Anti-Dühring

Seconda Sezione: Economia

 

IV. Teoria della violenza (conclusione)

 

"Una circostanza molto importante sta nel fatto che effettivamente l'assoggettamento della natura ha proceduto in generale (!), solo per mezzo dell'assoggettamento dell'uomo" (Un assoggettamento che ha proceduto!). "Lo sfruttamento economico della proprietà terriera in appezzamenti piuttosto grandi non si è compiuto mai e in nessun luogo senza che in precedenza l'uomo fosse stato assoggettato da una qualsiasi forma di prestazioni schiavistiche o servili. Lo stabilirsi di un dominio economico sulle cose ha avuto come presupposto il dominio politico, sociale ed economico dell'uomo sull'uomo. Come si sarebbe potuto pensare ad un grande proprietario terriero senza nello stesso tempo includere in questo pensiero il suo dominio su schiavi, servi o su gente indirettamente priva di libertà? Che cosa mai potrebbe aver significato e significare per un'agricoltura, condotta su scala piuttosto vasta, la forza del singolo che si veda provvisto tutt'al più dell'aiuto delle forze della sua famiglia? Lo sfruttamento della terra o l'estensione del dominio economico su di essa in un ambito che oltrepassi le forze naturali del singolo, nella storia sinora è stato possibile solo per il fatto che, prima o contemporaneamente allo stabilirsi del dominio sul suolo, si è compiuto anche il corrispondente asservimento dell'uomo. Nei periodi posteriori allo sviluppo questo asservimento è stato mitigato (...) la forma che al presente esso ha assunto negli Stati di più alta civiltà è quella di un lavoro salariato più o meno controllato dal dominio della polizia. Sul lavoro salariato poggia dunque la pratica possibilità di quella forma odierna della ricchezza che si presenta nel dominio su zone piuttosto vaste di terreno e (!) nel più vasto possesso fondiario. S'intende senz'altro che tutte le altre forme di distribuzione della ricchezza debbono spiegarsi storicamente in modo analogo e che la dipendenza indiretta dell'uomo dall'uomo, la quale costituisce al presente il fatto fondamentale delle condizioni economicamente più avanzate, non si può intendere e spiegare da se stessa, ma solo come l'eredità al quanto modificata di un assoggettamento e di una espropriazione che nel passato erano diretti."

Così Dühring.

Tesi: La dominazione della natura (per mezzo dell'uomo) presuppone la dominazione dell'uomo (per mezzo dell'uomo).

Prova: Lo sfruttamento economico della proprietà terriera in appezzamenti piuttosto grandi non si è compiuto mai e in nessun luogo altrimenti che per mezzo di servi.

Prova della prova: Come può esserci grande proprietario terriero senza servi, dato che il grande proprietario terriero con la sua famiglia, senza servi, non potrebbe coltivare, invero, che una piccola parte di ciò che possiede?

Dunque: Per provare che l'uomo, per assoggettarsi la natura, ha dovuto precedentemente asservire l'uomo, Dühring trasforma senz'altro "la natura" in "proprietà terriera in appezzamenti piuttosto grandi" e questa proprietà terriera (non è specificato di chi sia) a sua volta la trasforma immediatamente nella proprietà di un grande proprietario terriero, che naturalmente senza servi non può coltivare la sua terra.

In primo luogo "dominazione della natura" e "sfruttamento economico" della proprietà non sono affatto la stessa cosa. La dominazione della natura viene esercitata nell'industria in una misura ben altrimenti grandiosa che nell'agricoltura, che sino ad oggi è costretta a lasciarsi dominare dalle condizioni meteorologiche anziché dominarle.

In secondo luogo, se ci limitiamo allo sfruttamento economico della proprietà terriera in appezzamenti piuttosto grandi, l'importante è qui sapere a chi appartiene questa proprietà terriera. E troviamo allora al principio della storia di tutti i popoli civili non già il "grande proprietario terriero", che Dühring fa spuntare qui con la sua abituale arte di prestigiatore, che lui chiama "dialettica naturale" [92], ma invece comunità tribali e di villaggio con possesso comune del suolo. Dall'India sino all'Irlanda lo sfruttamento economico della proprietà terriera in appezzamenti piuttosto grandi è avvenuto originariamente mediante tali comunità tribali e di villaggio e, precisamente, ora con la coltivazione in comune della terra arabile per conto della comunità, ora con la distribuzione per un dato periodo di appezzamenti parcellari operata dalla comunità, a beneficio delle famiglie, permanendo l'uso comune del terreno boschivo e prativo. Ancora una volta è caratteristico per "i più profondi studi specialistici" di Dühring "nel campo politico e giuridico", il fatto che di tutte queste cose egli non sappia una parola; che in tutta la sua opera spiri una totale ignoranza degli scritti di Maurer che fanno epoca nel campo della costituzione primitiva della marca tedesca, base di tutto il diritto tedesco, e una totale ignoranza della letteratura, sempre più vasta, che si richiama a Maurer e riguarda le prove della primitiva proprietà comune del suolo nei popoli civili dell'Asia e dell'Europa, l'esposizione delle forme diverse della sua esistenza e della sua dissoluzione. Come nel campo del diritto francese e inglese Dühring si era "guadagnata da se stesso tutta la sua ignoranza", per grande che fosse, così si guadagna da se stesso la sua ignoranza ancora maggiore nel campo del diritto tedesco. L'uomo che si adira così violentemente per la limitatezza di orizzonte dei professori di università, è ancor oggi, nel campo del diritto tedesco, tutt'al più al livello cui erano quei professori vent'anni fa.

È una pura "libera creazione ed immaginazione" di Dühring la sua affermazione che per lo sfruttamento della proprietà terriera in appezzamenti piuttosto grandi siano stati necessari proprietari terrieri e servi. In tutto l'oriente dove proprietario terriero è la comunità o lo Stato, manca nelle lingue perfino la parola proprietario terriero e su questo argomento Dühring può consultare i giuristi inglesi, che sulla questione "Chi è il proprietario?" si sono affaticati in India tanto invano quanto già la buon'anima del principe Enrico LXXII di Reuss-Greiz-Schleiz-Lobenstein-Eberswalde sulla questione "Chi è il guardiano notturno?". In oriente solo i turchi hanno introdotto nelle terre da loro conquistate una forma di proprietà terriera feudale. La Grecia già nell'età eroica fa il suo ingresso nella storia con un'organizzazione in ceti che a sua volta è il prodotto evidente di una preistoria piuttosto lunga e sconosciuta; ma anche qui il suolo viene economicamente sfruttato in prevalenza da contadini indipendenti; le più vaste proprietà dei notabili e dei capi delle tribù costituiscono l'eccezione e del resto scompaiono subito dopo. L'Italia fu dissodata prevalentemente da contadini; quando negli ultimi tempi della repubblica romana i grandi complessi di fondi rustici, i latifondi, cacciarono via i contadini parcellari e li sostituirono con schiavi, nello stesso tempo sostituirono all'agricoltura l'allevamento del bestiame e, come già sapeva Plinio, mandarono in rovina l'Italia (latifundia Italiam perdidere) [93]. Nel medioevo predomina in tutta l'Europa (specialmente nel dissodamento di terre vergini) la coltivazione contadina; e allora, per la questione che stiamo trattando, è indifferente se e quali tributi questi contadini avessero da pagare ad un signore feudale. I coloni della Frisia, della bassa Sassonia, della Fiandra e del basso Reno, che misero a coltura le terre ad oriente dell'Elba, strappate agli slavi, lo fecero come contadini liberi sottoposti a tributi molto favorevoli e non già assolutamente a "prestazioni feudali di qualsiasi genere". Nell'America del nord la parte di gran lunga maggiore del paese fu aperta alla coltura dal lavoro di contadini liberi, mentre i grandi proprietari terrieri del sud, con i loro schiavi e con la loro coltura di sfruttamento, esaurirono il suolo al punto che ormai poteva continuare a dar vita solo ad abeti, cosicché la coltura del cotone dovette emigrare sempre più verso occidente. In Australia e nella Nuova Zelanda tutti i tentativi del governo inglese di istituire artificialmente un'aristocrazia terriera sono andati a monte. In breve se eccettuiamo le colonie tropicali e subtropicali, nelle quali il clima impedisce all'europeo il lavoro dei campi, il grande proprietario terriero che per mezzo dei suoi schiavi e dei suoi servi della gleba assoggetta la natura al suo dominio e dissoda il terreno, appare una pura immagine di fantasia. Al contrario: laddove nell'antichità il grande proprietario terriero fa la sua comparsa, come in Italia, esso non dissoda terre desertiche, ma trasforma in pascoli i terreni arativi dissodati dai contadini, li spopola e rovina interi paesi. Solo nell'età moderna, solo dopo che la maggior densità della popolazione ha fatto salire il valore del suolo, e specialmente da quando lo sviluppo dell'agronomia ha reso più utilizzabili anche terreni di cattiva qualità, solo allora il grande proprietario terriero ha cominciato a partecipare in misura notevole al dissodamento di terre desertiche e di prati, e ciò principalmente rubando ai contadini le terre di proprietà comune, tanto in Inghilterra quanto in Germania. Ma anche questo non è stato senza contropartita. Per ogni acro di terra di proprietà comune che i grandi proprietari terrieri hanno dissodato in Inghilterra, in Scozia hanno trasformato almeno tre acri di terra coltivabile in pascolo per le pecore e infine addirittura in semplice riserva per la caccia del cervo.

Ma qui abbiamo da fare solamente con l'affermazione di Dühring che il dissodamento di appezzamenti piuttosto grandi di terreno e quindi su per giù di tutta la terra coltivata, "mai e in nessun luogo" è stato compiuto altrimenti che per mezzo di grandi proprietari terrieri e di servi, affermazione che, abbiamo visto, ha "come suo presupposto" un'ignoranza veramente inaudita della storia. Non dobbiamo quindi preoccuparci qui né della misura in cui, in epoche diverse, appezzamenti di terre coltivabili siano stati totalmente o in massima parte per mezzo di schiavi (come avvenne nel periodo in cui fiorì la Grecia) o per mezzo di servi (come è avvenuto nei fondi rustici feudali a partire dal medioevo), né di quale sia stata la funzione dei grandi proprietari terrieri nelle diverse epoche.

E, dopo averci presentato questo magistrale quadro di fantasia in cui non si sa se si debba ammirare maggiormente l'arte del prestigiatore della deduzione o la falsificazione della storia, Dühring esclama trionfante: "Va da sé che tutte le altre forme di distribuzione della ricchezza si debbono spiegare storicamente in maniera analoga!". E così naturalmente si risparmia la fatica di perdere anche una sola parola in più sull'origine, per es., del capitale.

Se Dühring con la sua dominazione dell'uomo per mezzo dell'uomo come condizione preliminare della dominazione della natura per mezzo dell'uomo, ci vuol dire in generale solamente che il nostro ordine economico attuale nella sua interezza, il grado di sviluppo raggiunto oggi dall'agricoltura e dall'industria è il risultato di una storia della società che si è sviluppata in antagonismi di classi, in condizioni di dominio e servitù, dice qualcosa che dopo il "Manifesto comunista" è da lungo tempo diventato luogo comune. Quel che importa è spiegare storicamente l'origine delle classi e dei rapporti di dominio e se a questo fine Dühring ha solamente e sempre la parola "violenza", con ciò siamo precisamente al punto di partenza. Il semplice fatto che i dominati e gli sfruttati in ogni epoca sono molto più numerosi dei dominatori e degli sfruttatori, e che quindi la forza reale poggia sui primi, è sufficiente da solo a chiarire tutta la stoltezza della teoria della violenza. Quindi resta sempre la questione di spiegare i rapporti di dominio e servitù.

Questi rapporti sono sorti per due vie.

Gli uomini, appena nelle origini emergono dal mondo animale (in senso stretto), fanno il loro ingresso nella storia: ancora mezzo animali, rozzi, ancora impotenti di fronte alle forze della natura, ancora ignari delle proprie; perciò poveri come gli animali e di poco più produttivi di essi. Domina una certa eguaglianza delle condizioni di vita, e per i capifamiglia anche una specie di eguaglianza della condizione sociale: in ogni caso un'assenza di classi sociali, che perdura ancora nelle comunità naturali agricole dei popoli civili del periodo posteriore. In ognuna di tali comunità esistono sin dal principio certi interessi comuni, la cui salvaguardia deve essere delegata a singoli, se anche sotto il controllo della comunità: decisioni di litigi, repressione di prepotenze di singoli che vanno al di là dei loro diritti, controllo di acque, particolarmente in paesi caldi e, finalmente, data la loro primitività, attribuzioni religiose. Siffatti incarichi si trovano in ogni epoca nelle comunità primitive, per es., nelle antichissime marche tedesche e ancor oggi in India. Sono ovviamente dotati di una certa autonomia di poteri e costituiscono i primi rudimenti del potere dello Stato. A poco a poco le forze produttive si accrescono; la maggiore densità crea interessi, comuni in un luogo, contrastanti in un altro, tra le singole comunità il cui raggruppamento in complessi maggiori provoca a sua volta una nuova divisione del lavoro e la creazione di organi per la salvaguardia degli interessi comuni e la difesa contro gli interessi contrastanti. Questi organi, che già come rappresentanti degli interessi comuni di tutto il gruppo hanno di fronte ad ogni singola comunità una posizione particolare e, in certe circostanze, perfino antagonistica, si rendono ben presto ancor più indipendenti, in parte per quella ereditarietà delle funzioni ufficiali che si presenta quasi ovviamente in un mondo in cui tutto procede in modo spontaneo, in parte per la loro indispensabilità crescente con l'aumento del numero dei conflitti con altri gruppi. Come questo rendersi indipendente dalla funzione sociale di fronte alla società abbia potuto accrescersi col tempo sino ad arrivare al dominio della società, come l'originario servitore, presentandosi l'occasione favorevole, a poco a poco si sia trasformato nel signore, come, a seconda delle circostanze, questo signore si sia presentato come despota o satrapo orientale, come capotribù greco, come capo del clan celtico, ecc., in che misura in questa trasformazione costui si sia servito infine anche della violenza, come da ultimo anche le singole persone che esercitavano il dominio si siano riunite in una classe dominante; tutte queste sono cose nelle quali non abbiamo qui bisogno di addentrarci. Quello che qui importa stabilire è che dappertutto il dominio politico ha avuto a suo fondamento l'esercizio di una funzione sociale, e che il dominio politico ha continuato ad esistere per lungo tempo solo laddove ha mantenuto l'esercizio di questa sua funzione sociale. Per quanto numerosi siano stati i governi dispotici che si sono formati e che sono caduti in Persia e in India, ognuno di essi sapeva in modo assolutamente preciso di essere l'imprenditore generale dell'irrigazione delle vallate fluviali, senza di che laggiù non sarebbe stata possibile l'agricoltura. Era riservato solo agli illuminati inglesi non tener conto di ciò in India; essi lasciarono andare in rovina i canali d'irrigazione e le cateratte e, finalmente, con le carestie che si ripetono con regolarità, scoprono oggi di aver trascurato quell'unica attività che poteva legittimare il loro dominio nell'India almeno nella stessa misura di quello dei loro predecessori.

Accanto a questo sviluppo delle classi ne procedeva però anche un altro. La divisione naturale del lavoro in seno alla famiglia agricola permetteva, ad un certo livello di benessere, di introdurre una o più forze-lavoro estranee. Questo fatto avveniva particolarmente in paesi in cui l'antico possesso comune del suolo era già scomparso o almeno l'antica coltivazione in comune aveva ceduto il posto alla coltivazione separata di appezzamenti parcellari del suolo per opera delle rispettive famiglie. La produzione si era tanto sviluppata che ora la forza-lavoro dell'uomo poteva produrre di più di quanto era necessario per il suo semplice mantenimento; i mezzi per mantenere più forze-lavoro c'erano e del pari quelli per impiegarle; la forza-lavoro acquistò un valore. Ma la comunità in sé e l'aggregato di cui essa faceva parte non fornivano forze-lavoro eccedenti disponibili. Le forniva invece la guerra e la guerra era antica quanto la coesistenza simultanea di più gruppi di comunità. Sinora non si sapeva che fare dei prigionieri di guerra che quindi venivano semplicemente uccisi e, in un periodo ancora anteriore, mangiati. Ma al livello raggiunto ora dall'"ordine economico" essi acquistarono un valore, furono quindi lasciati vivere e si utilizzò il loro lavoro. E così la violenza, anziché dominare l'ordine economico, fu costretta invece a servire l'ordine economico. La schiavitù era stata scoperta. Presto essa diventò la forma dominante di produzione presso tutti i popoli che si sviluppavano superando la vecchia comunità, ma in definitiva divenne anche una delle cause principali della loro decadenza. Solo la schiavitù rese possibile che la divisione del lavoro tra agricoltura ed industria raggiungesse un livello considerevole e con ciò rese possibile il fiore del mondo antico: la civiltà ellenica. Senza la schiavitù non sarebbero esistiti né lo Stato, né l'arte, né la scienza della Grecia; senza la schiavitù non ci sarebbe stato l'impero romano. Ma senza le basi della civiltà greca e dell'impero romano non ci sarebbe stata l'Europa moderna. Non dovremmo mai dimenticare che tutto il nostro sviluppo economico, politico e intellettuale ha come suo presupposto una stato di cose in cui la schiavitù era tanto necessaria quanto generalmente riconosciuta. In questo senso abbiamo il diritto di dire che senza l'antica schiavitù non ci sarebbe il moderno socialismo.

È molto facile inveire con frasi generali contro la schiavitù e cose simili e sfogare un elevato sdegno morale contro siffatta infamia. Disgraziatamente non si dice niente di più di ciò che ognuno sa, cioè che queste antiche istituzioni non sono più adeguate alle condizioni odierne ed ai nostri sentimenti, che da queste condizioni sono determinati. Ma così non veniamo a sapere proprio nulla intorno all'origine di queste istituzioni, alla ragione per le quali esse sussistettero e alla funzione che ebbero nella storia. E, se ci addentriamo in questo argomento, dobbiamo dire, per quanto ciò possa suonare contraddittorio ed eretico, che l'introduzione della schiavitù nelle circostanze di allora fu un grosso progresso. Ormai è un fatto che l'umanità ebbe principio dagli animali e che perciò ha avuto necessità di mezzi barbarici e quasi bestiali per trarsi fuori dalla barbarie. Le antiche comunità, dove hanno continuato a sussistere, dall'India alla Russia, costituiscono da millenni la base della forma più rozza di Stato, il dispotismo orientale. Solo dove esse si sono dissolte, i popoli sono diventati padroni di se stessi e il loro ulteriore progresso è consistito nell'incremento e nel progresso della produzione per mezzo del lavoro degli schiavi. È chiaro: sino a quando il lavoro umano era ancora così poco produttivo da non fornire che una piccola eccedenza oltre ai mezzi necessari all'esistenza, l'incremento delle forze produttive, l'estensione del traffico, lo sviluppo di Stato e diritto, la creazione dell'arte e delle scienze erano possibili solo per mezzo di un'accresciuta divisione del lavoro che doveva avere, come sua base, la grande divisione del lavoro tra le masse occupate nel semplice lavoro manuale e quei pochi privilegiati che esercitavano la direzione del lavoro, il commercio, gli affari di Stato e più tardi la professione dell'arte e della scienza. La forma più semplice, più naturale di questa divisione del lavoro fu precisamente la schiavitù. Dati i presupposti storici del mondo antico, e specialmente del mondo ellenico, il progresso verso una società fondata sugli antagonismi delle classi si poté compiere solo nella forma della schiavitù. E questo fu un progresso anche per gli schiavi: ora i prigionieri di guerra, dai quali si reclutava la massa degli schiavi, conservarono almeno salva la vita, mentre precedentemente venivano uccisi e, ancor prima, addirittura arrostiti.

Aggiungiamo a questo punto che tutti gli antagonismi storici sinora esistiti tra classi sfruttatrici e classi sfruttate, classi dominanti e classi oppresse, trovano la loro spiegazione nella stessa produttività, relativamente poco o nulla sviluppata, del lavoro umano. Sino a quando la popolazione effettivamente lavoratrice è stata tanto impegnata nel suo lavoro necessario da non aver tempo di occupasi degli affari comuni della società, direzione del lavoro, affari di Stato, questioni giuridiche, arte, scienze, ecc., ha sempre dovuto esistere una classe dominante che, libera dall'effettivo lavoro, si occupasse di questi affari; ma così facendo, in effetti, questa classe non ha mai mancato di addossare alle masse lavoratrici un fardello di lavoro sempre crescente per il proprio profitto. Solo l'enorme incremento delle forze produttive, raggiunto mediante la grande industria, permette di distribuire il lavoro fra tutti i membri della società senza eccezioni, e perciò di limitare il tempo di lavoro per ciascuno in tal misura che per tutti rimanga un tempo libero sufficiente per partecipare, sia teoricamente che praticamente, agli affari generali della società. Quindi solo oggi ogni classe dominante e sfruttatrice è diventata superflua, anzi è diventata un ostacolo allo sviluppo della società e solo ora essa sarà anche inesorabilmente eliminata, per quanto possa essere in possesso della "violenza immediata".

Se quindi Dühring storce il naso di fronte alla civiltà ellenica perché era fondata sulla schiavitù, con lo stesso diritto potrà rimproverare ai greci di non aver avuto la macchina a vapore e il telegrafo elettrico. E se afferma che il nostro asservimento salariale moderno è un'eredità alquanto trasformata e mitigata della schiavitù e che non si può spiegare per esso (cioè con le leggi economiche della società moderna), ciò vuol dire solamente che il lavoro salariato, come la schiavitù, sono forme della servitù e del dominio di classe, cosa che sanno tutti i bambini, o è falso. Infatti con lo stesso diritto potremmo dire che il lavoro salariato deve spiegarsi come la forma attenuata del cannibalismo, oggi universalmente considerato come la prima forma di impiego dei nemici vinti.

È chiaro, di conseguenza, quale funzione abbia la violenza nella storia di fronte allo sviluppo economico. In primo luogo, ogni forza politica è fondata originariamente su una funzione economica, sociale e si accresce nella misura in cui, con la dissoluzione delle comunità primitive, i membri della società vengono trasformati in produttori privati e quindi vengono estraniati ancor più da coloro che amministrano le funzioni sociali comuni. In secondo luogo dopo che la forza politica si è resa indipendente di fronte alla società, si è trasformata da serva a padrona, essa può agire in duplice direzione. O agisce nel senso e nella direzione del regolare sviluppo economico. In questo caso tra i due non sussiste alcun conflitto e lo sviluppo economico viene accelerato. O invece agisce nel senso opposto, e in questo caso, con poche eccezioni, soggiace regolarmente allo sviluppo economico. Queste poche eccezioni sono casi isolati di conquista, in cui i conquistatori, più rozzi, hanno sterminato o cacciato via la popolazione di un paese e ne hanno guastate o distrutte le forze produttive di cui non sapevano che fare. Così fecero i cristiani nella Spagna moresca distruggendo la massima parte di quelle opere di irrigazione sulle quali poggiavano l'agricoltura e la floricoltura altamente sviluppate dei mori. Ogni conquista operata da un popolo più rozzo turba ovviamente lo sviluppo economico e distrugge numerose forze produttive. Ma nell'enorme maggioranza dei casi di conquista durevole il conquistatore più rozzo deve adattarsi all'"ordine economico" superiore quale risulta dalla conquista, e viene assimilato dai conquistati e per lo più deve perfino accettarne il linguaggio. Laddove invece -prescindendo dai casi di conquista- il potere statale interno di un paese è entrato in opposizione col suo sviluppo economico, come ad un certo grado di sviluppo è occorso sinora ogni potere politico, la lotta ogni volta è finita con la caduta del potere politico. Senza eccezione ed ineluttabilmente lo sviluppo economico si è aperta la via; abbiamo già ricordato l'ultimo e più lampante esempio di questo fenomeno: la grande Rivoluzione francese. Se l'ordine economico e con esso la costituzione economica di un determinato paese dipendessero semplicemente, secondo la dottrina di Dühring, dal potere politico, non si capirebbe affatto perché Federico Guglielmo IV dopo il 1848 non potesse riuscire, malgrado il suo "magnifico esercito" [94], ad innestare le corporazioni medievali ed altre ubbie romantiche nelle strade ferrate, nelle macchine a vapore e nella grande industria del suo paese che erano appunto in fase di sviluppo; o perché lo zar di Russia, che eppure è ancora molto più potente, non solo non possa pagare i suoi debiti, ma non possa neppure tenere in piedi la sua "forza" senza continuamente attingere all'"ordine economico" dell'Europa occidentale.

Per Dühring la violenza è il male assoluto, il primo atto di violenza è per lui il peccato originale, tutta la sua esposizione è una geremiade sul fatto che la violenza, questa potenza diabolica, ha infettato tutta la storia fino ad ora con la tabe del peccato originale, ed ha vergognosamente falsificato tutte le leggi naturali e sociali. Ma che la violenza abbia nella società ancora un'altra funzione, una funzione rivoluzionaria, che essa, seguendo le parole di Marx, sia la levatrice della vecchia società gravida di una nuova [95], che essa sia lo strumento con cui si compie il movimento della società, e che infrange forme politiche irrigidite e morte, di tutto questo in Dühring non si trova neanche una parola. Solo con sospiri e con gemiti egli ammette la possibilità che per abbattere l'economia dello sfruttamento sarà forse necessaria la violenza... purtroppo! Infatti ogni uso di violenza avvilisce colui che la usa. E questo di fronte all'elevato slancio morale e intellettuale che è stato il risultato di ogni rivoluzione vittoriosa! E questo in Germania, dove la violenta collisione, che potrebbe anche essere imposta al popolo, avrebbe almeno il vantaggio di estirpare lo spirito servile che, a causa dell'avvilimento conseguente alla guerra dei trent'anni [44], ha permeato la coscienza nazionale. E questa mentalità da predicatore, fiacca, insipida e impotente, ha la pretesa di imporsi al partito più rivoluzionario che la storia conosca?

 


 

V. Teoria del valore

 

 

Sono passati circa cento anni da quando a Lipsia apparve un libro che, sino all'inizio di questo secolo, ha avuto più di trenta edizioni e che autorità, predicatori e filantropi di tutte le specie diffusero, distribuirono e prescrissero in generale come libro di lettura per le scuole elementari in città e in campagna. Questo libro si chiamava "L'amico dei fanciulli" di Rochow ed aveva il fine di istruire i giovani rampolli dei contadini e degli artigiani sulla loro vocazione e sui loro doveri verso i loro superiori nella società e nello Stato, e parimente ispirar loro un benefico senso di appagamento della loro sorte terrena, del pane nero e delle patate, del servizio feudale, del basso salario, delle paterne bastonate e delle altre piacevolezze del genere, e tutto ciò servendosi delle idee illuministiche allora correnti nel paese. A questo fine si mostrava alla gioventù della città e della campagna quale saggia istruzione della natura sia il fatto che l'uomo debba guadagnarsi il suo sostentamento e i suoi godimenti col lavoro e quanto perciò debbano sentirsi felici il contadino e l'artigiano del fatto che sia loro permesso di condire il proprio pasto con aspro lavoro invece di soffrire, come il grasso crapulone, di dispepsia, di mal di fegato o di stitichezza e di non poter ingoiare che a malavoglia le più scelte leccornie. Gli stessi luoghi comuni che il vecchio Rochow riteneva adatti per i giovani contadini dell'Elettorato di Sassonia del suo tempo, Dühring, a pag. 14 e seguenti del suo "Corso", ce li offre come l'"elemento assolutamente fondamentale" dell'economia politica più recente.

"I bisogni umani hanno come tali le loro leggi naturali che li regolano e, riguardo al loro incremento, sono racchiusi entro limiti che solo innaturalmente possono essere violati, per un certo tempo, sino a che da questa violazione conseguono disgusto, tedio della vita, decrepitezza, mutilazione sociale e finalmente salutare annientamento (...) Un giuoco fatto solamente di piaceri, senza un altro fine serio, porta presto all'apatia o, ciò che è lo stesso, all'esaurimento di ogni capacità di sentire. Un lavoro reale in una forma qualsiasi è quindi la naturale legge sociale di formazioni sane (...) Se gli impulsi e i bisogni fossero senza una contropartita porterebbero con sé appena un'esistenza infantile e non già uno sviluppo di una vita storicamente evoluta. Se fossero soddisfatti e pienamente senza pena, presto si esaurirebbero e lascerebbero una vita vuota fatta di intervalli pietosi in attesa del riapparire di quegli impulsi e di quei bisogni (...) La dipendenza della soddisfazione degli istinti e delle passioni dal superamento di un ostacolo economico è quindi, sotto ogni rapporto, una benefica legge fondamentale della struttura esterna e della costituzione interna dell'uomo" ecc. ecc.

Come si vede, le più banali banalità del reverendo Rochow celebrano in Dühring il loro centenario e per giunta come "fondazione radicale" dell'unico "sistema socialitario" veramente critico e scientifico.

Poste le basi, Dühring può quindi continuare a costruire. Applicando il metodo matematico egli ci dà in primo luogo, secondo l'esempio del vecchio Euclide, una serie di definizioni. E ciò tanto più comodamente in quanto può subito stabilire le sue definizioni in modo tale che ciò che col loro aiuto deve essere dimostrato sia già in parte contenuto in esse. Così veniamo a sapere anzitutto che il concetto conduttore di tutta l'economia, quale sinora si è presentata, si chiama ricchezza e che la ricchezza, come sinora è stata realmente intesa sul piano della storia universale, e come ha sviluppato il suo regno, è la "potenza economica sugli uomini e le cose". Ciò è doppiamente inesatto. In primo luogo la ricchezza delle antiche comunità tribali e di villaggio non era affatto un dominio su uomini. E in secondo luogo, anche nelle società che si muovono sul piano degli antagonismi di classe, la ricchezza, nella misura in cui include un dominio su uomini, include prevalentemente e quasi esclusivamente un dominio su uomini in virtù e per mezzo del dominio su cose. A partire dal tempo remotissimo in cui la cattura e lo sfruttamento degli schiavi divennero rami distinti di attività, gli sfruttatori di lavoro e di schiavi dovettero comprare gli schiavi, dovettero acquistare il dominio sugli uomini solo per mezzo del dominio sulle cose, sul prezzo di acquisto e sui mezzi di mantenimento e di lavoro dello schiavo. In tutto il medioevo il grande possesso fondiario è la condizione preliminare grazie alla quale la nobiltà feudale arriva ad avere contadini tributari e servi, e al giorno d'oggi finanche un bambino di sei anni vede che la ricchezza domina sull'uomo esclusivamente per mezzo delle cose di cui dispone.

Ma perché Dühring è costretto ad ammannire questa falsa definizione della ricchezza? Perché è costretto ad infrangere il nesso reale delle cose quale sinora è stato vigente in tutte le società divise in classi? Per trascinare la ricchezza dal campo dell'economia a quello della morale. Il domino sulle cose è assolutamente buono, invece il dominio sugli uomini è del maligno; e poiché Dühring si è interdetto di spiegare il dominio sugli uomini per mezzo del dominio sulle cose, può fare un'audace colpo di mano e spiegare senz'altro il dominio sugli uomini per mezzo della sua amata violenza. La ricchezza, in quanto domina sull'uomo, è la "rapina", e così siamo arrivati ad una edizione peggiorata del vecchissimo detto di Proudhon: "La proprietà è il furto" [96].

E con ciò, invero, siamo riusciti felicemente a considerare la ricchezza dai due punti di vista essenziali della produzione e della distribuzione: ricchezza come dominio su cose, ricchezza di produzione, lato buono; ricchezza come dominio su uomini, ricchezza della distribuzione quale sinora esiste, lato cattivo; aboliamolo! Applicato alle condizioni odierne ciò vuol dire: il modo di produzione capitalistico è buono e può restare, invece il modo di distribuzione capitalistico non vale niente e deve essere eliminato. A un tale assurdo si arriva scrivendo di economia senza neppure avere un concetto del nesso tra produzione e distribuzione.

Dopo la ricchezza, il valore viene definito come segue: "Il valore è la valutazione che le cose e le prestazioni economiche trovano nello scambio". Questa valutazione corrisponde "al prezzo o a qualsiasi altro termine equivalente, per es. al salario". In altre parole: il valore è il prezzo. O piuttosto, per non fare torto a Dühring e riprodurre l'assurdo della sua definizione usando il più possibile i suoi stessi termini: il valore sono i prezzi. Infatti a p. 19 egli dice: "il valore e i prezzi che lo esprimono in denaro", facendo quindi, egli stesso, la constatazione che lo stesso valore ha prezzi differentissimi e di conseguenza anche altrettanti valori differenti. Se Hegel non fosse morto da gran tempo, si impiccherebbe. Con tutto il suo teologismo non avrebbe potuto escogitare questo valore che è altrettanti valori diversi quanti sono i prezzi che ha. Ancora una volta si deve proprio possedere la sicurezza di Dühring per inaugurare una nuova e più radicale fondazione dell'economia con la dichiarazione che non si conosce altra differenza tra prezzo e valore, se non che il primo è espresso in denaro e l'altro no.

Ma con ciò continuiamo sempre ad ignorare che cosa sia il valore e ancor più come si determina. Dühring è quindi costretto a tirare fuori ulteriori spiegazioni:

"Parlando assolutamente in generale, la legge fondamentale della comparazione e dell'apprezzamento su cui poggiano il valore e i prezzi che lo esprimono in denaro, ha la sua base anzitutto nel campo della pura produzione, prescindendo dalla distribuzione che nel concetto di valore porta solo un secondo elemento. Gli ostacoli maggiori o minori, che la diversità delle condizioni naturali porta agli sforzi intesi a procurarsi le cose e che perciò rende necessarie delle erogazioni maggiori o minori di forza economica, determinano anche (...) il maggiore o minore valore", e questo viene valutato a seconda della "resistenza che all'acquisto oppongono la natura e le condizioni (...) La misura in cui noi incorporiamo le cose" (nelle cose) "la nostra propria forza è la causa immediatamente decisiva dell'esistenza del valore in generale e dell'esistenza di una particolare grandezza di esso."

Ciò, nella misura in cui ha un senso, significa: il valore di un prodotto di lavoro è determinato dal tempo di lavoro necessario per la sua produzione, e questo lo sappiamo da gran tempo anche senza Dühring. Invece di presentarci il fatto così semplicemente, bisogna che lo contorca in una formula oracolare. È semplicemente falso che la misura in cui ciascuno incorpora in una qualche cosa la sua forza (per attenerci a questo stile pomposo) sia la causa immediatamente decisiva del valore e della sua grandezza. In primo luogo ciò che qui importa è in quale cosa la forza viene incorporata e in secondo luogo il modo in cui viene incorporata. Se il nostro qualcuno crea una cosa che per altri non ha nessun valore d'uso, tutta quanta la sua forza non crea un atomo di valore; e se si ostina a produrre con le sue mani un oggetto che una macchina produce venti volte più a buon mercato, i diciannove ventesimi della forza che egli incorpora non producono né valore né una particolare grandezza di esso.

Inoltre vuol dire sovvertire completamente l'argomento il trasformare in un superamento semplicemente negativo di una resistenza il lavoro produttivo, che crea prodotti positivi. Dovremmo in questo caso, per riuscire ad avere una camicia, procedere all'incirca nel modo che segue: in primo luogo superiamo la resistenza opposta dal seme di cotone ad essere seminato e a crescere, poi la resistenza opposta dal cotone maturo ad essere raccolto, imballato e spedito, poi la resistenza opposta dal filo ad essere tessuto, quella opposta dal tessuto ad essere imbiancato e cucito e finalmente la resistenza che la camicia pronta oppone ad essere indossata.

Ma perché queste contorsioni e queste assurdità infantili? Per venire, per mezzo della "resistenza" e del "valore di produzione", del valore vero, ma sinora solo ideale, a quel "valore di distribuzione" falsato dalla violenza e che solo sinora ha avuto corso nella storia:

"Oltre alla resistenza che oppone la natura (...) c'è ancora un altro ostacolo puramente sociale (...) Tra l'uomo e la natura appare una potenza che ostacola e questa è ancora una volta l'uomo. L'uomo concepito come essere singolo e isolato è libero di fronte alla natura (...) La situazione si configura diversamente allorché ne immaginiamo un secondo che, la spada in pugno, impedisca ogni accesso alla natura e alle sue risorse e per lasciar passare chieda, in qualsiasi forma, un prezzo. Questo secondo uomo (...) grava, per così dire, il primo di tributi e così egli è la ragione per cui il valore di ciò di cui si aspira finisce per esser maggiore di quanto potrebbe essere, senza questo ostacolo politico e sociale all'acquisto o alla produzione dell'oggetto (...) Svariatissime sono le forme particolari assunte da questa valutazione artificialmente aumentata delle cose, che naturalmente ha la sua concomitante contropartita in una corrispondente diminuzione della valutazione del lavoro (...) è perciò un'illusione il voler considerare sin dal principio il valore come un equivalente nel senso proprio della parola, cioè come qualche cosa che valga egualmente, o come un rapporto di scambio istituitosi in conformità al principio dell'eguaglianza di prestazione o controprestazione (...) Al contrario la caratteristica di una giusta teoria del valore è che la causa della valutazione, che in questa teoria viene pensata nel modo più generale, non coincide con la forma particolare che assume la valutazione fondata sulla costrizione della distribuzione. Questa forma si muta con la costituzione sociale, mentre il valore specificamente economico può essere solo un valore di produzione misurato rispetto alla natura e perciò si modificherà solo con gli ostacoli naturali e tecnici che la produzione pura e semplice incontra".

Il valore che una cosa ha in pratica consta quindi, secondo Dühring, di due parti: in primo luogo del lavoro in essa contenuto e in secondo luogo dell'aggiunta di un tributo estorto "con la spada in pugno". In altri termini il valore oggi valido è un prezzo di monopolio. Se dunque, secondo questa teoria, tutte le merci hanno un tale prezzo di monopolio, sono possibili solo due casi. O ciascuno torna a perdere come compratore quello che ha guadagnato come venditore; i prezzi si sono modificati in quanto al nome, ma in realtà, nel loro rapporto specifico, sono rimasti uguali; e allora tutto resta com'era e il celeberrimo valore di distribuzione è una mera parvenza. O invece le pretese aggiunte di tributi rappresentano una reale somma di valore, ossia quella somma di valore che è prodotta dalla classe lavoratrice creatrice di valore, ma di cui si appropria la classe dei monopolisti, e allora questa somma di valore consiste semplicemente in lavoro non pagato; in questo caso, malgrado l'uomo con la spada in pugno, e le pretese aggiunte di tributi, ritorniamo di nuovo alla teoria marxiana del plusvalore.

Consideriamo tuttavia alcuni aspetti del celeberrimo "valore di distribuzione". A p. 153 e seguenti leggiamo:

"Anche la formazione dei prezzi mediante la concorrenza individuale deve considerarsi come una forma della distribuzione economica e della reciproca imposizione di tributi (...) si immagini che la scorta di una merce necessaria improvvisamente diminuisca in misura considerevole: sorgerà allora da parte dei venditori un potere di sfruttamento senza limiti (...) quali enormi proporzioni possa assumere l'aumento dei prezzi è mostrato particolarmente da quelle situazioni anormali nelle quali per una durata considerevole sono troncati i rifornimenti di articoli necessari, ecc."

Inoltre anche nel corso normale delle cose ci sarebbero monopoli virtuali che permetterebbero un aumento arbitrario dei prezzi, per es. nelle strade ferrate, nelle società che riforniscono le città di acqua, di gas illuminante, ecc. Che tali occasioni di sfruttamento monopolistico si verifichino, è noto da un pezzo. Ma che i prezzi di monopolio che così si producano debbano valere non come eccezioni e come casi speciali, ma precisamente come esempio classico del processo con cui si determina oggi il valore, questo è nuovo. Come si stabiliscono i prezzi dei mezzi di sussistenza? Andate in una città assediata dove sono troncati i rifornimenti e informatevi! Così risponde Dühring. Come agisce la concorrenza nella determinazione dei prezzi di mercato? Interrogate il monopolio, esso vi darà la risposta.

Del resto anche in questi monopoli non si può scoprire l'uomo che con la spada in pugno starebbe dietro ad essi. Al contrario, in città assediate, di solito l'uomo con la spada in pugno, il comandante, se fa il suo dovere, mette rapidamente fine al monopolio e requisisce le scorte sottoposte al monopolio, al fine di un'equa distribuzione, e in quanto al resto, gli uomini con la spada in pugno, allorché hanno tentato di fabbricare un "valore di distribuzione", non altro hanno raccolto che cattivi affari e perdite di denaro. Gli olandesi, monopolizzando il commercio delle Indie orientali, hanno rovinato il loro monopolio e il loro commercio. I due governi più forti che siano mai esistiti, il governo rivoluzionario nordamericano e la Convenzione nazionale francese, ebbero l'ardire di volere imporre un calmiere dei prezzi e fallirono miseramente. Da anni il governo russo lavora per far salire a Londra, per mezzo di continui acquisti di lettere di credito tratte sulla Russia, il corso della cartamoneta russa, che esso deprime in Russia con emissioni del pari continue di biglietti di banca inconvertibili. Questo piacere gli è costato circa sessanta milioni di rubli in pochi anni e il rublo vale ora meno di due marchi anziché più di tre. Se la spada ha la magica potenza economica che Dühring le attribuisce, perché nessun governo ha potuto mai effettivamente imporre che una moneta cattiva avesse alla lunga il "valore di distribuzione" di una buona, o che degli assegnati avessero il valore di distribuzione dell'oro? E dove è quella spada che esercita il comando sul mercato mondiale?

Inoltre c'è ancora un'altra forma principale nella quale il valore di distribuzione rende possibile l'appropriazione di prestazioni altrui senza contropartita: la rendita del possesso, cioè la rendita fondiaria e l'interesse del capitale. Per il momento ne prendiamo atto solamente per poter dire che questo è tutto ciò che veniamo a saper sul famoso "valore di distribuzione". Tutto? Non ancora completamente tutto. Ascoltiamo:

"Malgrado il duplice punto di vista che emerge dalla conoscenza dell'esistenza di un valore di produzione e di un valore di distribuzione, tuttavia resta sempre alla loro base un qualche cosa di comune, come quell'oggetto di cui constano tutti i valori e con cui perciò debbono anche misurarsi. La misura immediata naturale è l'erogazione della forza e la più semplice unità è la forza umana nel senso più crudo del termine. Quest'ultima si riporta al tempo di esistenza in cui il mantenersi con i propri mezzi rappresenta a sua volta il superamento di una certa soglia di difficoltà per procacciarsi il cibo e per vivere. Il valore di distribuzione o valore di appropriazione si trova propriamente ed esclusivamente là dove c'è il potere di disporre di cose che non si sono prodotte, o, per dirla in modo più familiare, dove queste cose stesse vengono scambiate con prestazioni o beni aventi un reale valore di produzione. L'elemento comune, quale si trova significato e rappresentato in ogni espressone del valore, e perciò anche negli elementi costituiti del valore di cui ci si appropria mediante la distribuzione senza contropartita, consiste nell'erogazione di forza umana, che si (...) trova incorporata (...) in ogni merce".

Che cosa dobbiamo dire su questo punto? Se il valore di ogni merce deve essere misurato con l'erogazione di forza umana incorporata nelle merci, dove vanno a finire allora il valore di distribuzione, il sovrapprezzo, l'imposizione di tributi? Dühring ci dice invero che anche cose che non si sono prodotte, e che quindi non sono capaci di un valore propriamente detto, possono acquisire un valore di distribuzione ed essere scambiate con cose prodotte, aventi un valore. Ma dice nello stesso tempo che tutti i valori, e quindi anche i valori di distribuzione puri ed esclusivi, consistono in erogazione di forza incorporata in essi. Ma con questo disgraziatamente noi non riusciamo a capire come in una cosa che non è stata prodotta possa incorporasi una erogazione di forza. In ogni caso quel tanto che in tutto questo intrecciarsi di valori appare chiaro, è finalmente che il valore di distribuzione, i sovrapprezzi imposti alle merci in virtù della posizione sociale, l'imposizione di tributi per mezzo della spada, ancora una volta non contano nulla; i valori delle merci sono determinati unicamente dall'erogazione di forza umana, vulgo lavoro, che si trova incorporata in essi? Prescindendo dalla rendita fondiaria e da pochi prezzi di monopolio, Dühring dice quindi, solo più vagamente e più confusamente, la stessa cosa che la teoria del valore ricardiano-marxiana, tanto deprecata, aveva già detto da molto tempo con molta maggiore chiarezza e precisione?

Lo dice, e nello stesso tempo dice il contrario. Marx, movendo dalle indagini di Ricardo, dice: il valore delle merci è determinato dal lavoro genericamente umano e socialmente necessario che è incorporato in esse e che trova a sua volta la misura nella sua durata nel tempo. Il lavoro è la misura di ogni valore, esso stesso però non ha valore. Dühring, dopo avere, nella sua maniera confusa, presentato anche il lavoro come misura del valore, prosegue: esso " si riporta al tempo di esistenza in cui il mantenersi con i propri mezzi rappresenta a sua volta il superamento di una certa soglia di difficoltà per procacciarsi il cibo e per vivere". Trascuriamo la confusione, dovuta a puro e semplice amore di originalità, tra tempo di lavoro, che è la sola cosa che qui importa, e tempo di esistenza, che sinora non ha mai creato né misurato valori. Trascuriamo anche la falsa partenza "socialitaria" che il "mantenersi con i propri mezzi" di questo tempo di esistenza dovrebbe introdurre; dacché il mondo è esistito e sino a che esisterà, ognuno deve mantenere se stesso, nel senso che consuma, egli stesso, i suoi mezzi di sostentamento. Se ammettiamo che Dühring si sia espresso in linguaggio economico e con precisione, la frase riportata o non significa nulla o significa che il valore di una merce è determinato dal tempo di lavoro incorporato in essa, e il valore di questo tempo di lavoro è determinato dai mezzi di sussistenza necessari per il mantenimento del lavoratore durante questo tempo. E ciò per la società odierna significa che il valore di una merce è determinato dal salario in essa contenuto.

Con questo siamo infine arrivati a ciò che propriamente Dühring vuol dire. Il valore di una merce si determina, secondo il comune linguaggio economico, mediante i costi di produzione; per contro Carey "ha messo in rilievo la verità che non i costi di produzione, ma i costi di riproduzione determinano il valore" ("Storia critica" p. 401). Che cosa siano questi costi di produzione o di riproduzione lo vedremo più tardi; qui ci limitiamo al fatto che essi constano, come è noto, di salario e di profitto del capitale. Il salario rappresenta l'"erogazione di forza" incorporata nella merce, cioè il valore di produzione. Il profitto rappresenta il tributo o sovrapprezzo che il capitalista impone grazie al suo monopolio, alla sua spada in pugno, cioè il valore di distribuzione. E così tutta la contraddittoria confusione della teoria dühringiana del valore si risolve finalmente nella più bella e armoniosa chiarezza.

La determinazione del valore delle merci mediante il salario, che ancora in Adam Smith si intreccia sovente con la determinazione del valore mediante il tempo di lavoro, dopo Ricardo è stata bandita dall'economia scientifica e oggigiorno solo nell'economia volgare continua ancora trascinare la sua esistenza. Sono precisamente i più banali sicofanti del vigente ordinamento capitalistico quelli che predicano la determinazione del valore mediante il salario e che così contemporaneamente spacciano anche il profitto del capitalista per una specie superiore del salario, per un salario di astinenza (dovuto al fatto che il capitalista non ha dissipato nei piaceri il suo capitale), per un premio del rischio, per un salario di direzione dell'impresa, ecc. Dühring si distingue da costoro solo per il fatto che dichiara che il profitto è rapina. In altri termini Dühring fonda il suo socialismo direttamente sulle dottrine dell'economia volgare della peggiore specie. Quanto vale questa economia, tanto vale il suo socialismo. L'una e l'altro si reggono e cadono insieme.

Comunque questo è chiaro: che ciò che un operaio produce e ciò che costa sono cose altrettanto diverse quanto ciò che una macchina produce e ciò che costa. Il valore che un operaio crea in un tempo di lavoro di dodici ore, non ha niente in comune con il valore dei mezzi di sussistenza che consuma in questa giornata di lavoro e nel relativo periodo di riposo. In questi mezzi di sussistenza può essere incorporato un tempo di lavoro della durata di tre, quattro, sette ore, a seconda del grado di sviluppo raggiunto dalla produttività del lavoro. Supponiamo che per la sua produzione siano state necessarie sette ore di lavoro; la teoria del valore dell'economia volgare, accettata da Dühring, dice che il prodotto di dodici ore di lavoro ha il valore di sette ore di lavoro, ossia che dodici ore di lavoro sono uguali a sette ore di lavoro, ossia: 12=7. Per parlare ancora più chiaramente, un lavoratore agricolo, quali che siano le condizioni generali della società, produce una certa quantità di cereali, poniamo venti ettolitri di frumento all'anno. Durante questo tempo egli consuma una somma di valori che si esprime in una somma di quindici ettolitri di frumento. In questo caso i venti ettolitri di frumento hanno lo stesso valore dei quindici, e ciò nello stesso mercato e circostanze che peraltro restano esattamente uguali, in altri termini 20 è uguale a 15. E questa si chiama economia!

Tutto lo sviluppo della società umana, al di là dello stadio di selvatichezza animalesca, comincia dal giorno in cui il lavoro familiare crea più prodotti di quanti ne siano necessari al suo mantenimento, dal giorno in cui una parte del lavoro può essere applicata alla produzione non più di semplici mezzi di sussistenza, ma di mezzi di produzione. Un'eccedenza del prodotto del lavoro sui costi del mantenimento del lavoro e la formazione e l'accrescimento di un fondo sociale di produzione e di riserva per mezzo di quest'eccedenza, è stata ed è la base di ogni progresso sociale, politico ed intellettuale. Nella storia sinora questo fondo è stato il possesso di una classe privilegiata, alla quale oltre a questo possesso sono toccati anche il dominio politico e la direzione sociale. L'imminente rivoluzione sociale farà per la prima volta di questo fondo di produzione e di riserva sociale, cioè di tutta la massa di materie prime, strumenti di produzione e mezzi di sussistenza, un fondo realmente sociale, togliendone la disponibilità alla classe privilegiata e trasferendolo come bene comune a tutta la società.

Una delle due: o il valore delle merci si determina mediante le spese di mantenimento del lavoro necessario alla loro produzione, cioè, nella società odierna, mediante il salario. Allora ogni operaio nel suo salario riceve il valore del prodotto del suo lavoro, e quindi uno sfruttamento della classe dei salariati per mezzo della classe dei capitalisti è impossibile. Poniamo che le spese di mantenimento di un operaio siano espresse, in una data società, mediante la somma di tre marchi. Allora il prodotto giornaliero di un operaio, secondo la teoria dell'economia volgare che abbiamo riportato sopra, ha il valore di tre marchi. Supponiamo ora che il capitalista che impiega questo operaio aggiunga a questo prodotto un profitto, un tributo di un marco e lo venda a quattro marchi. Lo stesso fanno gli altri capitalisti. Ma allora l'operaio non può far fronte al suo quotidiano mantenimento con tre marchi, ne abbisogna invece anch'egli di quattro. Poiché si è supposto che tutte le altre circostanze restino identiche, il salario espresso in mezzi di sussistenza deve rimanere lo stesso, il salario espresso in denaro deve invece aumentare e precisamente da tre a quattro marchi al giorno. Ciò che i capitalisti sottraggono alla classe operaia sotto forma di profitto, glielo debbono restituire sotto forma di salario. Siamo precisamente al punto di partenza: se il salario determina il valore, non è possibile sfruttamento alcuno dell'operaio per mezzo del capitalista. Ma non è possibile neanche la formazione di un'eccedenza di prodotti; infatti, secondo il nostro presupposto, gli operai consumano precisamente tanto valore quanto ne producono. E poiché i capitalisti non producono nessun valore, non è dato scorgere di che cosa possano vivere. Ma se una tale eccedenza della produzione sul consumo, un tale fondo di produzione e di riserva tuttavia esiste, precisamente nelle mani dei capitalisti, non rimane altra spiegazione se non che gli operai consumano per il loro mantenimento semplicemente il valore delle merci, ma le merci stesse le hanno lasciate ai capitalisti per uso ulteriore.

O invece: se questo fondo di produzione e di riserva esiste realmente nelle mani della classe capitalistica, se realmente si è formato mediante accumulazione di profitto (lasciamo per ora fuori causa la rendita fondiaria), esso consiste necessariamente nell'eccedenza accumulata del prodotto del lavoro fornito dalla classe operaia alla classe capitalistica, eccedenza oltrepassante la somma di salari pagati dalla classe capitalistica alla classe operaia. Ma allora il valore non viene determinato dal salario, ma dalla quantità di lavoro, allora la classe operaia fornisce come prodotto di lavoro alla classe capitalistica una quantità di valore maggiore di quella che dalla classe capitalistica le viene pagata come salario e allora il profitto capitalistico, come tutte le altre forme di appropriazione di prodotto altrui non pagato, si spiega come semplice elemento costitutivo di questo plusvalore scoperto da Marx.

Incidentalmente: della grande scoperta con cui Ricardo apre la sua opera capitale:

"Che il valore di una merce (...) dipende dalla quantità di lavoro necessario alla sua produzione e non dal compenso più o meno alto pagato per questo lavoro " [97]

Di questa scoperta che fa epoca, in tutto il "Corso" di economia non si dice niente in nessun luogo. Nella "Storia critica" essa viene liquidata con la frase oracolare:

"Non fu tenuto conto" (da Ricardo) "che la misura più o meno grande in cui il salario può (!) essere un'indicazione dei bisogni della vita (...) porta necessariamente con sé anche forme molteplici di valore!".

Frase, questa, con cui il lettore può pensare tutto quello che vuole e con cui la cosa più sicura sarebbe per lui il non pensare assolutamente niente.

Ed ora il lettore, delle cinque specie di valore che Dühring ci fornisce, si cerchi da se stesso quella che più gli aggrada: o il valore di produzione che viene dalla natura, o il valore di distribuzione che è stato creato dalla malvagità degli uomini e che è caratterizzato dal fatto che è misurato dall'erogazione di forza non contenuta in esso, o in terzo luogo il valore che è misurato per mezzo del tempo di lavoro, o in quarto luogo quello che è misurato per mezzo delle spese di riproduzione o finalmente quello che è misurato per mezzo del salario. La scelta è ricca, la confusione completa e a noi non resta altro che esclamare con Dühring: "La dottrina del valore è la pietra di paragone della solidità dei sistemi economici!".

 


 

VI. Lavoro semplice e lavoro composto

 

 

Dühring ha scoperto in Marx una cantonata economica grossolana, che è degna di un ginnasiale e contiene al tempo stesso un'eresia socialista pericolosissima. La teoria marxiana del valore

"non è altro che la solita (...) dottrina che il lavoro è causa di tutti i valori e che il tempo di lavoro e la misura di essi. In questo modo resta completamente oscuro quale idea ci si deve formare del valore specifico del cosiddetto lavoro qualificato (...) Certo, anche secondo la nostra teoria solo il tempo di lavoro impiegato può misurare i costi naturali e conseguentemente il valore assoluto dei beni economici; ma qui il tempo di lavoro di ciascuno dovrà essere considerato a priori come assolutamente eguale e dovrà riguardarsi soltanto il caso in cui le prestazioni più qualificate (...) per es. nell'uso di uno strumento (...) col tempo di lavoro individuale del singolo collabori anche quello di altre persone. Non è dunque vero, come nebulosamente immagina Marx, che il tempo di lavoro di qualcuno abbia in sé più valore di quello di un altro, perché qui sarebbe, per così dire, considerato un maggior tempo di lavoro medio; invece ogni tempo di lavoro, senza eccezioni e in linea di principio, quindi senza che se ne debba prendere una media, è di egual valore, e nelle prestazioni fornite da una persona, così come in ogni prodotto finito, si dovrà considerare solamente quanto tempo di lavoro di altre persone possa essere celato nell'erogazione di un tempo di lavoro in apparenza solo personale. Per la rigorosa validità della teoria non ha la minima importanza se sia uno strumento di produzione della mano o la mano stessa o la testa, ciò che non poteva acquisire la particolare qualità o capacità di prestazione senza il tempo di lavoro di altri. Marx, invece, nelle sue elucubrazioni sul valore non riesce a liberarsi dello spettro, che appare nello sfondo, di un tempo di lavoro qualificato. Ciò che gli ha impedito di andare sino in fondo in questa direzione è la mentalità tradizionale delle classi colte alle quali necessariamente deve apparire una mostruosità il riconoscere che dal punto di vista economico il tempo di lavoro del carrettiere e quello dell'architetto abbaino assolutamente lo stesso valore".

Il passo di Marx che provoca questa "violenta ira" di Dühring è molto breve. Marx indaga da che cosa sia determinato il valore delle merci e risponde: dal lavoro umano contenuto in esse. Questo, egli prosegue,

"è dispendio di quella semplice forza-lavoro che ogni uomo comune possiede in media nel suo organismo fisico, senza particolare sviluppo (...) Un lavoro complesso vale soltanto come lavoro semplice potenziato o piuttosto moltiplicato, cosicché una quantità minore di lavoro complesso è uguale a una quantità maggiore di lavoro semplice. L'esperienza insegna che questa riduzione avviene costantemente. Una merce può essere il prodotto del lavoro più complesso di tutti, ma il suo valore la equipara al prodotto di lavoro semplice e rappresenta quindi soltanto una determinata quantità di lavoro semplice. Le varie proporzioni nelle quali differenti generi di lavoro sono ridotti a lavoro semplice come loro unità di misura, vengono stabilite mediante un processo sociale estraneo ai produttori, e quindi appaiono a questi ultimi date dalla tradizione" [98].

In Marx qui si tratta in primo luogo solo della determinazione del valore di merci e quindi di oggetti che, in seno ad una società costituita da produttori privati, vengono prodotti e mutuamente scambiati da questi produttori privati per conto privato. Qui dunque non si tratta affatto del "valore assoluto", sempre che questo possa mai esistere, ma di quel valore che vige in una forma determinata di società. Questo valore, in questa determinata accezione storica, si rivela prodotto e misurato dal lavoro umano incorporato nelle singole merci e questo lavoro umano si rivela ulteriormente come erogazione di semplice forza-lavoro. Ma non ogni lavoro è una mera erogazione di semplice forza-lavoro umana; numerosissimi generi di lavoro includono in sé abilità o cognizioni acquistate con fatica e con impiego di tempo e di denaro più o meno grande. Queste specie di lavoro composto producono nello stesso intervallo di tempo lo stesso valore di merci del lavoro semplice, delle erogazioni di forma-lavoro pura e semplice? Evidentemente no! Il prodotto dell'ora di lavoro composto è una merce di valore più alto, doppio o triplo, in confronto al prodotto dell'ora di lavoro semplice. Il valore dei prodotti del lavoro composto viene espresso, mediante questo confronto, in quantità determinate di lavoro semplice; ma questa riduzione del lavoro composto si compie mediante un processo sociale che si effettua alle spalle dei produttori, mediante un processo che qui, nello sviluppo della storia del valore, può essere solo costatato ma non spiegato.

Questo semplice fatto, che nell'attuale società capitalistica si compie giornalmente sotto ai nostri occhi, è quello che viene qui constatato da Marx. Questo fatto è tanto irrefutabile che lo stesso Dühring non osa contestarlo nel suo "Corso" né nella sua storia dell'economia, e l'esposizione di Marx è così semplice e penetrante che nessuno "è lasciato in una completa oscurità" tranne Dühring. Grazie a questa sua completa oscurità costui scambia il valore delle merci, di cui Marx si occupa esclusivamente, con "i costi naturali" che rendono l'oscurità ancora più completa, e addirittura con quel "valore assoluto" che sinora nell'economia che è a nostra conoscenza non ha mai avuto diritto di cittadinanza. Ma checché intenda Dühring con i suoi costi naturali, quale che sia quello dei suoi cinque generi di valore che abbia l'onore di rappresentare il valore assoluto, una cosa è certa: che in Marx di tutte queste cose non si parla e si parla invece solo del valore delle merci e che in tutta la sezione del "Capitale" che tratta del valore non c'è neanche la più piccola indicazione che ci dica se e in quali limiti Marx ritenga questa teoria del valore delle merci applicabile anche ad altre forme di società.

Non è dunque, prosegue Dühring,

"non è dunque vero, come nebulosamente immagina Marx, che il tempo di lavoro di qualcuno abbia in sé più valore di quello di un altro, perché qui sarebbe, per così dire, considerato un maggior tempo di lavoro medio; invece ogni tempo di lavoro, senza eccezioni e in linea di principio, quindi senza che se ne debba prendere una media, è di egual valore".

È una fortuna per Dühring che il destino non ne abbia fatto un industriale e lo abbia quindi preservato dal fissare il valore delle sue merci secondo questa nuova regola e con ciò dall'andare a cadere senza fallo tra le braccia della bancarotta. E che? Forse qui ci troviamo ancora nella società degli industriali? Niente affatto. Con i costi naturali ed il valore assoluto Dühring ci ha fatto fare un salto, un vero salto mortale [98b] dal cattivo mondo degli sfruttatori del presente alla sua comunità economica dell'avvenire, alla pura atmosfera celeste dell'eguaglianza e della giustizia, e dunque, sia pur prematuramente, noi dobbiamo già da ora dare un'occhiata a questo mondo nuovo.

È vero che, secondo la teoria di Dühring, anche nella comunità economica il valore dei beni economici viene misurato dal tempo di lavoro impiegato, ma con ciò il tempo di lavoro di ciascuno deve a priori esser considerato di valore rigorosamente eguale, ogni tempo di lavoro è senza eccezione e in linea di principio di valore assolutamente eguale e ciò senza che prima se ne debba prendere una media. E ora opponete a questo socialismo dell'eguaglianza radicale l'idea nebulosa di Marx che il tempo di lavoro di qualcuno abbia più valore del tempo di lavoro di un'altra persona, perché ci sarebbe condensato più lavoro medio, idea della quale lo tiene prigioniero la mentalità tradizionale delle classi colte alla quale necessariamente deve apparire una mostruosità il riconoscere che dal punto di vista economico il tempo di lavoro del carrettiere e quello dell'architetto abbiano assolutamente lo stesso valore!

Disgraziatamente Marx fa seguire nel "Capitale" al passo citato sopra la seguente piccola annotazione:

"Il lettore deve notare che qui non si parla di salario o valore che il lavoratore riceve, per es., per una giornata lavorativa, ma del valore della merce, nel quale si oggettiva la sua giornata lavorativa" [99].

Marx, che sembra qui abbia presentito il suo Dühring, prende le sue precauzioni contro il pericolo che i suoi principi sopra esposti siano applicati sia pure soltanto al salario che nella società attuale dovrebbe essere pagato per un lavoro composto. E se Dühring, non contento di farlo egualmente, spaccia quei principi per i principi fondamentali secondo i quali Marx vorrebbe veder regolata la distribuzione dei mezzi di sussistenza nella società organizzata socialisticamente, ciò costituisce una falsificazione di una spudoratezza che ha l'eguale solo nei romanzi della malavita.

Ma esaminiamo un po' più da vicino la dottrina della eguaglianza del valore. Ogni tempo di lavoro ha esattamente lo stesso valore, sia quello del carrettiere che quello dell'architetto. Quindi il tempo di lavoro, e conseguentemente il lavoro stesso, ha un valore. Ma il lavoro è il produttore di tutti i valori. Solo esso dà ai prodotti che si trovano in natura un valore in senso economico. Il valore stesso non è altro che l'espressione del lavoro umano socialmente necessario oggettivato in una cosa. Il lavoro non può dunque avere alcun valore. Tanto sarebbe possibile parlare di un valore del lavoro e volerlo determinare, quanto sarebbe possibile parlare del valore del valore, o voler determinare il peso non di un corpo pesante, ma di un peso stesso. Con uomini quali Owen, Saint-Simon e Fourier, Dühring se la sbriga con l'appellativo di alchimisti sociali. Ma, sottilizzando sul valore del tempo di lavoro, cioè del lavoro, dimostra di essere anche più in basso degli alchimisti veri e propri. Ed ora si misura l'audacia con cui Dühring imputa a Marx l'affermazione che il tempo di lavoro di qualcuno abbia in sé più valore di quello di un'altra persona, come se il tempo di lavoro e quindi il lavoro avesse un valore... a Marx che per primo ha spiegato come e perché il lavoro non può avere alcun valore!

Per il socialismo, che vuole liberare la forza-lavoro umana dalla sua posizione di merce, è di grande importanza che il lavoro non ha né può avere un valore. Con questo riconoscimento cadono tutti i tentativi che Dühring ha ereditato dal socialismo operaio primitivo, di regolare la futura distribuzione dei mezzi di sussistenza come una specie di salario più elevato. Da esso consegue ulteriormente il riconoscimento che la distribuzione, nella misura in cui viene dominata da considerazioni puramente economiche, sarà regolata nell'interesse della produzione e che la produzione viene favorita al massimo da un modo di distribuzione che permetta a tutti i membri della società di sviluppare, conservare ed esercitare le proprie capacità il più che sia possibile in tutte le direzioni. Alla mentalità delle classi colte, ereditata da Dühring, deve certamente apparire una mostruosità che non ci debbano più essere carrettieri ed architetti di professione e che l'uomo, che in una mezz'ora ha dato delle istruzioni come architetto, per un certo tempo possa anche spingere un carro sino a che venga di nuovo richiesta la sua attività di architetto. Bel socialismo, che eterna la professione del carrettiere!

Se l'eguaglianza di valore del tempo di lavoro deve avere il significato che ogni operaio in tempo pari produca pari valore senza che neppure se ne debba prendere una media, essa è evidentemente falsa. Dati due operai che esercitino anche lo stesso ramo di attività, il valore che essi producono in un'ora varia a seconda dell'intensità del lavoro e dell'abilità; a questo malanno -che tuttavia non è tale che per della gente à la Dühring- non può neppure portare rimedio nessuna comunità economica, almeno sul nostro pianeta. Che cosa resta allora della completa eguaglianza di valore di ogni e qualsiasi lavoro? Nient'altro che la pura e semplice frase roboante, che non ha altra base economica che non l'incapacità di Dühring di distinguere tra determinazione del valore mediante il lavoro e determinazione del valore mediante il salario... nient'altro che l'ukas, la legge fondamentale della nuova comunità economica: a pari tempo di lavoro, pari salario! Ma allora i vecchi comunisti-operai francesi e Weitling avevano ragioni molto migliori per sostenere la loro eguaglianza di salario.

Come si risolve dunque tutta questa importante questione della corresponsione di un salario più elevato per un lavoro composto? Nella società dei produttori privati, i privati o le loro famiglie fanno fronte alle spese per l'istruzione dell'operaio qualificato; spetta allora anzitutto ai privati il più alto prezzo della forza-lavoro qualificata: lo schiavo abile è comprato a più caro prezzo, il salariato abile ha un salario più alto. Nella società organizzata socialisticamente queste spese sono affrontate dalla società, ad essa appartengono perciò anche i frutti, i valori maggiori che vengono prodotti dal lavoro composto. Lo stesso operaio non ha maggiori diritti da rivendicare. Da tutto ciò incidentalmente consegue la morale della favola che la rivendicazione cara all'operaio "del provento integrale del lavoro" ha anch'essa qualche volta i suoi punti deboli [100].

 

Note

92. Dühring definì "naturale" la sua "Dialettica" in contrapposto alla dialettica hegeliana, per "ricusare esplicitamente ogni comunanza con le confuse manifestazioni della parte decaduta della filosofia tedesca", cioè con la "innaturale" dialettica hegeliana.

93. Gajus Plinius Secundus, "Historiae naturalis libri XXXVII", lib. XVIII, 35.

94. L'espressione "magnifico esercito" fu usata il 1° gennaio 1849 da Federico Guglielmo IV nel suo messaggio augurale di capodanno all'esercito prussiano.

95. K. Marx, "Il Capitale", I, trad. it. cit., p. 814.

44. La guerra dei trent'anni (1618-1648) fu una guerra europea che cominciò in Boemia con una rivolta contro la monarchia asburgica e l'avanzare della reazione cattolica. Essa si sviluppò in un conflitto tra il campo cattolico-feudale (il papa, gli Asburgo di Spagna e d'Austria, i principi cattolici tedeschi) e i paesi protestanti (Boemia, Danimarca, Olanda e vari Stati tedeschi riformati) appoggiati dai re francesi, rivali degli Asburgo. La Germania fu uno dei teatri principali della guerra, oggetto di saccheggi e rivendicazioni da parte dei partecipanti. La pace di Westfalia, del 1648, sancì lo smembramento politico della Germania.

96. P-J. Proudhon, "Qu'est-ce que la propriété?...", p. 2.

97. David Ricardo, "On the principles...", p. 1.

98. K. Marx, "Il Capitale", I, trad. it. cit., pp. 76-77.

98b. In italiano nel testo.

99. Ibid., p. 76, nota 15.

100. La concezione di Ferdinand Lassalle sul "provento pieno del lavoro" o "integrale" è criticata a fondo da Marx nella prima sezione delle "Glosse marginali al programma del Partito operaio tedesco" ("Critica del programma di Gotha", trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1976).

 


Ultima modifica 16.10.2002