Cina della terra, come se non ne avessimo; delle stoffe, come se ne mancassimo; una piccola erba per fare un infuso, come se nei nostri climi non avessimo dei semplici. E, in compenso, vogliamo convertire i cinesi: zelo lodevolissimo, ma non bisogna contestare la loro abilità e dire che sono degli idolatri. Sarebbe giusto se un cappuccino, ben accolto in un castello dell'antica famiglia dei Montmorency, volesse persuaderli che sono nobili di fresca data, come i segretari del re, e li accusasse di idolatria perché ha trovato in quel castello due o tre statue di connestabili per le quali quei nobili mostrano un profondo rispetto?
Il celebre Wolf, professore di matematiche all'università di Halle, pronunziò un giorno un bellissimo discorso in lode della filosofia cinese; elogiò questa antica specie di uomini, che differisce da noi per la barba, gli occhi, il naso, le orecchie e per il modo di ragionare; elogiò, dico, i cinesi, perché adorano un Dio supremo e amano la virtù; rendeva tale giustizia agli imperatori della Cina, ai Kolao, ai tribunali, ai letterati. La giustizia che si rende ai bonzi è di specie diversa.
Bisogna sapere che questo Wolf attirava a Halle un migliaio di studenti di tutte le nazioni. C'era, nella stessa università, un professore di teologia, chiamato Lange, che non attirava nessuno; disperato a forza di gelare dal freddo, solo, nella sua aula, volle, come di ragione, screditare il professore di matematiche; e non mancò, secondo il costume dei suoi simili, d'accusarlo di non credere in Dio.
Alcuni scrittori europei, che non erano mai stati in Cina, avevan dichiarato che il governo di Pechino era ateo. Wolf aveva lodato i filosofi di Pechino, e dunque Wolf era ateo; l'invidia e l'odio non hanno mai prodotto migliori sillogismi. Questo argomento di Lange, sostenuto da una cabala e da un protettore, fu giudicato convincente dal re del paese, che inviò al matematico un dilemma in debita forma: o lasciare Halle entro ventiquattro ore o venire impiccato. Wolf, assai sveglio di cervello, se ne partì subito; la sua partenza costò al re la perdita di due o trecentomila scudi l'anno, che questo filosofo faceva entrare nel regno grazie all'affluenza dei suoi discepoli.
Questo esempio deve fare intendere ai sovrani che non sempre bisogna dar retta alle calunnie e sacrificare un grand'uomo al furore di uno stolto. Ma torniamo alla Cina.
Perché mai ci azzardiamo, noi, nell'estremo occidente, a disputare con accanimento e torrenti di ingiurie per sapere se ci sono stati quattordici principi, o no, prima di Fo-hi, imperatore della Cina, e se questo Fo-hi viveva tremila o duemilanovecento anni prima della nostra era volgare? Se due irlandesi si mettessero a disputare a Dublino per sapere chi fu, nel XII secolo, il proprietario delle terre che io occupo oggi, non è evidente che dovrebbero rivolgersi a me, che ho in mano gli archivi? La stessa cosa si deve fare, a mio giudizio, nei riguardi dei primi imperatori della Cina: bisogna rimettersi al giudizio dei tribunali di quel paese.
Disputate finché volete sui quattordici principi che regnarono prima di Fo-hi; la vostra bella disputa arriverà solo a provare che la Cina era allora molto popolata e che vi regnavano le leggi. Ora vi domando se una nazione riunita, che ha leggi e principi, non presupponga una straordinaria antichità. Pensate quanto tempo occorre perché un singolare concorso di circostanze faccia trovare il ferro nelle miniere, perché venga impiegato nell'agricoltura, perché si inventi la spola e tutte le altre arti.
Chi si diverte a scrivere puerilità ha immaginato un calcolo molto divertente. Il gesuita Petau, con un bellissimo computo, attribuisce alla terra, duecentottantacinque anni dopo il diluvio, cento volte più abitanti di quanti si osi supporre per il presente. I Cumberland e i Whiston hanno fatto calcoli non meno comici: questa brava gente, se avesse consultato i registri delle nostre colonie, sarebbe rimasta sbalordita: avrebbe appreso quanto poco il genere umano si moltiplica, e che spesso diminuisce, anziché aumentare.
Lasciamo dunque, noi che siamo di ieri, noi discendenti dei celti, che abbiamo solo da poco dissodato le foreste delle nostre contrade selvagge, lasciamo che i cinesi e gli indiani si godano in pace il loro buon clima e la loro antichità. Cessiamo, soprattutto, di chiamare idolatri l'imperatore della Cina e il subab del Dekkan! Non bisogna essere fanatici dei meriti dei cinesi: la costituzione del loro impero è la migliore del mondo, la sola che sia tutta fondata sull'autorità paterna (il che non impedisce che i mandarini non bastonino di santa ragione i loro figli); la sola in cui un governatore venga punito quando, lasciando la sua carica, non riceva le acclamazioni del popolo; la sola che abbia istituito dei premi per la virtù, mentre, nel resto del mondo, le leggi si limitano a punire il crimine; la sola che abbia fatto adottare le proprie leggi ai suoi vincitori, mentre noi siamo ancora soggetti alle consuetudini dei burgundi, dei franchi e dei goti, che in altri tempi ci dominarono. Ma bisogna confessare che il popolino, governato dai bonzi, non è meno furfante del nostro; che agli stranieri tutto viene venduto a carissimo prezzo, come da noi; che nelle scienze i cinesi sono ancora al punto in cui noi eravamo duecento anni fa; che essi hanno, come noi, mille pregiudizi ridicoli; che credono ai talismani a all'astrologia giudiziaria, come ci abbiam creduto noi per tanto tempo.
Riconosciamo inoltre che essi sono rimasti meravigliati dal nostro termometro, dal nostro modo di ghiacciare i liquidi col salnitro, e di tutti gli esperimenti di Torricelli e di Otto von Guericke, proprio come lo fummo noi la prima volta che vedemmo questi «giochi» di fisica; aggiungiamo che i medici cinesi, come i nostri, non guariscono le malattie mortali; e che là, come da noi, solo la natura guarisce le malattie leggere; ma tutto ciò non impedisce che i cinesi, quattromila anni or sono, quando noi non sapevamo nemmeno leggere, conoscessero già tutte le cose utili di cui noi oggi ci vantiamo.
La religione dei letterati, ripetiamo, è ammirevole. Nessuna superstizione, nessuna leggenda assurda, nessuno di quei dogmi che insultano la ragione e la natura, e ai quali i bonzi attribuiscono mille significati diversi, perché non ne hanno alcuno. Da più di quaranta secoli, il culto più semplice è sembrato loro il migliore. I cinesi sono come noi pensiamo che fossero Seth, Enoch e Noè; s'accontentano d'adorare un Dio come tutti i saggi della terra, mentre noi, in Europa, ci dividiamo tra Tommaso e Bonaventura, fra Calvino e Lutero, fra Giansenio e Molina.
Quando Erodoto riferisce quel che gli dissero i barbari presso i quali viaggiò, racconta delle sciocchezze: come fa la maggior parte dei nostri viaggiatori; così non pretende di essere creduto quando parla dell'avventura di Gige o del re Candaule, o di Arione, portato in groppa da un delfino; o dell'oracolo consultato per sapere che cosa faceva Creso, il quale rispose che in quel momento faceva cuocere una tartaruga in una pentola chiusa; o del cavallo di Dario, che, per aver nitrito prima degli altri, proclamò re il suo padrone; e di cento altre favole buone per divertire i bambini e per essere raccolte dai retori; ma quando parla di quel che ha veduto, dei costumi dei popoli che ha esaminato, delle loro antichità che ha consultato, allora parla per gli uomini.
«Sembra,» dice nel libro Euterpe, «che gli abitanti della Colchide siano originari dell'Egitto; lo giudico da me, piuttosto che per sentito dire, perché ho trovato che nella Colchide ci si ricorda degli antichi egiziani molto più che, in Egitto, non ci si ricordi degli antichi costumi di Colco.
«Questi abitanti delle rive del Ponto Eusino pretendevano di essere una colonia fondata da Sesostri; e io stesso lo congetturai, non solo perché essi sono di pelle scura e hanno i capelli crespi, ma dal fatto che i popoli della Colchide, dell'Egitto e dell'Etiopia sono i soli che da sempre si son fatti circoncidere; poiché i fenici, e quelli della Palestina, ammettono di aver preso la circoncisione dagli egiziani. I siriani, che abitano oggi sulle rive del Termodonte e del Partenio, e i macroni, loro vicini, confessano che solo da poco tempo si sono conformati a questa usanza dell'Egitto; è per questo, soprattutto, che sono riconosciuti egiziani d'origine.
«Quanto all'Etiopia e all'Egitto, dato che questa cerimonia è molto antica presso queste due nazioni, non saprei dire quale delle due l'abbia appresa dall'altra. Tuttavia, è verosimile che gli etiopi l'abbiano appresa dagli egiziani; come, per contro, i fenici hanno abolito l'uso di circoncidere i neonati, da quando hanno avuto maggior commercio con i greci.»
È evidente, da questo passo di Erodoto, che parecchi popoli avevano appreso la circoncisione dall'Egitto; ma nessuna nazione ha mai preteso di aver ricevuto la circoncisione dagli ebrei. A chi si può dunque attribuire l'origine di tale usanza? Alla nazione da cui cinque o sei altre confessano di averla appresa, o a un'altra nazione molto meno potente, meno dedita ai commerci, meno guerriera, nascosta in un angolo dell'Arabia Petrea, e che non comunicò mai la minima sua usanza a nessun popolo?
Gli ebrei dicono che un tempo, per carità, furono accolti in Egitto; non è verosimile che il popolo più piccolo abbia imitato un'usanza del popolo più grande, e che gli ebrei abbiano accolto qualche costumanza dei loro padroni?
Clemente d'Alessandria riferisce che Pitagora, viaggiando fra gli egiziani, fu obbligato a farsi circoncidere per essere ammesso ai loro misteri; era, dunque, assolutamente necessario essere circoncisi per venire ammessi tra i sacerdoti d'Egitto. Questi sacerdoti esistevano già, quando Giuseppe giunse in Egitto: il governo di quel paese era antichissimo, e le antiche cerimonie venivano osservate con la più scrupolosa esattezza.
Gli ebrei ammettono di aver dimorato per duecentocinque anni in Egitto; dicono che non si fecero circoncidere durante tutto quel tempo; è dunque chiaro che, durante quei duecentocinque anni, gli egiziani non appresero la circoncisione dagli ebrei. L'avrebbero forse appresa più tardi, dopo che gli ebrei ebbero rubato tutti i vasi che avevano ricevuto in prestito ed erano fuggiti nel deserto con le loro prede, secondo la loro stessa testimonianza? Un padrone adotterà il segno principale della religione di un suo schiavo ladro e fuggiasco? Questo non è conforme alla natura umana.
Nel libro di Giosuè è detto che gli ebrei furono circoncisi nel deserto: «Io vi ho liberati da quello che faceva il vostro obbrobrio fra gli egiziani.» Ora, quale poteva essere quest'obbrobrio per gente che si trovava tra i popoli della Fenicia, gli arabi e gli egiziani, se non qualcosa che li rendeva degni di disprezzo a queste tre nazioni? Come si poteva toglier loro questo obbrobrio? Togliendo loro un po' di prepuzio. Non è questo il senso naturale del passo in questione?
Il Genesi dice che Abramo era stato circonciso già prima; ma Abramo viaggiò per l'Egitto che era da tanto tempo un florido regno, governato da un potente re. Nulla impedisce che in quel regno così antico la circoncisione fosse da lungo tempo in uso, prima ancora che la nazione ebraica si fosse formata. Inoltre, la circoncisione di Abramo non ebbe seguito: i suoi posteri vennero circoncisi solo dal tempo di Giosuè in poi.
Ora, prima di Giosuè, gli israeliti, per loro stessa confessione, presero molte costumanze dagli egiziani: li imitarono in parecchi sacrifici, in molte cerimonie, come nei digiuni che si osservavano alla vigilia delle feste di Iside, nelle abluzioni, nell'abitudine di rasare il capo ai preti; l'incenso, il candelabro, il sacrificio della vacca rossa, la purificazione con l'issopo, l'astinenza dalla carne di maiale, l'orrore per gli utensili da cucina degli stranieri, tutto attesta che il piccolo popolo ebreo, malgrado la sua avversione per la grande nazione egiziana, aveva conservato un'infinità di usanze dei suoi antichi padroni. Quel capro Azazel che veniva inviato nel deserto, carico dei peccati del popolo, era una manifesta imitazione di una pratica egiziana; anzi, i rabbini stessi convengono che la parola Azazel non è ebraica. Niente impedisce, dunque, che, per quanto riguarda la circoncisione, gli ebrei abbiano imitato gli egiziani, come facevano gli arabi, loro vicini.
Non c'è niente di straordinario nel fatto che Dio, il quale santificò il battesimo, così antico presso gli asiatici, abbia santificato anche la circoncisione, altrettanto antica fra gli africani. Abbiamo già detto che Egli è padrone di conferire la sua grazia ai segni che si degna di scegliere.
Del resto, dopo che, sotto Giosuè, il popolo ebreo fu circonciso, esso ha conservato questa usanza fino ai giorni nostri; anche gli arabi vi sono sempre stati fedeli. Al contrario, gli egiziani, che nei primi tempi circoncidevano i bambini e le bambine, cessarono col tempo di fare quest'operazione alle bambine, e infine la limitarono ai sacerdoti, agli astrologi e ai profeti. È quanto apprendiamo da Clemente d'Alessandria e da Origene. Infatti, non risulta che i Tolomei siano mai stati circoncisi.
Gli autori latini, che trattavano gli ebrei con un disprezzo così profondo da chiamarli curtus Apella per derisione («credat Judaeus Apella, curti Judaei»), non danno mai questi epiteti agli egiziani. Tutto il popolo d'Egitto è oggi circonciso, ma per un'altra ragione: perché l'islamismo adottò l'antica pratica araba della circoncisione, pratica che passò presso gli etiopi dove si circoncidono ancora bambini e bambine. Bisogna ammettere che questa cerimonia della circoncisione pare sulle prime ben strana; ma va rilevato che, in ogni tempo, i sacerdoti dell'oriente si consacravano alle loro divinità con segni particolari: i sacerdoti di Bacco si incidevano con un punteruolo una foglia d'edera sulla pelle; Luciano ci dice che i seguaci della dea Iside s'imprimevano dei caratteri sul polso e sul collo. I sacerdoti di Cibele si rendevano eunuchi.
È molto probabile che gli egiziani, i quali veneravano lo strumento della generazione, e ne portavano l'immagine con gran pompa nelle loro processioni, immaginassero di offrire a Iside e a Osiride, per opera dei quali tutto si generava sulla terra, una piccola parte del membro per mezzo del quale quelle divinità avevano voluto che il genere umano si perpetuasse. Gli antichi costumi orientali sono così prodigiosamente differenti dai nostri, che nulla deve sembrare straordinario a chiunque abbia un po' di cultura. Un parigino resta sbalordito quando gli si dice che gli ottentotti fanno tagliare ai loro figli un testicolo. Può darsi che gli ottentotti restino anch'essi sbalorditi nell'apprendere che i parigini li conservano tutti e due.
Tutti i concili sono infallibili, non c'è dubbio, dato che sono composti di uomini. È impossibile che le passioni, gli intrighi, lo spirito di controversia, l'odio, la gelosia, il pregiudizio, l'ignoranza regnino mai in queste assemblee.
Ma perché, si dirà, tanti concili si sono opposti gli uni agli altri? Per mettere alla prova la nostra fede. Tutti hanno avuto ragione, ciascuno a suo tempo.
Oggi, i cattolici romani non credono che ai concili approvati dal Vaticano; e i cattolici greci non credono che a quelli approvati a Costantinopoli. I protestanti si fanno beffe degli uni e degli altri. Cosi tutti sono contenti.
Parleremo qui solo dei grandi concili: dei piccoli, non ne vale la pena.
Il primo è quello di Nicea. Esso si riunì nel 325 dell'era volgare, dopo che Costantino ebbe scritto e inviato per mezzo di Osio quella bella lettera al clero un po' turbolento di Alessandria: «Voi state a litigare per una questione di così poco conto. Queste vostre sottigliezze sono indegne di gente ragionevole.» Si trattava di sapere se Gesù era creato o increato. Questo non riguardava affatto la morale, che è la sola cosa essenziale: che Gesù sia stato nel tempo o prima del tempo, l'importante è che noi si sia uomini onesti. Dopo parecchi alterchi, fu alla fine deciso che il Figlio era antico quanto il Padre e consustanziale al Padre. Questa decisione è ben difficile a intendersi, ma appunto per questo è tanto più sublime. Diciassette vescovi protestarono contro la sentenza, e un'antica cronaca d'Alessandria, conservata a Oxford, dice che protestarono anche duemila preti; ma i prelati non fanno gran caso ai semplici preti, che di solito sono poveri. Comunque sia, in questo primo concilio non si discusse affatto della Trinità. La formula dice: «Noi crediamo in Gesù Cristo consustanziale al Padre, Dio da Dio, luce da luce, generato e non fatto; noi crediamo anche nello Spirito Santo.» Con lo Spirito Santo, bisogna riconoscerlo, se la sbrigarono con molta disinvoltura.
Nel supplemento del concilio di Nicea viene riferito che i Padri, essendo in grande imbarazzo nel tentar di distinguere i libri «crifi» o apocrifi dell'Antico e del Nuovo Testamento, li buttarono tutti alla rinfusa su un altare: e quelli da scartare caddero in terra. È proprio un peccato che al giorno d'oggi questa bella ricetta non si usi più.
Dopo il primo concilio di Nicea, composto di trecentodiciassette vescovi infallibili, se ne tenne un altro a Rimini; e il numero degli infallibili fu questa volta di quattrocento, senza contare un grosso distaccamento a Seleucia di circa duecento. Questi seicento vescovi, dopo quattro mesi di disputa, tolsero unanimi a Gesù la sua consustanzialità. Essa gli fu restituita in seguito, fuorché dai sociniani; così tutto è a posto.
Uno dei grandi concili è quello di Efeso, del 431. Il vescovo di Costantinopoli, Nestorio, gran persecutore d'eretici, fu condannato a sua volta come eretico per avere sostenuto che, in verità, Gesù era sì Dio, ma sua madre non era assolutamente madre di Dio, bensì madre di Gesù. Fu san Cirillo che fece condannare Nestorio; ma anche i partigiani di Nestorio fecero deporre san Cirillo nello stesso concilio: questo, certo, mise in un grosso imbarazzo lo Spirito Santo.
Prendi nota, lettore, che il Vangelo non ha mai detto una parola né della consustanzialità del Verbo, né dell'onore toccato a Maria d'esser madre di Dio, né di tutte le altre questioni che hanno fatto riunire tanti concili infallibili.
Eutiche era un monaco che aveva tuonato contro Nestorio, la cui eresia arrivava addirittura a supporre in Gesù due persone: cosa spaventosa, certo. Questo monaco, per meglio contraddire il suo avversario, assicura che Gesù non aveva che una sola natura. Al contrario, un tal Flaviano, vescovo di Costantinopoli, sostenne che era assolutamente necessario che in Gesù ci fossero due nature. Si riunì allora un numeroso concilio a Efeso, nel 449: e qui si discusse a suon di bastonate, come già al piccolo concilio di Cirta, nel 355, e in un'altra assemblea a Cartagine. Furono dunque assegnate all'unica natura di Flaviano un sacco di bastonate, e a Gesù due nature: fino al concilio di Calcedonia, nel 451, in cui Gesù fu ridotto ad averne una sola.
Sorvolo su altri concili tenutisi per minuzie e vengo al sesto concilio ecumenico di Costantinopoli, riunito per sapere con precisione se Gesù, avendo una sola natura, non avesse tuttavia due volontà. Chi non sente quanto ciò sia importante per piacere a Dio?
Questo concilio fu convocato da Costantino il Barbuto, come tutti gli altri erano stati convocati dagli imperatori precedenti: i legati del vescovo di Roma furono messi a sinistra, i patriarchi di Costantinopoli e di Antiochia a destra. Non so se i caudatari a Roma pretendevano che la sinistra fosse il posto d'onore. Sia come sia, Gesù, in quest'occasione, ottenne due volontà.
La legge mosaica aveva vietato le immagini. I pittori e gli scultori non avevano mai fatto fortuna presso gli ebrei. Non risulta che Gesù abbia mai avuto quadri, tranne forse il ritratto di Maria, dipinto da Luca. In ogni caso, Gesù Cristo non raccomanda mai d'adorare le immagini. I cristiani, tuttavia, cominciarono ad adorarle, verso la fine del IV secolo, non appena si furono familiarizzati con le belle arti. L'abuso giunse a tal punto, nell'VIII secolo, che Costantino Copronimo riunì a Costantinopoli un concilio di trecentoventi vescovi, il quale anatemizzò il culto delle immagini, chiamandolo idolatria.
L'imperatrice Irene, la stessa che più tardi fece cavare gli occhi a suo figlio, convocò nel 787 il secondo concilio di Nicea: in esso l'adorazione delle immagini fu ristabilita. Oggi si vuole giustificare questo concilio dicendo che quell'adorazione era un culto di «dulìa» e non di «latria».
Ma fosse «dulìa» fosse «latria», Carlomagno nel 794 fece tenere a Francoforte un altro concilio, il quale accusò il secondo concilio di Nicea di idolatria. Il papa Adriano I vi inviò due legati, ma non fu lui a convocarlo.
Il primo grande concilio convocato da un papa fu il primo concilio Laterano, nel 1139; vi parteciparono circa mille vescovi. Ma non vi si concluse quasi nulla: ci si limitò a scagliare anatemi contro coloro che sostenevano che la Chiesa era troppo ricca.
Un altro concilio lateranense, nel 1179, fu tenuto da papa Alessandro III: in quest'occasione i cardinali presero, per la prima volta il sopravvento sui vescovi. Furono trattate solo questioni disciplinari.
In un altro grande concilio lateranense, nel 1215, papa Innocenzo III scomunicò il conte di Tolosa, spogliandolo di tutti i suoi beni. È questo il primo concilio in cui si sia parlato di transustanziazione.
Nel 1245, concilio generale di Lione, allora città imperiale, nel quale il papa Innocenzo IV scomunicò l'imperatore Federico II e, di conseguenza, lo depose, interdicendogli l'acqua e il fuoco: fu in questo concilio che venne dato ai cardinali il cappello rosso, per far loro ricordare che bisogna bagnarsi nel sangue dei partigiani dell'imperatore. Questo concilio fu causa della distruzione della casa di Svevia, e di trent'anni d'anarchia in Italia e in Germania.
Concilio universale a Vienne, nel Delfinato, nel 1311, dove si abolì l'ordine dei templari, i cui principali membri erano stati condannati ai più orribili supplizi, su accuse per nulla provate.
Nel 1414, il grande concilio di Costanza, dove ci si accontentò di deporre papa Giovanni XXIII, colpevole di mille delitti, e dove vennero bruciati Giovanni Huss e Gerolamo da Praga, per essere stati ostinati: l'ostinazione è infatti un crimine ben più pesante dell'assassinio, del ratto, della simonia e della sodomia.
Nel 1431, il grande concilio di Basilea, non riconosciuto a Roma, perché vi si depose papa Eugenio IV, il quale non si lasciò affatto deporre.
I romani contano come concilio universale anche il quinto concilio lateranense del 1512, convocato contro Luigi XII, re di Francia, da papa Giulio II. Ma, dopo la morte di quel papa bellicoso, il concilio se ne andò in fumo.
Infine abbiamo il grande concilio di Trento, il quale non fu accettato in Francia in materia di disciplina; il suo dogma è tuttavia incontestabile, poiché lo Spirito Santo, come disse fra Paolo Sarpi, arrivava tutte le settimane da Roma a Trento per valigia diplomatica. Ma fra Paolo Sarpi puzzava un po' d'eresia.
(Del signor Abausit, cadetto)
È ancora un problema da risolvere, se la confessione, considerata sotto l'aspetto politico, abbia fatto più bene che male.
Ci si confessava nei misteri d'Iside, di Orfeo e di Cerere, davanti allo ierofante e agli iniziati; perché, essendo quei misteri delle espiazioni, bisognava pur confessare che si avevano crimini da espiare.
I cristiani adottarono la confessione nei primi secoli della Chiesa, così come fecero propri quasi tutti i riti dell'antichità, come i templi, gli altari, l'incenso, i ceri, le processioni, l'acqua lustrale, gli abiti sacerdotali e parecchie formule dei misteri: il sursum corda, l'ite missa est, e tante altre. Lo scandalo della confessione pubblica di una donna, avvenuto nel IV secolo a Costantinopoli, fece abolire la confessione.
La confessione segreta che un uomo fa ad un altro uomo non fu ammessa, nel nostro occidente, che verso il VII secolo. Gli abati cominciarono a esigere che i loro monaci andassero due volte l'anno a confessare loro tutte le loro colpe. Furono questi abati a inventare la formula: «Io ti assolvo quanto lo posso e quanto ne hai bisogno.» Mi sembra che sarebbe stato più rispettoso verso l'Essere supremo, e più giusto, dire: «Possa Egli perdonare le tue colpe e le mie!»
Il bene che la confessione ha fatto è di avere talvolta ottenuto la restituzione di piccoli furti. Il male, è di avere costretto talvolta i penitenti, nei disordini degli stati, a essere ribelli e sanguinari per dovere di coscienza. I preti guelfi rifiutavano l'assoluzione ai ghibellini, e i preti ghibellini si guardavano bene dall'assolvere i guelfi. Gli assassini degli Sforza, dei Medici, dei principi d'Orange, dei re di Francia, si preparavano ai loro parricidi col sacramento della confessione.
Luigi XI e la Brinvilliers si confessavano non appena avevano commesso un delitto, e si confessavano spesso, come i ghiottoni si purgano per aver più appetito.
Se ci si potesse stupire di qualcosa, ci si stupirebbe per prima cosa della bolla di papa Gregorio XV, emanata da Sua Santità il 30 agosto 1622, con la quale ordinava di rivelare in certi casi le confessioni.
La risposta del gesuita Coton a Enrico IV durerà più dell'ordine dei gesuiti: «Rivelereste la confessione di un uomo risoluto ad assassinarmi?» «No, ma mi metterei tra voi e lui.»
Si danzò, intorno al 1724, nel cimitero di Saint-Médard. Vi si fecero molti miracoli; eccone uno, riferito in una canzone della duchessa del Maine:
Un décrotteur à la royale,
Du talon gauche estropié,
Obtint pour grâce spéciale
D'être boiteux de l'autre pied.
Le convulsioni miracolose, come san tutti, continuarono finché non venne messa una guardia al cimitero.
De par le roi, défense à Dieu
De plus fréquenter en ce lieu.
I gesuiti (anche questo lo san tutti), non potendo più fare simili miracoli, da quando il loro Saverio aveva esaurito tutte le grazie di cui disponeva la Compagnia, risuscitando ben nove morti, pensarono, per bilanciare il credito nei confronti dei giansenisti, di far incidere una stampa di Gesù Cristo, vestito da gesuita. Un bello spirito del partito giansenista (san tutti anche questo) scrisse sotto l'immagine:
Admirez l'artifice extrême
De ces moines ingénieux:
Ils vous ont habillé comme eux,
Mon Dieu, de peur qu'on ne vous aime.
I giansenisti, per meglio provare che mai Gesù Cristo avrebbe potuto prendere l'abito di gesuita, riempirono Parigi di convulsioni, e attirarono la gente nei loro chiostri. Il consigliere al parlamento Carré de Montgeron andò a presentare al re una raccolta in quarto di tutti quei miracoli, attestati da mille testimoni. Egli fu rinchiuso, come di ragione, in un castello, dove si cercò di raddrizzargli il cervello con un regime adatto; ma la verità trionfa sempre sulle persecuzioni: i miracoli durarono ancora trent'anni, senza interruzione. Si faceva venire a casa propria suora Rosa, suora Illuminata, suora Promessa, suora Confessa; esse si lasciavano frustare senza che l'indomani apparisse un segno sul loro corpo; si davan loro bastonate sullo stomaco ben corazzato e imbottito, senza far loro alcun male: le si faceva sdraiare davanti a un gran fuoco, il volto strofinato di pomata, senza che si scottassero; e infine, poiché tutte le arti si perfezionano, si arrivò a piantar loro delle spade nelle carni e a crocifiggerle. Anche un famoso teologo ebbe l'onore di venire crocifisso; tutto questo per convincere la gente che una certa bolla papale era ridicola, cosa che si sarebbe potuta dimostrare senza bisogno di tanti miracoli. Tuttavia, sia i gesuiti, sia i giansenisti, si allearono poi tutti contro l'Esprit des lois e contro... e contro... e contro... e contro...
Il colmo è che noi osiamo ridere dei lapponi, dei samoiedi e dei negri!
Come non sappiamo che cos'è uno spirito, così ignoriamo che cos'è un corpo: noi ne vediamo alcune proprietà; ma qual è il soggetto nel quale risiedono? Esistono solo dei corpi, dicevano Democrito ed Epicuro; non esistono corpi, dicevano i discepoli di Zenone di Elea.
Il vescovo di Cloyne, Berkeley, fu l'ultimo che pretese di provare, con cento sofismi capziosi che i corpi non esistono. Essi non hanno - dice - né colori, né odori, né calore; queste modalità sono nelle vostre sensazioni, e non negli oggetti. Poteva risparmiarsi la pena di provare questa verità: essa era abbastanza nota. Ma da qui egli passa all'estensione, alla solidità, che sono realtà essenziali dei corpi, e crede di poter provare che non v'è estensione in una pezza di panno verde, perché quel panno non è realmente verde: questa sensazione di verde non è che in noi: dunque anche la sensazione di estensione non è che in noi. E, dopo aver così distrutto l'estensione, conclude che anche la solidità, che ad essa è collegata, cade da sé, e che così non c'è niente al mondo, salvo le nostre idee, di modo che, secondo quel dottore, diecimila uomini massacrati da diecimila colpi di cannone non sono, in definitiva, che diecimila apprensioni della nostra anima.
Dipendeva solo dal signor vescovo di Cloyne di non cadere in tanto ridicolo eccesso. Egli crede di dimostrare che l'estensione non esiste perché, con una lente, un corpo gli è apparso quattro volte più grosso che non ad occhio nudo, e, visto con un'altra lente, quattro volte più piccolo. Da ciò conclude che poiché un corpo non può avere ad un tempo un'estensione di quattro piedi, di sedici piedi e di un solo piede, l'estensione non esiste. Bastava che prendesse una misura, e dicesse: «Di qualunque estensione mi sembri un corpo, esso è esteso quanto queste misure.»
Gli era pur facile vedere che l'estensione e la solidità sono altra cosa dai suoni, dai colori, dai sapori, dagli odori ecc. È chiaro che queste sono sensazioni suscitate in noi dalla configurazione delle parti; ma l'estensione non è una sensazione. Se quel pezzo di legno acceso si spegne, io non ho più caldo; se quest'aria non è più mossa, io non odo più; se questa rosa appassisce, non ne sento più l'odore. Ma il pezzo di legno, l'aria, la rosa sono estesi indipendentemente da me. Il paradosso di Berkeley non vale la pena d'essere confutato.
Val la pena di sapere che cosa lo abbia spinto a sostenerlo. Molti anni fa, ebbi alcune conversazioni con lui: egli mi disse che l'origine della sua tesi veniva dal fatto che non è possibile concepire cosa sia il soggetto che riceve l'estensione. E infatti egli trionfa nel suo libro, quando domanda a Hylas che cosa è mai questo soggetto, questo substratum, questa sostanza: «È il corpo esteso,» risponde Hylas. Allora il vescovo, sotto il nome di Philonous, lo prende in giro; e il povero Hylas, accorgendosi di aver detto che l'estensione è il soggetto dell'estensione, cioè una cosa insensata, resta tutto confuso, e confessa che non ci capisce nulla, che i corpi non esistono, che il mondo materiale non esiste, e che c'è soltanto un mondo spirituale.
Hylas doveva solo dire a Philonous: «Noi non sappiamo nulla della natura di questo soggetto, di questa sostanza estesa, solida, divisibile, mobile, figurata ecc.; io non la conosco come non conosco il soggetto pensante, senziente e volente; nondimeno questo soggetto esiste, perché possiede proprietà essenziali di cui non può essere privato.»
Noi siamo tutti come la maggior parte delle dame di Parigi, che mangiano di gusto senza sapere minimamente di che sian fatti i ragù; così noi godiamo dei corpi senza sapere ciò che li compone. Di che cosa è fatto un corpo? Di parti, e queste parti si risolvono in altre parti. E cosa sono queste ultime parti? Sempre dei corpi. Continuate a dividere, e non farete un passo nel cercar di capire.
Infine, un sottile filosofo, osservando che un quadro è fatto d'ingredienti, nessuno dei quali è un quadro, e una casa di materiali, nessuno dei quali è una casa, immaginò (in maniera un po' diversa) che i corpi siano composti di un'infinità di piccoli esseri che in sé non sono corpi: le cosiddette monadi. Tale sistema ha del buono; e, se fosse rivelato, lo crederei possibilissimo. Tutti questi piccoli esseri sarebbero dei punti matematici, delle specie di anime, in attesa solo di un abito per infilarcisi dentro; sarebbe una metempsicosi continua: una monade andrebbe ora in una balena, ora in una pianta, ora in un giocatore di bussolotti. Sistema che vale quanto qualsiasi altro sistema; e a me piace quanto la declinazione degli atomi, le forme sostanziali, la grazia versatile e i vampiri di don Calmet.
Io recito il mio Pater e il mio Credo tutte le mattine; non somiglio affatto a Broussin, di cui Reminiac diceva:
Broussin, dès l'âge le plus tendre,
Posséda la sauce-Robert,
Sans que son précepteur lui pût jamais apprendre
Ni son Credo ni son Pater.
Il «simbolo», o collatio, viene dal greco $óýìâïëïí$, e la Chiesa latina, che ha preso tutto da quella greca, ha adottato questa parola. I teologi, quelli che hanno un minimo d'istruzione, sanno che questo simbolo, detto «degli apostoli», non è affatto degli apostoli.
I greci chiamavano «simbolo» le parole, i segni con cui si riconoscono fra loro gli iniziati ai misteri di Cerere, di Cibele, di Mitra; anche i cristiani, col tempo ebbero il loro simbolo. Se fosse esistito al tempo degli apostoli, c'è da credere che san Luca ne avrebbe fatto cenno.
Si attribuisce a sant'Agostino una storia del simbolo nel suo sermone CXV: gli si fa dire, in questo sermone, che Pietro aveva cominciato il simbolo dicendo: «Io credo in Dio Padre onnipotente», al che Giovanni aggiunse: «creatore del cielo e della terra», e Giacomo: «E io credo in Gesù Cristo, suo unico figlio, nostro Signore», e così via. Nell'ultima edizione di Agostino questa favola è stata soppressa. Io mi rivolgo ai reverendi padri benedettini per sapere se bisognava o no sopprimere questo brano così singolare.
La verità è che nessuno sentì parlare di questo Credo per più di quattrocento anni. Il popolo dice che Parigi non è stata fatta in un giorno, e il popolo, nei suoi proverbi, ha spesso ragione. Gli apostoli ebbero il nostro simbolo nel cuore, ma non lo misero per iscritto. Se ne formulò uno al tempo di sant'Ireneo, che non somiglia affatto a quello che recitiamo. Il nostro simbolo, qual è oggi, risale certamente al V secolo: è posteriore a quello di Nicea. L'articolo che dice che Gesù discese all'inferno, quello che parla della comunione dei santi, non si trovano in nessuno dei simboli che precedettero il nostro. E, infatti, ne i Vangeli né gli Atti degli Apostoli dicono che Gesù, discese all'inferno. Ma già nel III secolo era opinione radicata che Gesù fosse disceso nell'Ade, nel Tartaro, parole che noi traduciamo con quella di Inferno. L'inferno, in questo senso, non è la parola ebraica sheol, che vuol dire sotterraneo, fossa. Ecco perché sant'Atanasio ci insegnò poi come il nostro Salvatore discese all'inferno: «La sua umanità non fu né tutta intera nel sepolcro, né tutt'intera nell'inferno: essa fu nel sepolcro secondo la carne, nell'inferno secondo l'anima.»
San Tommaso assicura che i santi risuscitati alla morte di Gesù Cristo morirono poi di nuovo per risuscitare ancora con lui; è l'opinione più seguita. Ma tutte queste opinioni sono assolutamente estranee alla morale; bisogna essere virtuosi, sia che i santi siano risuscitati due volte, sia che Dio li abbia risuscitati una volta sola. Il nostro simbolo venne formulato tardi, l'ammetto, ma la virtù esiste dall'eternità.
Se è lecito citare autori moderni in una materia tanto solenne, riferirei qui il Credo dell'abate di Saint-Pierre, come si trova scritto di sua mano nel suo libro sulla purezza della religione, libro che non è stato pubblicato, ma che io ho fedelmente ricopiato.
«Io credo in un solo Dio, e lo amo. Credo che egli illumini ogni anima che viene al mondo, come dice san Giovanni: intendo dire ogni anima che lo cerchi in buona fede.
«Io credo in un solo Dio, perché non può esservi che una sola anima del gran tutto, un solo essere che lo vivifica, un unico artefice.
«Io credo in Dio, padre onnipotente, perché egli è padre comune della natura e di tutti gli uomini che sono egualmente suoi figli. Io credo che colui che li fa nascere tutti in egual modo, che ha combinato il meccanismo della nostra vita nella stessa maniera, che ha dato loro gli stessi principi di una morale la quale può essere da loro scoperta non appena riflettano, non abbia posto nessuna differenza tra i suoi figli, fuorché quella tra il crimine e la virtù.
«Io credo che il cinese giusto e generoso sia per lui più prezioso di un dottore europeo puntiglioso e arrogante.
«Io credo che, essendo Dio nostro padre comune, noi dobbiamo considerare tutti gli uomini nostri fratelli.
«Io credo che il persecutore sia un uomo abominevole, e che venga subito dopo l'avvelenatore e il parricida.
«Io credo che le dispute teologiche siano a un tempo la farsa più ridicola e il flagello più orribile della terra, subito dopo la guerra, la peste, la carestia e la sifilide.
«Io credo che gli ecclesiastici debbano essere pagati, e pagati bene, come servi del pubblico, precettori di morale, depositari dei registri dei nati e dei morti; ma che non si debba dar loro la ricchezza dei grandi appalti delle imposte, né il rango di principi, perché l'una cosa e l'altra corrompono l'anima; e nulla è più rivoltante che il vedere uomini così ricchi e superbi far predicare l'umiltà e l'amore della povertà da persone che han solo cento scudi di salario l'anno.
«Io credo che tutti i preti che amministrano una parrocchia debbano essere sposati, non solo per avere al fianco una donna onesta che prenda cura della loro casa, ma per essere migliori cittadini, dare buoni sudditi allo Stato, e avere molti figli bene educati.
«Io credo che sia necessario estirpare i monaci; si renderebbe un gran servizio alla patria e a loro stessi; sono uomini che Circe mutò in porci; il saggio Ulisse deve rendere loro la forma umana.»
Il paradiso agli uomini che fanno il bene!
CRISTIANESIMO, RICERCHE STORICHE SUL CRISTIANESIMO
Molti studiosi si son dichiarati sorpresi di non trovare nello storico Giuseppe alcuna traccia di Gesù Cristo, poiché oggi tutti convengono che il breve passo dove se ne fa menzione nella sua Storia, è un'interpolazione. Il padre di Giuseppe, tuttavia, doveva essere stato uno dei testimoni di tutti i miracoli di Gesù. Giuseppe era di stirpe sacerdotale, parente della regina Mariamne, moglie di Erode; egli si diffonde in mille particolari su tutte le azioni di quel principe; tuttavia non dice una parola né della vita né della morte di Gesù. E questo storico, che non dissimula nessuna delle crudeltà di Erode, non parla affatto del massacro di tutti i bambini da lui ordinato subito dopo avere appreso la notizia che era nato il re dei giudei. Il calendario greco parla di quattordicimila bambini sgozzati in tale occasione.
Questa, di tutte le azioni compiute da tutti i tiranni, è la più atroce. Non ne esistono di simili nella storia del mondo intero.
Eppure, il migliore scrittore che mai abbiano avuto gli ebrei, il solo stimato dai romani e dai greci, non fa menzione di questo avvenimento tanto singolare quanto spaventoso. Egli non parla nemmeno della nuova stella apparsa in oriente dopo la nascita del Salvatore: fenomeno straordinario, che non poteva sfuggire a uno storico così bene informato come Giuseppe. E tace anche delle tenebre che per tre ore, in pieno giorno, avvolsero la terra, alla morte del Salvatore; e della grande quantità di tombe che si spalancarono in quel momento e della folla di giusti che risuscitarono.
Gli studiosi non finiscono di stupirsi nel vedere che nessuno storico romano ha parlato di questi prodigi, avvenuti sotto l'impero di Tiberio, sotto gli occhi di un governatore romano e di una guarnigione romana, che doveva avere inviato all'imperatore e al senato un rapporto circostanziato del più miracoloso evento di cui gli uomini abbiano mai sentito parlare. Roma stessa doveva essere rimasta immersa per tre ore nelle tenebre più fitte; un tale prodigio avrebbe dovuto essere registrato nei fasti di Roma e in quelli di tutte le nazioni. Dio non ha voluto che queste cose divine fossero scritte da mani profane.
Gli stessi studiosi trovano inoltre parecchie difficoltà nella storia dei Vangeli: osservano che, in quello di Matteo, Gesù Cristo dice agli scribi e ai farisei che tutto il sangue innocente versato sulla terra dovrà ricadere su di loro, dal sangue di Abele il giusto, fino a Zaccaria, figlio di Barac, che essi hanno ucciso tra il tempio e l'altare.
Nella storia degli ebrei, dicono, non v'è traccia di alcuno Zaccaria ucciso nel tempio prima della venuta del Messia, né ai suoi tempi; uno Zaccaria compare invece nella storia dell'assedio di Gerusalemme, scritta da Giuseppe (capitolo XIX, libro IV); si tratta di Zaccaria, figlio di Barac, ucciso nel tempio dalla fazione degli zeloti. Perciò costoro sospettano che il Vangelo secondo Matteo sia stato scritto dopo la conquista di Gerusalemme da parte di Tito. Ma tutti i dubbi e tutte le obiezioni di questa specie svaniscono se si considera l'infinita differenza che deve intercorrere tra i libri ispirati da Dio e i libri degli uomini. Dio ha voluto avvolgere la sua nascita, la sua vita e la sua morte in una nube tanto venerabile quanto oscura. Le sue vie sono del tutto diverse dalle nostre.
Gli studiosi si sono anche molto agitati sulla differenza fra le due genealogie di Gesù: san Matteo dà come padre a Giuseppe, Giacobbe; a Giacobbe, Mathan; a Mathan, Eleazaro. San Luca, invece, dichiara che Giuseppe era figlio di Eli; Eli, di Mattat; Mattat, di Levi; Levi di Jannai ecc... Essi non sanno conciliare i cinquantasei antenati che Luca attribuisce a Gesù, da Abramo in poi, con i quarantadue antenati diversi da quelli che Matteo gli attribuisce, sempre da Abramo in poi. E sono scandalizzati che Matteo, pur parlando di quarantadue generazioni, ne elenchi poi soltanto quarantuno.
Trovano inoltre altre difficoltà nel fatto che Gesù non è figlio di Giuseppe, ma di Maria. Cosi pure avanzano dubbi sui miracoli del nostro Salvatore, citando sant'Agostino, sant'Ilario e altri i quali attribuiscono ai racconti di questi miracoli un senso mistico, un senso allegorico: come a quello del fico maledetto e inaridito perché non aveva frutti, non essendo la stagione dei fichi; dei demoni inviati nei corpi dei maiali, in un paese dove non si allevavano maiali; dell'acqua mutata in vino alla fine di un banchetto, quando i convitati dovevano averne già bevuto anche troppo. Ma tutte queste critiche degli studiosi sono confuse dalla fede, la quale proprio per questo ne acquista in purezza. Lo scopo di questo articolo è soltanto quello di seguire il filo storico, e di dare un'idea precisa dei fatti sui quali nessuno disputa.
Anzitutto, Gesù nacque sotto la legge giudaica, fu circonciso secondo questa legge, ne seguì tutti i precetti, ne celebrò tutte le feste, e predicò soltanto la morale; non rivelò il mistero della sua incarnazione; non disse mai agli ebrei di essere nato da una vergine; ricevette la benedizione di Giovanni nell'acqua del Giordano (cerimonia cui si sottoponevano molti ebrei), ma non battezzò mai nessuno; non parlò mai dei sette sacramenti, e, finché visse, non istituì nessuna gerarchia ecclesiastica. Nascose ai suoi contemporanei di essere figlio di Dio, generato ab aeterno, consustanziale a Dio, e che lo Spirito Santo procedeva dal Padre e dal Figlio. Non disse mai che la sua persona era composta di due nature e di due volontà; volle che questi grandi misteri fossero annunciati agli uomini nel corso dei tempi, da coloro che sarebbero stati illuminati dalla luce dello Spirito Santo. Finché visse, non si discostò in nulla dalla religione dei suoi padri: si manifestò agli uomini come un giusto, caro a Dio, perseguitato dagli invidiosi e condannato a morte da magistrati ottusi. Volle che la sua Santa Chiesa, istituita da lui, facesse tutto il resto.
Giuseppe, nel capitolo XII della sua Storia, parla di una setta di ebrei rigoristi da poco fondata da un certo Giuda galileo: «Essi disprezzano i mali della terra; trionfano dei tormenti con la loro costanza; preferiscono la morte alla vita, quando la causa è onorevole. Hanno sofferto il ferro e il fuoco, si son fatti spezzare le ossa, piuttosto di pronunziare la minima parola contro il loro legislatore, o di mangiare carni vietate.»
Sembra che questo passo si riferisca ai giudaiti, e non agli esseni. Dice infatti lo stesso Giuseppe: «Giuda fu il fondatore di una nuova setta, del tutto diversa dalle altre tre, cioè da quella dei sadducei, dei farisei e degli esseni.» E ancora: «Essi sono stirpe ebrea: vivono uniti tra loro e considerano il piacere fisico come un vizio.» Il senso naturale di questa frase dimostra che Giuseppe ci parla dei giudaiti.
Comunque sia, questi giudaiti erano già noti prima che i discepoli del Cristo cominciassero a costituire nel mondo un partito considerevole.
I terapeuti erano una comunità diversa dagli esseni e dai giudaiti: somigliavano ai gimnosofisti delle Indie e ai brahmani. «Costoro,» dice Filone, «sentono un impulso d'amore celeste che li getta nell'entusiasmo delle baccanti e dei coribanti, e che li mette nello stato di contemplazione cui aspirano. Questa setta ebbe origine in Alessandria, dove gli ebrei erano numerosissimi, e si diffuse molto in Egitto.»
I discepoli di Giovanni Battista si diffusero anch'essi in Egitto, ma soprattutto in Siria e in Arabia; e ce ne furono anche nell'Asia minore. Negli Atti degli Apostoli (cap. XIX) è detto che Paolo ne incontrò parecchi a Efeso, e domandò loro: «Avete ricevuto lo Spirito Santo?» Essi risposero: «Ma non abbiamo neppur sentito dire che esista uno Spirito Santo.» Egli disse loro: «Con quale battesimo foste dunque battezzati?» Ed essi gli risposero: «Col battesimo di Giovanni.»
Nei primi anni dopo la morte di Gesù c'erano sette società o sètte diverse: i farisei, i sadducei, gli esseni, i giudaiti, i terapeuti, i discepoli di Giovanni e i discepoli di Cristo, di cui Dio guidava il piccolo gregge per sentieri sconosciuti alla sapienza umana.
Colui che maggiormente contribuì a fortificare questa società nascente fu quello stesso Paolo che con tanta crudeltà l'aveva perseguitata. Era nato a Tarso, in Cilicia, educato dal famoso dottore fariseo, Gamaliele, discepolo di Hillèl. Gli ebrei pretendono che egli ruppe con Gamaliele quando costui si rifiutò di dargli sua figlia in sposa. Si trova qualche traccia di questo aneddoto in fondo agli Atti di santa Tecla. Questi Atti riferiscono che egli aveva la fronte larga, la testa calva , le sopracciglia unite, il naso aquilino, il corpo corto e robusto, e le gambe storte. Luciano, nel suo Dialogo di Filopatride, ne fa un ritratto abbastanza simile. È assai dubbio che Paolo fosse cittadino romano, perché a quei tempi non si concedeva quel titolo a nessuno degli ebrei; essi erano stati cacciati da Roma da Tiberio, e Tarso divenne colonia romana solo cent'anni dopo sotto Caracalla, come riferiscono Cellario nella sua Geografia (libro III), e Grozio nei suoi Commentari sugli Atti.
I fedeli presero il nome di cristiani in Antiochia, verso l'anno 60 della nostra era, ma furono conosciuti nell'impero romano, come vedremo più in là, sotto altri appellativi. Prima si distinguevano solo con il nome di «fratelli», «santi» o «fedeli». Dio, che era sceso sulla terra per offrire un esempio di umiltà e di povertà, diede così alla sua Chiesa i più deboli inizi, e la diresse in quello stesso stato di umiliazione nel quale aveva voluto nascere. Tutti i primi fedeli furono uomini oscuri, tutti lavoravano con le loro mani. L'apostolo Paolo afferma che si guadagnava la vita fabbricando tende. San Pietro risuscitò una donna, Dorcas, che cuciva le vesti dei confratelli. L'assemblea dei fedeli a loppe (Giaffa) si teneva nella casa di un conciatore chiamato Simone, come è detto nel capitolo IX degli Atti degli Apostoli.
I fedeli si diffusero in segreto attraverso la Grecia, e qualcuno di lì passò a Roma, fra i giudei, cui i romani permettevano di avere una sinagoga. Sulle prime, non si separarono dagli ebrei; conservarono la circoncisione e, come si è già osservato altrove, i primi quindici vescovi di Gerusalemme furono tutti circoncisi.
Quando l'apostolo Paolo prese con sé Timoteo, che era di padre pagano, lo circoncise lui stesso, nella piccola città di Listra. Ma Tiro, altro suo discepolo, non volle sottomettersi alla circoncisione. I fratelli discepoli di Gesù restarono uniti agli ebrei sino al tempo in cui Paolo subì una persecuzione a Gerusalemme per aver condotto degli stranieri nel tempio. Era accusato dai giudei di voler distruggere la legge mosaica in nome di Gesù Cristo. Fu proprio perché fosse scagionato da questa accusa che l'apostolo Giacomo propose all'apostolo Paolo di farsi rasare il capo e di andare a purificarsi nel tempio con quattro giudei, che avevano fatto voto di radersi: «Prendili con te,» gli disse Giacomo (Atti degli Apostoli, cap. XXI), «e fatti purificare con loro. In tal modo tutti capiranno che nessuna delle notizie apprese nei tuoi riguardi è vera, ma che anche tu cammini nell'osservanza della legge.»
Così Paolo, che da principio era stato il sanguinario persecutore della comunità fondata da Gesù, Paolo, che volle poi governare quella stessa comunità nascente, Paolo, cristiano, giudaizza, perché tutti sappiamo che lo si calunnia, quando si dice che è cristiano; Paolo fa ciò che è considerato, oggi, fra tutti i cristiani, un delitto abominevole, un crimine che viene punito col rogo in Spagna, in Portogallo e in Italia; e fa questo per consiglio dell'apostolo Giacomo; e dopo aver ricevuto lo Spirito Santo, ossia dopo essere stato istruito da Dio della necessità di rinunciare a tutti quei riti giudaici istituiti un tempo da Dio stesso!
Ciò nonostante Paolo fu accusato d'empietà e d'eresia e il suo processo durò a lungo; ma, dalle stesse accuse rivolte contro di lui, risulta chiaro che era venuto a Gerusalemme per osservare i riti giudaici.
Egli disse a Festo queste precise parole (cap. XXV degli Atti): «Non ho commesso alcun reato, né contro la legge dei Giudei, né contro il tempio.»
Gli apostoli annunciavano Gesù come giudeo, osservante della legge ebraica, inviato da Dio per farla rispettare.
«La circoncisione è utile,» dice l'apostolo Paolo (cap. II, Epistola ai Romani), «Se voi osservate la legge; ma se la trasgredite, la vostra circoncisione diventa incirconcisione. Se un incirconciso osserva la legge, sarà come circonciso. Il vero giudeo è colui che è giudeo interiormente.»
Quando questo apostolo parla di Gesù nelle sue Epistole, non rivela affatto il mistero ineffabile della sua consustanzialità con Dio: «Noi siamo liberati per mezzo suo,» dice (Epistola ai Romani, cap. V), «dalla collera di Dio. Per la grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, il dono di Dio si è riversato su di noi... La morte ha regnato per colpa di uno solo; i giusti regneranno nella vita in grazia di un solo uomo, che è Gesù Cristo.»
E, nel capitolo VIII: «Noi, eredi di Dio, e coeredi di Cristo.»
E nel capitolo XVI: «A Dio, che è il solo saggio, onore e gloria attraverso Gesù Cristo.» E: «Voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (I Epistola ai Corinzi, cap. III).
E infine (I Corinzi, cap. XV, v. 27) «Tutto gli è sottoposto, salvo indubbiamente Dio, il quale ha assoggettato a lui ogni cosa.»
Si è provata qualche difficoltà nello spiegare questo passaggio della Epistola ai Filippesi: «Non fate nulla per rivalità, nulla per vanagloria; ma con umiltà ciascuno ritenga gli altri migliori di sé; abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù che pure avendo natura di Dio, non giudicò sua rapina l'eguagliarsi a Dio.» Questo passo risulta perfettamente approfondito e messo in piena luce in una lettera delle chiese di Vienne e di Lione, scritta nel 117, prezioso monumento dell'antichità. In questa lettera è lodata la modestia di alcuni fedeli: «Essi non hanno voluto prendere, per qualche tribolazione patita, il gran titolo di martiri, sull'esempio di Gesù Cristo che, pur avendo natura di Dio, non reputò sua rapina la qualità di essere eguale a Dio.» Anche Origene dice, nel suo Commento a Giovanni, che la grandezza di Gesù tanto più rifulse quando egli si umiliò, tanto più «che se avesse fatto sua rapina d'essere uguale a Dio». D'altra parte, la spiegazione contraria sarebbe un evidente controsenso. Che mai significherebbe: «Credete gli altri superiori a voi, imitate Gesù, il quale non reputò una rapina, un'usurpazione, l'eguagliarsi a Dio»? Sarebbe evidentemente una contraddizione voler presentare un esempio di superbia per un esempio di modestia: sarebbe peccare contro il senso comune.
La saggezza degli apostoli fondava su tali basi la Chiesa nascente. E questa saggezza non venne alterata dalla disputa sopravvenuta poi tra gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, da un lato, e Paolo, dall'altro. Tale contrasto avvenne in Antiochia. L'apostolo Pietro, detto altrimenti Cefa o Simone figlio di Giona, mangiava con i gentili convertiti, e non osservava con loro le cerimonie della legge, né la distinzione delle carni; lui, Barnaba e altri discepoli mangiavano indifferentemente carne di maiale o di animali strozzati o di animali che avevano l'unghia del piede fessa e non ruminavano; ma essendo arrivati diversi ebrei cristiani, san Pietro tornò con loro all'astinenza delle carni proibite e alle cerimonie della legge mosaica.
Questa azione sembrava molto prudente: non voleva scandalizzare gli ebrei cristiani suoi compagni; ma san Paolo insorse contro di lui con una certa durezza. «Io gli resistetti,» dice nella sua Epistola ai Galati (cap. II), «perché il suo comportamento era biasimevole.»
Questa disputa sembra tanto più straordinaria da parte di san Paolo, in quanto, essendo stato dapprima un persecutore dei cristiani, avrebbe dovuto essere più moderato, e in quanto lui stesso si era recato a sacrificare nel tempio a Gerusalemme, aveva circonciso il suo discepolo Timoteo, e aveva compiuto quei riti ebraici che ora rimproverava a Cefa. San Girolamo sostiene che quella lite fra Paolo e Cefa era finita. Egli dice nella prima delle sue Omelie, tomo III, che essi fecero come due avvocati che si scaldano e si tirano stoccate in tribunale per avere maggiore autorità sui loro clienti; e che, Pietro Cefa essendo destinato a predicare agli ebrei e Paolo ai gentili, finsero di litigare, Paolo per conquistare i gentili, e Pietro gli ebrei. Ma sant'Agostino non è affatto di questo avviso: «Mi dispiace,» scrive nella sua Epistola a Gerolamo, «che un così grande uomo si faccia patrono della menzogna, patronum mendacii.»
Del resto, se Pietro era destinato agli ebrei giudaizzanti e Paolo agli stranieri, è assai probabile che Pietro non sia mai venuto a Roma. Gli Atti degli Apostoli non fanno nessuna menzione del suo viaggio in Italia.
Comunque, fu verso l'anno 60 della nostra era che i cristiani cominciarono a separarsi dalla comunione giudaica; e questo attirò su di loro una quantità di dispute e persecuzioni da parte delle sinagoghe diffuse a Roma, in Grecia, nell'Egitto e nell'Asia. Essi furono accusati d'empietà, di ateismo dai loro fratelli ebrei, che li scomunicavano nelle loro sinagoghe tre volte ogni sabato. Ma Dio li sostenne sempre in mezzo alle persecuzioni.
A poco a poco, si costituirono molte Chiese e la separazione tra ebrei e cristiani divenne completa. Tale separazione era ignorata dal governo romano. Il senato di Roma e gli imperatori non si interessavano alle dispute di una piccola setta che Dio aveva finora guidato nell'oscurità e che andava elevando per gradi insensibili.
Bisogna vedere in quale stato era allora la religione dell'impero romano. I misteri e le pratiche espiatorie erano accreditati in quasi tutto il mondo. Gli imperatori, è vero, i grandi e i filosofi non avevano nessuna fede in quei misteri; ma il popolo che, in fatto di religione, detta legge ai grandi, imponeva loro la necessità di conformarsi in apparenza al suo culto. Per incatenarlo, bisognava fingere di portare le sue stesse catene. Anche Cicerone fu iniziato ai misteri di Eleusi. La conoscenza di un solo Dio era il principale dogma che si annunziava in quelle feste misteriose e magnifiche. Va detto che le preghiere e gli inni di quei misteri, che ci sono pervenuti, sono quanto il paganesimo ha di più sentito e di più ammirabile.
Ai cristiani, che adoravano anch'essi un solo Dio, fu assai più facile convertire molti gentili. Alcuni filosofi della setta di Platone si fecero cristiani. Ecco perché i Padri della Chiesa dei primi tre secoli furono tutti platonici.
Lo zelo sconsiderato di alcuni non nocque affatto alle verità fondamentali. Fu rimproverato a Giustino, uno dei primi Padri, di avere scritto, nel suo Commento a Isaia, che i santi avrebbero goduto, in un regno di mille anni sulla terra, di tutti i piaceri dei sensi. Fu giudicato delittuoso l'aver detto, nella sua Apologia dei cristianesimo, che Dio, creato il mondo, ne lasciò la cura agli angeli, i quali, essendosi innamorati delle donne, ebbero da loro dei figli, che sono i demoni.
Furono condannati Lattanzio e altri Padri per avere accreditato certi oracoli delle Sibille. Lattanzio pretendeva che la Sibilla eritrea avesse composto questi quattro versi greci, di cui ecco la traduzione letterale:
Con cinque pani e due pesci
Nutrirà cinquemila uomini nel deserto;
e, raccogliendone gli avanzi che resteranno,
ne riempirà dodici panieri.
Ai primi cristiani venne anche rimproverato di essersi attribuiti alcuni versi acrostici di un'antica Sibilla, i quali cominciavano tutti con le lettere iniziali del nome di Gesù Cristo, ciascuna nel suo ordine. Si rimproverava loro di avere inventato l'esistenza di lettere di Gesù al re di Edessa nel tempo in cui non c'era nessun re ad Edessa, e lettere di Maria, lettere di Seneca a Paolo, lettere e atti di Pilato, falsi vangeli, falsi miracoli e mille altre imposture.
Abbiamo ancora la storia o il Vangelo della natività e del matrimonio della Vergine Maria ove è detto che, condotta al tempio all'età di tre anni, ne salì la scala da sola; vi è riferito che una colomba scese dal cielo per annunziare che Giuseppe doveva sposare Maria. Abbiamo il protovangelo di Giacomo, fratello di Gesù, nato da un primo matrimonio di Giuseppe. Vi è detto che, quando Maria rimase incinta durante l'assenza del marito e questi se ne lamentò, i sacerdoti fecero bere all'uno e all'altra l'acqua della gelosia e che tutti e due furono dichiarati innocenti.
Abbiamo il Vangelo dell'infanzia, attribuito a san Tommaso. Secondo questo Vangelo, Gesù, all'età di cinque anni si divertiva con altri bambini della sua età a modellare l'argilla, con cui formava uccellini; ne fu rimproverato, ed egli allora diede vita a quegli uccellini, che volarono via. Un'altra volta Gesù, picchiato da un ragazzino, lo fece morire all'istante. Abbiamo inoltre, in arabo, un altro Vangelo dell'infanzia, che è più serio.
C'è, poi, un Vangelo di Nicodemo. Questo sembra meritare maggiore attenzione, perché vi si trovano i nomi di coloro che accusarono Gesù davanti a Pilato; erano i capi della sinagoga: Anna, Caifa, Summas, Datam, Gamaliele, Giuda, Nèftali. In questa storia ci sono cose che si conciliano abbastanza con i Vangeli canonici, e altre che non si trovano altrove. Vi si legge che l'emorroissa si chiamava Veronica; vi si trova, inoltre, tutto quello che Gesù fece nell'inferno, quando vi discese.
Possediamo poi le due lettere che Pilato avrebbe scritto a Tiberio a proposito del supplizio di Gesù; ma il cattivo latino in cui sono scritte ne rivela abbastanza chiaramente la falsità.
Si spinse il falso zelo fino a far circolare parecchie lettere di Gesù Cristo. È stata conservata la lettera che si dice egli abbia scritto ad Abgara, re di Edessa: ma allora non c'erano più re di Edessa!
Vennero fabbricati cinquanta Vangeli che furono, in seguito, dichiarati apocrifi. Lo stesso san Luca ci dà notizia di molte persone che ne avevano composti. Si credette che ce ne fosse uno chiamato Vangelo eterno, sulla base di quanto è detto nell'Apocalisse, capitolo XIV: «Ho visto un angelo che volando in mezzo al cielo, recava il Vangelo eterno.» I cordiglieri, travisando queste parole, composero nel XIII secolo un Vangelo eterno, secondo il quale il regno dello Spirito Santo doveva sostituire quello di Gesù Cristo; ma nei primi secoli della Chiesa, non comparve nessun libro recante questo titolo.
Si diffusero anche false lettere della Vergine, scritte a sant'Ignazio martire, agli abitanti di Messina e ad altri.
Abdìa, che succedette immediatamente agli apostoli, scrisse la loro storia, alla quale mescolò delle favole così assurde, che quelle storie finirono, col tempo, con l'essere interamente screditate; ma sulle prime esse ebbero grande diffusione. Fu Abdìa a riferire la lotta di san Pietro con Simone Mago. C'era infatti a Roma un meccanico abilissimo chiamato Simone, il quale non solo faceva eseguire voli agli attori nei teatri, come oggi, ma rinnovò lui stesso il prodigio attribuito a Dedalo: si fabbricò delle ali, volò e cadde come Icaro; è quanto riferiscono Plinio e Svetonio.
Abdìa, che viveva in Asia e scriveva in ebraico, pretende che san Pietro e Simone si siano incontrati a Roma ai tempi di Nerone. Un giovane, parente stretto dell'imperatore, morì; tutta la corte pregò Simone di risuscitarlo. San Pietro si presentò a sua volta per fare questa operazione. Simone impiegò tutte le regole della sua arte, e parve riuscire: il morto mosse la testa. «Non è abbastanza,» gridò san Pietro; «bisogna che il morto parli; che Simone si allontani dal letto, e si vedrà se questo giovane è in vita.» Simone si allontanò, il morto non si mosse più, e Pietro gli rese la vita con una sola parola.
Simone andò a lamentarsi dall'imperatore, che un miserabile galileo osava far prodigi più grandi dei suoi. Pietro comparve con Simone, e insieme gareggiarono a chi fosse superiore, ognuno nell'arte sua. «Dimmi che cosa penso,» disse Simone a Pietro. «Che l'imperatore mi dia un pane d'orzo,» replicò Pietro, «e vedrai se non so che cosa pensi.» Gli venne dato un pane. Subito Simone fece apparire due grossi cani che volevano divorare Pietro. Pietro gettò loro il pane, e mentre essi lo mangiavano, disse: «Ebbene, lo sapevo o no quel che stavi pensando? Tu volevi farmi divorare dai tuoi cani.»
Dopo questa prima prova, fu proposta a Simone e a Pietro la gara del volo, per vedere chi sarebbe salito più in alto. Simone cominciò, san Pietro si fece il segno della croce e Simone si ruppe le gambe. Questo racconto era imitato da quello che si trova nel Sepher toldos Jeschut, dove è detto che Gesù stesso volò e che Giuda, volendo fare altrettanto, precipitò al suolo.
Nerone, infuriato al pensiero che Pietro avesse fatto rompere le gambe al suo favorito Simone, fece crocifiggere Pietro a testa in giù; è da qui che si stabilì la credenza del soggiorno di Pietro a Roma, del suo supplizio e del suo sepolcro.
Fu ancora Abdìa a diffondere la credenza che san Tommaso andò a predicare il cristianesimo nelle Indie, presso il re Gondafer, e che vi andò in qualità di architetto.
La quantità di libri di questa specie scritti nei primi secoli del cristianesimo è prodigiosa. San Girolamo e lo stesso sant'Agostino pretendono che le lettere di Seneca a san Paolo siano assolutamente autentiche. Nella prima lettera, Seneca si augura che il suo fratello Paolo stia bene. «Bene te valere, frater, cupio.» Paolo non parla certo il bel latino di Seneca.
«Ho ricevuto ieri le vostre belle lettere,» dice, «con gioia. Litteras tuas hilaris accepi; avrei risposto subito, se fosse stato presente il giovine che vi avrei inviato: si praesentiam juvenis habuissem.» Del resto, tali lettere, che dovrebbero essere istruttive, contengono solo dei complimenti.
Tante menzogne fabbricate da cristiani male istruiti e animati da falso zelo non recarono nessun pregiudizio alla verità del cristianesimo, e non nocquero affatto alla sua diffusione; al contrario, ci fan vedere che la comunità cristiana aumentava di giorno in giorno e che ogni membro voleva contribuire al suo sviluppo.
Gli Atti degli Apostoli non dicono ch'essi fossero d'accordo su un Simbolo. Se avessero effettivamente redatto il Simbolo, il Credo, quale noi l'abbiamo, san Luca non avrebbe certo omesso nella sua storia questo fondamento essenziale della religione cristiana; la sostanza del Credo è sparsa nei Vangeli, ma gli articoli non furono riuniti che molto tempo dopo.
Il nostro Simbolo, in una parola, è incontestabilmente la credenza degli apostoli, ma non è un testo scritto da loro. Il primo che ne parla è Rufino, un prete di Aquileia; e un'omelia attribuita a sant'Agostino è il primo monumento che supponga il modo in cui fu composto questo Credo. Pietro dice nell'assemblea: Io credo in Dio padre onnipotente; Andrea dice: e in Gesù Cristo; Giacomo aggiunge: che è stato concepito dallo Spirito Santo; e così di seguito.
Tale formula si chiama $óýìâïëïí$, in greco, e collatio in latino. C'è solo da osservare che il greco dice: «Io credo in Dio padre onnipotente, che fece il cielo e la terra» $Ðéóôåýù åkò fíá žå'í ðáôÝñá ðáíôïêñÜôïñá, ðïéçôxí ïšñáíï(tm) êár ãyò$); e che il latino traduce $ ðïéçôxí$, «facitore», «formatore», con creatorem. Più tardi, al primo concilio di Nicea, si adottò factorem.
Il cristianesimo si stabilì dapprima in Grecia. Qui i cristiani ebbero da lottare contro una nuova setta di giudei, diventati filosofi a forza di frequentare i greci, la setta della Gnosi, o degli gnostici; ad essa si mescolarono molti nuovi cristiani. Tutte queste sette godevano allora della piena libertà di dogmatizzare, di parlare e di scrivere; però sotto Domiziano la religione cristiana cominciò a dare qualche ombra al governo.
Ma lo zelo di qualche cristiano, che non era secondo scienza, non impedì alla Chiesa di compiere i progressi che Dio le destinava. I cristiani celebrarono i loro misteri in case solitarie, in cantine, durante la notte; di qui (secondo Minucio Felice) fu dato loro il nome di lucifugaces. Filone li chiama gesseeni. I loro nomi più comuni nei primi quattro secoli, presso i gentili, erano quelli di galilei e di nazareni; ma il nome di cristiani prevalse su tutti gli altri.
Né la gerarchia né le pratiche rituali furono istituite tutte in una volta; i tempi apostolici furono differenti da quelli che li seguirono. San Paolo, nella sua I Lettera ai Corinzi, ci informa che, quando i fratelli, circoncisi o incirconcisi, erano riuniti, se parecchi profeti volevan parlare, solo due o tre potevano farlo; e che se qualcuno, nel frattempo, aveva una rivelazione, il profeta che aveva preso la parola doveva tacere.
È su questa usanza della Chiesa primitiva che si fondano ancora oggi alcune comunioni cristiane, che tengono assemblee senza gerarchia. Era permesso a tutti di parlare in chiesa, eccettuate le donne. È vero che Paolo proibisce loro di parlare, nella I Lettera ai Corinzi, ma nella stessa lettera, al capitolo XI, v. 5, sembra anche autorizzarle a predicare o profetizzare: «Ogni donna che prega o profetizza a capo scoperto, disonora il suo capo»; è come se essa fosse stata rasata. Le donne credettero che fosse loro permesso parlare, purché si coprissero il capo con un velo.
Quel che è oggi la santa messa, che si celebra al mattino, era la cena, che si teneva la sera; queste usanze cambiarono, via via che la Chiesa si consolidò. Una società più estesa esigeva più regolamenti, e la prudenza dei pastori si conformò ai tempi e ai luoghi.
San Girolamo ed Eusebio riferiscono che, quando le chiese ricevettero una forma precisa, vi si distinsero a poco a poco cinque ordini differenti: i sorveglianti, $dðßóêïðïé$, da cui sono venuti i nostri vescovi; gli anziani della società, $ðñåóâýôåñïé$, i preti; i $äéÜêïíïé$, cioè i servi e i diaconi; i $ðßóôïé$, o credenti, iniziati, vale a dire i battezzati, che prendevano parte alle cene dette «agapi»; e i catecumeni ed energumeni, che erano in attesa del battesimo. Nessuno, in questi cinque ordini, portava un abito diverso dagli altri; nessuno, come testimoniano il libro di Tertulliano dedicato a sua moglie, o l'esempio degli apostoli, era costretto al celibato. Nessuna rappresentazione, sia in pittura che in scultura, nelle loro assemblee durante i primi tre secoli. I cristiani nascondevano accuratamente i loro libri ai gentili; non li confidavano che agli iniziati, non era nemmeno permesso ai catecumeni di recitare l'orazione domenicale.
Quel che distingueva soprattutto i cristiani e che è durato sino al nostri tempi, era il potere di cacciare i demoni con il segno della croce. Origene, nel suo trattato Contro Celso ($êNôá ÊÝëóïí$), al paragrafo 133, ammette che Antinoo, divinizzato dall'imperatore Adriano, faceva miracoli in Egitto, in virtù di incanti e sortilegi; ma dice che i diavoli uscivano dai corpi degli ossessi solo se si pronunziava il nome di Gesù.
Tertulliano va oltre e, dal fondo dell'Africa dove abitava, dice, nel suo Apologeticum, capitolo XXIII: «Se i vostri dei non confessano, davanti a un vero cristiano, di essere dei diavoli, noi consentiamo che voi spargiate il sangue di questo cristiano.» C'è una dimostrazione più chiara di questa?
Di fatto, Gesù Cristo inviò i suoi apostoli per cacciare i demoni. Anche gli ebrei avevano in quel tempo il dono di cacciarli, perché, quando Gesù ebbe liberato degli ossessi mandando i diavoli nei corpi di una mandria di porci, ed ebbe operato altre guarigioni simili, i farisei dissero: «Egli caccia i demoni con la potenza di Belzebù.» «Ma se io li caccio in nome di Belzebù,» replicò Gesù, «in nome di chi li cacciano i vostri figli?» È incontestabile che i giudei si vantavano di questo potere; avevano esorcisti ed esorcismi. Si invocava il nome del Dio di Giacobbe e di Abramo; si mettevano nel naso degli indemoniati erbe consacrate (Giuseppe riferisce una parte di queste pratiche). Questo potere sui diavoli, che i giudei hanno perduto, fu trasmesso ai cristiani, i quali, da un po' di tempo in qua, sembrano averlo anche loro.
Nel potere di cacciare i demoni era compreso quello di distruggere le operazioni di magia: perché la magia fu sempre in vigore in tutte le nazioni. Tutti i Padri della Chiesa attestano l'esistenza della magia. San Giustino, nel libro III della sua Apologia, conferma che spesso si evocano le anime dei morti, e ne trae un argomento in favore dell'immortalità dell'anima. Lattanzio, nel libro VII delle sue Divinae institutiones, dice che «se si osasse negare l'esistenza delle anime dopo la morte, il mago vi convincerebbe subito del contrario, facendole apparire». Ireneo, Clemente Alessandrino, Tertulliano, il vescovo Cipriano, affermano tutti la medesima cosa. È vero che oggi tutto è cambiato, e che non ci sono più né maghi, né indemoniati; ma se ne troverà, quando piacerà a Dio.
Quando le comunità cristiane divennero un po' numerose e parecchie si opposero al culto dell'impero romano, i magistrati infierirono contro di esse, e il popolo soprattutto le perseguitò. Non si perseguitavano i giudei, che avevano dei privilegi particolari e se ne stavano chiusi nelle loro sinagoghe; si permetteva loro l'esercizio della loro religione, come si fa ancora oggi a Roma; tutti i culti diffusi nell'impero erano consentiti, anche se il senato non li adottava.
Ma i cristiani, dichiarandosi nemici di tutti questi culti, e soprattutto di quello dell'impero, furono sottoposti più volte a prove crudeli.
Uno dei primi e più noti martiri fu Ignazio, vescovo d'Antiochia, condannato dallo stesso imperatore Traiano, allora in Asia, e inviato per suo ordine a Roma per essere esposto alle belve, in un momento in cui non si massacravano a Roma altri cristiani. Non si sa di che cosa fosse accusato da quell'imperatore, rinomato d'altronde per la sua clemenza: è certo che sant'Ignazio ebbe nemici molto accaniti. Comunque sia, la storia del suo martirio riferisce che gli si trovò inciso sul cuore, in caratteri d'oro, il nome di Gesù Cristo; per questo i cristiani presero in certi paesi il nome di «teofori», che Ignazio si era dato.
Ci è stata conservata una sua lettera, nella quale egli prega i vescovi e gli altri cristiani di non opporsi al suo martirio, sia che sin da allora i cristiani fossero abbastanza potenti per liberarlo, sia che qualcuno fra loro godesse di tanto credito da ottenergli la grazia. Va notato, in particolare che fu permesso ai cristiani di Roma di andargli incontro, quando fu condotto nella capitale: e questo prova chiaramente che in lui si puniva la persona, non la setta.
Le persecuzioni non furono continue. Origene, nel suo libro III Contro Celso, dice: «Si possono facilmente contare i cristiani morti per la loro religione, perché ne sono morti pochi e solo di tanto in tanto, a intervalli.»
Dio ebbe sì gran cura della sua Chiesa, che, malgrado i suoi nemici, fece in modo che essa potesse tenere cinque concili (vale a dire assemblee tollerate) nel primo secolo, sedici nel secondo e trenta nel terzo. Queste assemblee vennero qualche volta proibite, quando la falsa prudenza dei magistrati temette che dessero luogo a tumulti. Ci sono rimasti pochi processi verbali dei proconsoli e dei pretori che condannarono i cristiani a morte: sarebbero i soli atti che permetterebbero di constatare le accuse mosse contro di loro, e i loro supplizi.
Abbiamo un frammento di Dionigi d'Alessandria, nel quale egli riporta l'estratto di un verbale di un proconsole in Egitto, sotto l'imperatore Valeriano; eccolo:
Introdotti in udienza Dionigi, Fausto, Massimo, Marcello e Cheremone, il prefetto disse loro: «Voi avete potuto conoscere, dai colloqui che ho avuto con voi e da tutto quello che vi ho scritto, quanto i nostri governanti abbiano mostrato bontà nei vostri riguardi; voglio ancora ripetervelo: essi fanno dipendere la vostra conservazione e la vostra salvezza da voi stessi e il vostro destino è nelle vostre mani. Da voi chiedono una sola cosa, che la ragione esige da ogni persona ragionevole: che voi adoriate gli dei protettori dell'impero, e che abbandoniate quest'altro culto così contrario alla natura e al buon senso.»
Dionigi rispose: «Non tutti hanno gli stessi dei, e ognuno adora quelli che crede veramente tali.»
Il prefetto Emiliano replicò: «Vedo bene che siete degli ingrati, che abusate della bontà che gli imperatori mostrano per voi. Ebbene! voi non potrete più rimanere in questa città, e io vi mando a Cefro, in fondo alla Libia: là resterete in esilio, secondo l'ordine che ho ricevuto dai nostri imperatori; del resto, non pensare di tenerci le vostre assemblee, né di andare a recitare le vostre preghiere in quei luoghi che chiamate cimiteri: questo vi è assolutamente proibito, e io non lo permetterò a nessuno.»
Niente presenta, come questo processo verbale, i caratteri della verità. Da esso si vede che vi furono tempi in cui le assemblee erano proibite. Così oggi, fra noi, è proibito ai calvinisti di riunirsi in Linguadoca; talvolta, anzi, abbiamo fatto impiccare o arrotare i loro ministri o predicatori che tenevano riunioni contro la legge. Così in Inghilterra e in Irlanda le assemblee sono proibite ai cattolici romani; ci furono casi in cui i trasgressori furono condannati a morte.
Nonostante questi divieti imposti delle leggi romane, Dio ispirò a molti imperatori indulgenza verso i cristiani. Lo stesso Diocleziano, che presso gli ignoranti passa per un persecutore, Diocleziano, il cui primo anno di regno segna il principio dell'era dei martiri, fu per più di diciotto anni protettore dichiarato del cristianesimo, al punto che molti cristiani ebbero cariche importanti presso la sua persona. Egli permise persino che a Nicomedia, sua residenza, vi fosse una superba chiesa innalzata di fronte al suo palazzo; inoltre, sposò una cristiana.
Il cesare Galerio, malauguratamente - e, a suo parere, giustamente - prevenuto verso i cristiani, esortò Diocleziano a far distrugger la cattedrale di Nicomedia. Un cristiano, più zelante che saggio, lacerò l'editto dell'imperatore; e di qui nacque quella persecuzione tanto famosa, nella quale più di duecento persone vennero messe a morte in tutto l'impero romano, senza contare quelli che il furore del popolino, sempre fanatico e sempre barbaro, poté far morire contro le forme giuridiche.
Vi fu, in tempi diversi, un così gran numero di martiri, che bisogna star bene attenti a non intaccare l'autorità della storia di questi autentici confessori della nostra santa religione con un pericoloso miscuglio di favole e di falsi martiri.
Il benedettino don Ruinart, per esempio, uomo d'altronde tanto istruito quanto stimabile e zelante, avrebbe dovuto scegliere con maggior discrezione i suoi Acta primorum martyrorum sincera et selecta. Non è sufficiente che un manoscritto provenga dall'abbazia di Saint-Benôit-sur-Loire o da un convento dei celestini a Parigi, conforme a un manoscritto dei foglianti, perché questo «atto» sia autentico: bisogna che sia antico, scritto da contemporanei, e che presenti inoltre tutti i caratteri della verità.
Don Ruinart avrebbe potuto fare a meno, per esempio, di riferire l'avventura del giovane Romano, accaduta nel 303. Il giovane in questione aveva ottenuto il perdono di Diocleziano in Antiochia; tuttavia Ruinart dice che il giudice Asclepiade lo condannò ad essere bruciato. Alcuni ebrei presenti a questo spettacolo schernirono il giovane san Romano e rinfacciarono ai cristiani che il loro dio li lasciava bruciare, mentre il dio degli ebrei aveva liberato Sidrac, Misac e Abdenago dalla fornace; ma ecco levarsi, in pieno sole, un temporale che spense il fuoco. Allora il giudice ordinò che al giovane Romano venisse tagliata la lingua. Il primo medico dell'imperatore, trovandosi là, assolse la funzione di boia, e gli tagliò la lingua alla radice; subito il giovane, che prima era balbuziente, si mise a parlare normalmente: l'imperatore restò sbalordito al sentir parlare così bene senza lingua; e il medico, per ripetere l'esperienza, tagliò in quattro e quattr'otto la lingua a un passante che ne morì di colpo.
Eusebio, dal quale il benedettino Ruinart ha tratto questo racconto, avrebbe dovuto rispettare abbastanza i miracoli dell'Antico e del Nuovo Testamento (dei quali nessuno dubiterà mai) e non associarli a storie così sospette che potrebbero scandalizzare le fedi deboli.
Quest'ultima persecuzione non si estese a tutto l'impero.
C'erano allora in Inghilterra manifestazioni di cristianesimo, che presto si spensero per riaccendersi poi sotto i re sassoni. La Gallia meridionale e la Spagna pullulavano di cristiani. Il cesare Costanzo Cloro li protesse molto in tutte queste province. Egli aveva una concubina che era cristiana: è la madre di Costantino, conosciuta sotto il nome di sant'Elena. Non ci fu mai tra loro un regolare matrimonio; anzi, nel 292 egli la ripudiò e sposò la figlia di Massimiano Ercole; ma Elena aveva conservato su di lui un forte ascendente e gli aveva ispirato un grande rispetto per la nostra santa religione.
La divina Provvidenza preparò, per vie che sembrano umane, il trionfo della sua Chiesa. Costanzo Cloro morì nel 306 a York in Inghilterra, in un tempo in cui i figli che aveva avuto dalla figlia di un cesare erano ancora in tenera età e non potevano quindi pretendere di governare l'impero. Costantino ebbe il coraggio di farsi eleggere a York da cinque o seimila soldati, per la maggior parte germanici, galli e inglesi. Sembrava poco probabile che una tale elezione, fatta senza il consenso di Roma, del Senato e delle legioni, potesse essere valida; ma Dio gli diede la vittoria su Massenzio, eletto a Roma, e lo liberò poi da tutti i suoi colleghi. Non si può tacere che sulle prime Costantino si rese indegno dei favori celesti; infatti assassinò tutti i suoi congiunti, sua moglie e suo figlio.
Si può dubitare di ciò che riferisce Zosimo in proposito. Egli dice che Costantino, agitato dai rimorsi dopo tanti delitti, domandò ai pontefici dell'impero se ci fossero espiazioni per lui, e quelli gli risposero che non ne conoscevano. È ben vero che non ce n'erano state neanche per Nerone, il quale non aveva osato assistere ai sacri misteri in Grecia. Eppure erano in uso i tauroboli, ed è assai difficile credere che un imperatore onnipotente non abbia potuto trovare un sacerdote che volesse accordargli sacrifici espiatori. Forse è ancora meno credibile che Costantino, tutto preso dalla guerra, dalla sua ambizione, dai suoi progetti, e circondato da adulatori, abbia trovato il tempo di provare rimorsi. Zosimo aggiunge che un sacerdote egiziano, arrivato dalla Spagna, e che aveva accesso all'imperatore, gli promise l'espiazione di tutti i suoi delitti nella religione cristiana. Si è pensato che questo sacerdote fosse Osio, vescovo di Cordova.
Comunque sia, Costantino si tenne a contatto con i cristiani, pur continuando a restare semplice catecumeno, e rimandando il battesimo al momento della morte. Egli fece costruire la città di Costantinopoli, che diventò il centro dell'impero e della religione cristiana. Da allora la Chiesa prese una forma augusta.
È da notare che dall'anno 314, prima che Costantino si trasferisse nella nuova capitale, quelli che avevano perseguitato i cristiani furono da questi puniti per le loro crudeltà. I cristiani gettarono la moglie di Massimiano nell'Oronte, e sgozzarono i suoi parenti; massacrarono in Egitto e in Palestina i magistrati che si erano dichiarati più avversi al cristianesimo. La vedova e la figlia di Diocleziano, che si erano nascoste a Tessalonica, furono riconosciute e i loro corpi vennero gettati in mare. Sarebbe stato augurabile che i cristiani avessero dato meno retta allo spirito di vendetta; ma Dio, che punisce secondo giustizia, volle che le mani di cristiani si tingessero del sangue dei loro persecutori, non appena essi si trovarono in libertà d'agire.
Costantino convocò e riunì in Nicea, di fronte a Costantinopoli, il primo concilio ecumenico, presieduto da Osio. Vi si decise la grande questione che agitava la Chiesa riguardo la divinità di Gesù Cristo. Gli uni si facevano forti dell'opinione di Origene, che nel capitolo VI Contro Celso aveva scritto: «Noi presentiamo le nostre preghiere a Dio per tramite di Gesù, che sta nel mezzo tra le nature create e la natura increata, che ci comunica la grazia del Padre suo, e presenta le nostre preghiere al sommo Dio, in qualità di nostro pontefice.» Essi si rifacevano anche ad alcuni passi di san Paolo, che abbiamo in parte già citati. Soprattutto si basavano su queste parole di Gesù: «Mio padre è più grande di me,» e consideravano Gesù come il primogenito della creazione, come la più pura emanazione dell'Essere supremo, ma non precisamente come Dio.
Gli altri, che erano ortodossi, allegavano passi più conformi all'eterna divinità di Gesù. Questo, ad esempio: «Mio padre ed io siamo una medesima cosa»; parole che i loro avversari interpretavano come significanti: «Mio padre ed io abbiamo lo stesso scopo, la stessa volontà; io non ho altri desideri che quelli di mio padre.» Alessandro, vescovo d'Alessandria, e, dopo di lui, Atanasio, erano a capo degli ortodossi; ed Eusebio, vescovo di Nicomedia, con diciassette altri vescovi, il prete Ario, e parecchi altri preti, erano del partito opposto. Il dissidio si inasprì a tal punto che sant'Alessandro trattò i suoi avversari da anticristi.
Infine, dopo moltissime dispute, lo Spirito Santo così decise nel concilio, per bocca di 299 vescovi contro 18: «Gesù è figlio unico di Dio, generato dal Padre, ossia dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, vero Dio da vero Dio, consustanziale al Padre; e noi crediamo anche nello Spirito Santo ecc.» Questa la formula del concilio. Si vede da questo esempio quanto i vescovi prevalessero sui semplici preti: stando al rapporto dei due patriarchi d'Alessandria che scrissero la cronaca di Alessandria in arabo, duemila persone del secondo ordine erano del parere di Ario.
Ario fu esiliato da Costantino; ma anche Atanasio fu esiliato quasi subito, e Ario venne richiamato a Costantinopoli; ma san Macario pregò con tanto ardore Dio di far morire Ario prima che egli potesse entrare nella cattedrale, che Dio esaudì la sua preghiera. Ario morì mentre si recava in chiesa, nel 330. L'imperatore Costantino chiuse la propria vita nel 337. Affidò il suo testamento a un prete ariano e morì tra le braccia del capo degli ariani Eusebio, vescovo di Nicomedia, dopo essersi fatto battezzare sul letto di morte, e lasciando la Chiesa trionfante ma divisa.
I partigiani di Atanasio e quelli di Eusebio si fecero una guerra crudele, e quello che vien chiamato arianesimo fu per molto tempo in vigore in tutte le province dell'impero.
Giuliano, il filosofo, soprannominato l'Apostata, tentò di conciliare tali divisioni, ma non ci riuscì.
Il secondo concilio universale fu tenuto a Costantinopoli nel 381. Vi si precisò quello che il concilio di Nicea non aveva ritenuto opportuno dire sullo Spirito Santo, aggiungendo alla formula di Nicea che «lo Spirito Santo è Signore di vita, che procede dal Padre ed è adorato e glorificato con il Padre e con il Figlio».
Solo verso il IX secolo la Chiesa latina stabilì per gradi che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio.
Nel 431, il terzo concilio generale tenuto ad Efeso decise che Maria era veramente Madre di Dio e che Gesù aveva due nature e una sola persona. Nestorio, vescovo di Costantinopoli, che voleva che la Santa Vergine fosse chiamata solo Madre di Cristo, fu dichiarato Giuda dal concilio, e la duplice natura di Gesù fu ancora confermata dal concilio di Calcedonia.
Sorvolerò sui secoli successivi, che sono abbastanza noti. Purtroppo, non ce ne fu una di queste dispute che non causasse guerre, e la Chiesa fu sempre obbligata a combattere. Dio permise ancora, per mettere alla prova la pazienza dei fedeli, che nel IX secolo, i greci e i latini rompessero tra loro per sempre; e permise pure che in occidente avvenissero ventinove sanguinosi scismi per la cattedra di Roma.
Intanto la Chiesa greca quasi per intero e tutta la Chiesa d'Africa caddero sotto il dominio degli arabi, e poi dei turchi, i quali elevarono la religione maomettana sulle rovine di quella cristiana. La Chiesa romana sopravvisse, ma sempre macchiata del sangue di più di sei secoli di discordie fra l'impero d'occidente e il papato. Tali discordie, d'altronde, la resero potentissima. I vescovi e gli abati, in Germania, divennero tutti principi, e i papi acquistarono poco a poco la sovranità assoluta su Roma e in un territorio di cento leghe. Così Dio provò la sua Chiesa con le umiliazioni, con i disordini e con lo splendore.
Questa Chiesa latina perdette nel secolo XVI metà della Germania, la Danimarca, la Svezia, l'Inghilterra, la Scozia, l'Irlanda, la Svizzera, l'Olanda; guadagnò in America, con le conquiste spagnole, più territori di quanti ne perdette in Europa; ma, con un territorio più vasto, ha molto meno sudditi.
La Provvidenza divina sembrava destinasse il Giappone, il Siam, l'India e la Cina a schierarsi sotto l'autorità del papa, per ricompensarlo dell'Asia minore, della Siria, della Grecia, dell'Egitto, dell'Africa, della Russia e degli altri stati perduti di cui abbiamo parlato. San Francesco Saverio, che portò il santo Vangelo nelle Indie orientali e in Giappone, quando i portoghesi vi andarono a cercar mercanzie, fece un grandissimo numero di miracoli tutti attestati dai Revv. Padri Gesuiti: alcuni dicono che egli risuscitò nove morti; ma il Rev. P. Ribadeneira, nel suo Fiore dei Santi, si limitò a dire che ne risuscitò soltanto quattro: non sono pochi. La Provvidenza volle che in meno di cento anni ci fossero migliaia di cattolici romani nelle isole del Giappone; ma il diavolo seminò la zizzania in mezzo al buon grano. Nel 1638, i cristiani ordinarono una congiura seguita da una guerra civile, nella quale furono tutti sterminati. Allora il paese chiuse i suoi porti a tutti gli stranieri, eccettuati gli olandesi, considerati alla stregua di semplici mercanti, e non di cristiani, e che sulle prime furono obbligati a calpestare la croce per ottenere il permesso di vendere le loro mercanzie nella prigione dove li si rinchiuse, quando sbarcarono a Nagasaki.
In Cina la religione cattolica, apostolica romana fu proscritta in epoca recente, ma in modo meno crudele. I Revv. Padri Gesuiti non avevano, a dire il vero, risuscitato dei morti alla corte di Pechino: si erano limitati a insegnare l'astronomia, a fondere cannoni e a diventare mandarini. Le loro sciagurate dispute con i domenicani e con altri scandalizzarono a tal punto il grande imperatore Yong-Cing che quel sovrano, che era la giustizia e la bontà in persona, fu tanto cieco da non volere più permettere che si insegnasse la nostra santa religione, sulla quale i nostri missionari non si trovavano d'accordo. Egli li cacciò con paterna bontà, fornendo loro viveri e veicoli fino ai confini del suo impero.
Tutta l'Asia, tutta l'Africa, metà dell'Europa, tutto ciò che appartiene agli inglesi e agli olandesi in America, tutte le tribù nomadi americane non sottomesse, tutte le terre australi, che sono la quinta parte del globo, sono rimaste preda del demonio, affinché si avverasse il santo detto: «Molti sono i chiamati, pochi gli eletti.»
Se è vero che sulla terra vivono circa 1600 milioni di uomini, come sostengono alcuni studiosi, la Santa chiesa romana cattolica universale ne possiede all'incirca sessanta milioni: ossia più della ventiseiesima parte degli abitanti del mondo conosciuto.
Non pretendo parlare qui della critica degli scoliasti, che restaura e commenta, rendendola oscura, la parola di un autore antico, che prima si capiva benissimo. Né voglio accennare a quelle vere critiche che hanno reso chiara quanto più possibile la storia e la filosofia antiche. Mi riferisco a quelle critiche che appartengono alla satira.
Un amatore di letteratura leggeva un giorno con me il Tasso; mise gli occhi su questa ottava:
Chiama gli abitator dell'ombre eterne
il rauco suon de la tartarea tromba.
Treman le spaziose atre caverne;
e l'aer cieco a quel rumor rimbomba:
né sì stridendo mai da le superne
regioni del cielo il folgor piomba,
né sì scossa già mai trema la terra
quando i vapori in sen gravida serra.
Egli lesse poi a caso parecchie ottave di questa forza e armonia: «Ah! È dunque questo,» esclamò, «ciò che il vostro Boileau chiama "orpello"? Così dunque pretende di sminuire un grand'uomo che viveva cent'anni prima di lui, per meglio innalzare un altro grand'uomo, Virgilio, vissuto milleseicento anni prima, e che avrebbe certo reso giustizia al Tasso?» «Consolatevi,» risposi, «prendiamo i melodrammi di Quinault.»
Trovammo subito, ad apertura di libro, di che incollerirci con la critica: ecco qua il mirabile poema Armide, in cui leggemmo questi versi:
Sidonie
La haine est affreuse et barbare,
L'amour contraint les coeurs dont il s'empare
À souffrir des maux rigoureux.
Si votre sort est en votre puissance,
Faites choix de l'indifférence:
Elle assure un sort plus heureux.
Armide
Non, non, il ne m'est pas possible
De passer de mon trouble en un état paisible,
Mon coeur ne se peut plus calmer;
Renaud m'offense trop, il n'est que trop aimable;
C'est pour moi désormais un choix indispensable
De le haïr ou de l'aimer.
Leggemmo tutto il dramma, in cui il genio del Tasso riceve ancora nuove grazie dal talento di Quinault. «Ebbene!» dissi al mio amico, «questo è proprio quel Quinault che Boileau si sforzò sempre di considerare come il più spregevole degli scrittori; persuase persino Luigi XIV che questo scrittore grazioso, commovente, patetico, elegante, non aveva altri meriti se non quelli che traeva dalla musica di Lulli.» «È facile capirlo,» rispose il mio amico; «Boileau non era geloso del musicista, ma del poeta. Che credito possiamo dare al giudizio di un uomo che, per rimare un verso che finisce in aut, denigra ora Boursault, ora Hénault, ora Quinault, a seconda che si trovi in buoni o cattivi rapporti con questi signori?
«Ma, per non lasciar raffreddare il vostro zelo contro l'ingiustizia, ecco, affacciatevi a quelle finestre, guardate quella bella facciata del Louvre, con cui Perrault si è immortalato: quell'uomo di merito era fratello di un dottissimo accademico, con cui Boileau aveva avuto qualche scontro: ed eccone abbastanza perché Perrault venisse trattato da architetto ignorante.»
Il mio amico, dopo essere rimasto un poco assorto, riprese sospirando: «Cosiffatta è la natura umana. Il duca di Sully, nelle sue Memorie, scrive che il cardinale D'Ossat e il segretario di stato Villeroi furono dei cattivi ministri; e Louvois le pensava tutte per non accordare la sua stima al grande Colbert.»
«Ma essi almeno non stampavano nulla l'uno contro l'altro, finché erano in vita!» risposi, «questa è una sciocchezza riservata alla letteratura, alla procedura penale e alla teologia.»
«Abbiamo avuto un uomo di merito: Lamotte, che compose bellissime strofe:
Quelquefois au feu qui la charme
Résiste une jeune beauté,
Et contre elle-même elle s'arme
D'une pénible fermeté.
Hélas! cette contrainte extréme
La prive du vice qu'elle aime
Pour fuir la honte qu'elle hait.
Sa sévérité n'est que faste,
Et l'honneur de passer pour chaste
La résout à l'être en effet.
En vain ce sévère stoïque,
Sous mille défauts abattu,
Se vante d'une âme héroïque
Toute vouée à la vertu:
Ce n'est point la vertu qu'il aime;
Mais son coeur, ivre de lui-même,
Voudrait usurper les autels,
Et par sa sagesse frivole
Il ne veut que parer l'idole
Qu'il offre au culte des mortels.
Les champs de Pharsale et d'Arbelle
IOnt vu triompher deux vainqueurs,
L'un et l'autre digne modèle
Que se proposent les grands coeurs.
Mais le succès a fait leur gloire;
Et, si le sceau de la victoire
N'eût consacré ces demi-dieux,
Alexandre, aux yeux du vulgaire,
N'aurait été qu'un téméraire,
Et César qu'un séditieux.
«Questo autore,» disse, «era un saggio che prestò più di una volta il fascino dei versi alla filosofia. Se ci avesse dato sempre strofe simili, sarebbe il primo dei poeti lirici; eppure, proprio mentre componeva questi bei brani, uno dei suoi contemporanei lo chiamava
Certain oison, gibier de basse-cour.
«In un altro passo dice di Lamotte:
De ses discours l'ennuyeuse beauté.
«E in un altro:
... Je n'y vois qu'un défaut:
C'est que l'auteur les devait faire en prose.
Ces odes-là sentent bien le Quinault.
«Lo perseguita in ogni suo scritto: sempre gli rimprovera l'aridità e il difetto d'armonia. Sareste curioso di vedere le odi che scrisse, qualche anno dopo, questo stesso censore che giudicava Lamotte dall'alto in basso e lo denigrava da vero nemico? Leggete:
Cette influence souveraine
N'est pour lui qu'une illustre chaîne
Qui l'attache au bonheur d'autrui;
Tous les brillants qui l'embellissent,
Tous les talents qui l'ennoblissent,
Sont en lui, mais non pas à lui.
Il n'est rien que le temps n'absorbe, ne dévore,
Et les faits qu'on ignore
Sont bien peu différents des faits non avenus.
La bonté qui brille en elle
De ses charmes les plus doux
Est une image de celle
Qu'elle voit briller en vous.
Et, par vous seule enrichie,
Sa politesse, affranchie
Des moindres obscurités,
Est la lueur réfléchie
De vos sublimes clartés.
Ils ont vu par ta bonne foi
De leurs peuples troublés d'effroi
ILa crainte heureusement déçue,
Et déracinée à jamais
La haine si souvent reçue
En survivance de la paix.
Dévoile a ma vue empressée
Ces déités d'adoption,
Synonymes de la pensée,
Symboles de l'abstraction.
N'est-ce pas une fortune,
Quand d'une charge commune
Deux moitiés portent le faix,
Que la moindre le réclame,
Et que du bonheur de l'âme,
Le corps seul fasse les frais?
«Certo,» disse allora il mio giudizioso amatore della letteratura, «non bisognava dare opere così detestabili come modelli a chi si criticava con tanta acredine; sarebbe stato meglio lasciare il proprio avversario godere in pace del suo merito, e conservare quello che si aveva. Ma che volete? Il genus irritabile vatum è malato di quella stessa bile che lo tormentava in passato. Il pubblico perdona queste miserie agli uomini di talento, perché non pensa che a divertirsi. Vede, in un'allegoria intitolata Plutone, dei giudici condannati ad essere scorticati e a sedere, negli inferi, su seggi ricoperti della loro pelle, anziché di gigli; il lettore non si preoccupa di sapere se essi lo meritino o no, se il querelante che li cita davanti a Plutone abbia torto o ragione. Legge quei versi solo per il suo piacere; se gliene danno, non chiede altro; se gli dispiacciono, lascia lì l'allegoria e non farebbe un solo passo per far confermare o annullare la sentenza.
«Le inimitabili tragedie di Racine sono state tutte criticate, e molto negativamente: però dai suoi rivali. Gli artisti sono i giudici competenti dell'arte, è vero; ma sono quasi sempre dei giudici corrotti.
«Un ottimo critico dovrebbe essere un artista di gran cultura e di gran gusto, senza pregiudizi e senza invidia. Ma e difficile trovarlo.»
Ultima modifica 12.01.2009