«Il tramonto della schiavitù nel mondo antico» di Ettore Ciccotti

Vilfredo Pareto (1897)


Pubblicato in: Giornale degli Economisti, agosto 1897, pp. 188-191.


I.

Il prof. Ciccotti ha pubblicato ora, col titolo modesto di saggio, la prima parte di quell’opera, che merita certo l’attenzione di ogni studioso. Egli ha, in questo saggio, considerato la schiavitù nella Grecia, ed ha con gran cura raccolti ed illustrati i fatti che si riferiscono all’argomento trattato.

In sostanza, egli manifesta l’opinione che l’istituzione della schiavitù si è modificata adattandosi ognora alle mutate condizioni economiche del paese, e tale concetto egli ora illustra e conferma con fatti per la Grecia, rimandando al séguito del suo lavoro dì mostrarne la realtà anche per l’Impero romano.

Ci rincresce di non potere consentire colle teorie economiche dell’a. Egli è un fedele del Marx, e quando può citare una opinione di quel gran profeta, non crede ci sia da aggiungere altro. Così segue il caso singolare che, dove si ragiona di fatti storici, il nostro autore con molto senno ed acume discute, vaglia, vede il pro e il contro, e decide da vero scienziato; ma dove ha bisogno di teorie economiche, cioè dove appunto ha meno luogo l’autorità, giudica e decide come un credente che cita il Vangelo.

Per esempio, a carte 36, ci vien detto che: il capitale è sorto da prima come capitale commerciale; e per sola prova viene citato il Marx, III, p. 309. Gli economisti hanno concetti ben diversi sul capitale. Per essi è capitale l’arma di selce del nostro antenato preistorico, gli strumenti coi quali i primi abitanti dell’Attica coltivarono il suolo, i buoi e le pecore da essi posseduti, e le case ove si ricovravano.

Ma, obbietterà forse qualcuno, che privilegio ha l’opinione degli economisti perché il Ciccotti debba farla sua di preferenza a quella di Marx? Rispondo: nessun privilegio, né chiedo alcun atto di fede per questa ο quell’opinione, ma dovevano ο essere citate tutte due ο ci si doveva indicare il motivo pel quale si preferisce questa a quella.

A carte 37 si legge:

«In pari tempo, il capitale non commisurando più la produzione al bisogno, ma al suo impiego…».

Ed ecco un’altra di quelle tante teorie che possono ben servire come arma di agitazione popolare, ma che non hanno fondamento nei fatti. Si produce e si è sempre prodotto per soddisfare ai bisogni degli uomini.

A carte 46, l’autore pare considerare la moneta e i metalli preziosi come il principale capitale, e, al solito, per prova cita il Marx. Pei popoli civili moderni, la statistica dimostra in modo non discutibile che la moneta e i metalli preziosi sono solo una parte minima del capitale nazionale. Pei popoli dell’antichità non abbiamo statistiche; pare, per altro, assai probabile che per essi il fatto fosse simile a quello che ci è ben noto nei popoli moderni. Chi ha opinione contraria deve recare fatti che la provino…

A carte 47 l’autore ci dice:

«Questa del mutuo è la forma compiuta e tradizionale sotto cui si presenta il capitale».

Avesse almeno aggiunto: «secondo l’opinione del Marx, che io accetto». Egli ci dà come assoluto ciò che non è che relativo, e come relativo!

È pure un’idea singolare quella di dare il nome di capitale solo a ciò che si è ottenuto con un mutuo. Ecco un proprietario che spende mille lire per fare una fogna nel suo campo. Quelle mille lire sono ο non sono un capitale? Bisogna rispondere: aspettate; ditemi prima se quelle mille lire erano sue ο se le ha avute in prestito. Solo nel secondo caso sono un capitale, nel primo non lo sono.

È vero che non si deve mai litigare sui nomi. Quindi se vi sono persone alle quali piace di dare un nome speciale ai beni economici impiegati nella produzione, quando provengono da mutui, hanno pieno diritto di ciò fare. Soltanto dovrebbero prendere un nome nuovo, poiché il mutare per tale guisa significato ad un termine già noto può solo generare confusione. E infatti quelle persone stabiliscono certe proposizioni per quel tale capitale che intendono loro, e poi, giovandosi della confusione che nasce dall’essere identici i nomi di cose diverse, le estendono senz’altro al capitale che intendono gli economisti.

Ma è inutile lo insistere su queste cose, che tutte abbiamo raccolte in una osservando come il nostro autore fosse un fedele del Marx; e bisogna anzi, per debito di giustizia, tosto aggiungere che tale fede nuoce meno di quanto si potrebbe temere al suo lavoro. Ciò suole accadere per gli uomini d’ingegno. In essi, i fatti reali correggono gli errori nei quali sarebbe lecito supporre che debbano cadere per certe loro credenze. Così, benché sembri strano, pure è certo che vi sono stati schietti cattolici che furono anche buoni astronomi.

Naturalmente, non poteva mancare nel lavoro del nostro autore «la concezione materialistica della storia». Prima pareva che con quelle parole si volesse significare che tutta la storia strettamente dipendesse dalle condizioni economiche. Ma da un poco di tempo in qua siamo stati avvisati che tale non era il vero concetto del Marx, e quel vero concetto è stato allargato, ma ha perduto come precisione ciò che acquistava come estensione. Il nostro autore pare riavvicinarsi all’antico concetto. Egli scrive:

«Esso [il processo dialettico della storia] trova nello svolgimento delle forze produttive la sua ragione di essere e la causa ultima a noi nota; ha nel grado di sviluppo del modo di produzione e nella forma di produzione il presupposto e la condizione del complesso dei suoi fenomeni».

Questa proposizione è solo vera in parte. Lo «svolgimento delle forze produttive», il «modo e le forme di produzione», danno forma alla società umana come le funzioni di nutrizioni danno forma agli animali. Prima, osserviamo che non c’è qui una relazione di causa ad effetto, ma bensì una semplice dipendenza, onde per essere precisi bisogna dire che i modi della produzione economica sono in stretta relazione colla costituzione sociale, al modo stesso come le funzioni di nutrizioni, i modi di procacciarsi gli alimenti sono in stretta relazione colle forme animali. Ma quelle relazioni non sono tali da non permettere variazioni dipendenti da altri elementi. Nessun dubbio che le forme generali del falco peregrinus e del pavo cristate non siano in stretta relazione col genere diverso di alimenti di cui si cibano quegli animali, col modo col quale se li procacciano; ma non si può estendere tale dipendenza alle menome differenze che troviamo tra quegli animali, e, per esempio, spiegare in questo modo gli occhi della coda del pavone maschio. Similmente, le società umane hanno non pochi caratteri che sin ora non si sono potuti fare dipendere dal «modo e dalla forma della produzione». Rimangono, insomma, molti fenomeni che, almeno per ora, non son riducibili al fenomeno economico.

Perciò crediamo che non abbia ragione il nostro autore quando osserva che:

«chi dice che la schiavitù venne meno, perché gli uomini si accorsero di poterle sostituire più utilmente qualche altra cosa, crede di essere agli antipodi di chi attribuisce la fine della schiavitù al formarsi di un nuovo concetto morale della sua legittimità…; eppure egli guarda la storia dallo stesso punto di vista. Infatti non è un diverso rapporto delle nostre condizioni di vita, una metamorfosi dell’economia sociale, ciò che spiega in ultima istanza la modificazione degli ordini economici e civili?».

No, ciò può dare la parte principale del fenomeno, ma non dà tutto il fenomeno. Inoltre, vi è un séguito di azioni e di reazioni. «L’economia sociale» modificandosi modifica, è vero, «gli ordinamenti economici e civili». Ma questi divengono poi, a loro volta, agenti e modificano quella.

A buon conto, le cause prossime del venir meno delle schiavitù sono sempre diverse (il nostro autore, ne accenna solo due, ma ve ne sono altre). Per semplificare chiamiamole A, B, C,… Il nostro autore le riduce alla sola A, perché ritiene che B, C… sono conseguenza di A, ο di altra causa da cui dipende la stessa A. Crediamo che ciò sia ben lungi dall’essere dimostrato; onde è meglio, intanto, di considerare le diverse cagioni prossime, e solo dopo di avere ciò fatto vedere se possono ridursi ad una sola.

Del resto, il nostro autore mostra, e siamo lieti di essere d’accordo con lui, che la schiavitù venne meno principalmente pel mutarsi delle condizioni economiche. Ma desideriamo di non scancellare, almeno sinché non siano recati altri fatti, quel: principalmente.

Ottima e la descrizione che dà il nostro autore delle cagioni per le quali il lavoro libero poté, in Atene, sostenere la concorrenza del lavoro servile. Ci pare altresì che sia nel vero osservando come il soldo dato ai cittadini nelle assemblee, nei collegi giudiziari, nei teatri, non li distogliesse dal lavoro, procacciando ad essi il mezzo di stare nell’ozio.

In un pregevolissimo lavoro, dal prof. Ciccotti pubblicato: Del numero degli schiavi dell’Attica, è molto opportunamente illustrata la difficoltà grande delle statistiche «congetturali». Quelle stesse considerazioni ci fanno nascere qualche dubbio sui risultamenti che ottiene il prof. Ciccotti riguardo alla ripartizione della ricchezza nell’Attica. Abbiamo fatto vedere nel nostro corso di Economia politica1 come la ripartizione della ricchezza ci sia da statistiche precise mostrata ben diversa da ciò che appare secondo il comune giudizio. Chi, per esempio, potrebbe credere se non ce lo dicesse la statistica, che la ripartizione della ricchezza, data dalle statistiche sulle entrate, è quasi interamente simile in Irlanda, in Inghilterra, e nelle città italiane? Questo fatto ci deve rendere molto cauti nel giudicare della distribuzione della ricchezza quando non abbiamo dati precisi.

Le poche vendite di terre di cui abbiamo notizia per l’Attica, non ci dànno quelle notizie. Un dato più preciso è quello che ci è noto per avere Antipatro concesso i diritti di cittadini ai soli ateniesi aventi più di 2.000 dramme di patrimonio. E questi pare siano stati circa nove mila, coloro che non avevano quel censo pare fossero più di dodicimila. Ma già quei numeri sono dubbi, perché Diodoro Siculo e Plutarco, dai quali si ricavano, non si esprimono precisamente allo stesso modo. Tolta pure tale difficoltà, rimane da sapere cosa fosse precisamente quel patrimonio di 2.000 dramme e come si stimava. Il Boeckh ben vide che si potevano dare varie interpretazioni, e ci pare proprio che tale notizia statistica abbia incertezze simili a quelle che si riscontrano per determinare il numero degli schiavi e dei cittadini, e che così bene furono messi in luce dal prof. Ciccotti.

Il nostro autore dice che

«le intraprese e i commerci avevano, s’intende bene, i loro rischi, ma questi stessi, con le mine che seminavano, compivano una selezione a rovescio, a danno dei meno ricchi, ed a favore dei più ricchi».

Se ci fossero prove storiche sarebbero da esaminarsi, ma il nostro autore non ne dà. Pare quindi che quella sia un’induzione che egli ricava da fatti che suppone che accadono ora. Probabilmente egli fa suo l’assioma socialista che vuole che nei nostri paesi cresca ognora la disuguaglianza delle ricchezze. Disgraziatamente quel preteso assioma è smentito da tutti i fatti statistici sin ora noti. Il Leroy-Beaulieu, come è ben noto, ha raccolto un numero grandissimo di fatti i quali mostrano che quella diseguaglianza scema; alla stessa conclusione si giunge paragonando, come abbiamo fatto noi, le curve delle entrate.

Volendo spingere sino all’estremo le concessioni, e tenere conto anche con molta esagerazione dell’incertezza delle statistiche, dei dubbi che possono sorgere dalla interpretazione dei dati raccolti dal Leroy-Beaulieu, si potrà forse dire che la diseguaglianza non è scemata; ma non c’è fatto alcuno che possa confermare l’opinione che in Francia, in Inghilterra, in Germania, sia cresciuta nel nostro secolo tale diseguaglianza.

Nella scienza solo i fatti hanno valore e le teorie contrarie ai fatti si devono abbandonare. Noi desideriamo vivamente che il prof. Ciccotti voglia considerare queste cose colla stessa mente serena ed acuta colla quale considera i fatti storici. Sarebbe in noi temerità di chiedere che in lui s’affievolisse la fede socialista, né vi ha cosa più lontana dal pensiero nostro; ma non ci pare di essere troppo arditi esprimento il desiderio che egli, come fanno altri scienziati, metta interamente da parte la fede nelle quistioni scientifiche e che estenda alle quistioni economiche quello stesso scetticismo scientifico che molto assennatamente già usa nelle quistioni storiche.

Note

1. Nel capitolo I, libro III, tomo II, del Cours d'économie politique (1897, trad. it. UTET 2013).



Ultima modifica 2024.09