[Indice de L'origine e l'evoluzione della proprietà]
La proprietà feudale si presenta sotto due forme: una immobiliare, che i feudisti chiamano corporale, consistente in un castello o maniero colle sue dipendenze, circondate da mura e colle terre poste all’intorno «fin dove un cappone poteva giungere in un volo»; – una mobiliare, detta incorporale, consistente in obblighi militari, in giornate di lavoro gratuito (corvées), in decime e prestazioni diverse. La proprietà feudale, di cui la proprietà ecclesiastica non è che una variante, nasce nel seno delle comunanze di villaggio, fondate sulla proprietà collettiva, che si sviluppa poi a spese di quest’ultima; dopo una lunga serie di secolari trasformazioni, mette capo alla proprietà borghese, che è la forma vera della proprietà individuale.
La proprietà feudale e l’organismo sociale che ne consegue servono da transizione fra il collettivismo familiare o, per meglio dire, consanguineo, e l’individualismo borghese.
Nell’epoca feudale, alla proprietà ed al proprietario incombono delle servitù, ed essi non godono di quel diritto d’uso e d’abuso, che i borghesi chiamano indipendenza. La terra non può essere comprata e venduta a piacimento, essa è gravata da servitù e la sua trasmissione è regolata da consuetudini e da leggi che il proprietario non può trasgredire; – il padrone ha dei doveri verso i superiori e verso gl’inferiori gerarchici suoi.
La feudalità è, nella sua essenza, un contratto di servigi reciproci; il barone possiede una terra ed ha dei diritti sul lavoro e sui raccolti dei suoi servi e vassalli, a condizione soltanto di prestare certi servigi a colui che gli sovrasta ed a coloro che gli sono soggetti. Il signore feudale, ricevendo «la fede e l’omaggio» del vassallo, «si obbligava a proteggerlo verso e contro tutti, ed a porgergli aiuto in ogni circostanza»; – per procacciarsi questa protezione, il vassallo doveva seguire il suo signore in guerra e pagargli certi canoni consistenti in opere personali, in decime sulle messi ed in animali domestici. 1
Il barone, per avere aiuto e appoggio in caso di bisogno, si metteva sotto la protezione di un signore più potente, il quale a sua volta era vassallo di uno dei grandi feudatari del re o dell’imperatore.
Tutti i membri della gerarchia feudale, dal servo al re od all’imperatore, erano strettamente legati fra loro da reciproci doveri. Il dovere era l’anima della società, come oggi il lucro. Ogni cosa contribuiva ad infonderlo nell’intimo del cuore dei grandi e dei deboli. Quel primo e potente mezzo di educazione che è la poesia popolare, faceva del dovere una specie di religione. Rolando, l’epico eroe della feudalità, assalito e sopraffatto dai Saraceni a Roncisvalle, così rimprovera il fratello d’armi Oliviero, che si lagna d’essere stato abbandonato da Carlomagno:
...Ne dites tel ultrage.
Mal seit de l’coer ki el’ piz se cuardet!
Nus remeindrum en estal en la place;
Par nus i iert e li colps e li caples...
Pur sun seignur deit hum suffrir granz mals.
E endurer e forz freiz e granz calz.
Si ’n deit hum perdre de l’sanc e de la carn.
Fier de ta lance e jo de Durendal,
Ma bone espée que li Reis me dunat.
Se jo i moerc, dire poet ki l’avrat
Que ele fut a nobilie vassal!
Aoi. 2
Il collettivismo consanguineo aveva potuto dar vita all’unità comunale soltanto; la feudalità creò una vita provinciale e nazionale, unendo i gruppi autonomi e separati d’una provincia e di una nazione con una rete di doveri e di servigi reciproci.
Da questo punto di vista, la feudalità è una vera federazione militare di baronie.
I doveri del barone verso i servi, i livellari ed i vassalli erano gravi e numerosi; ma quando la feudalità volse in decadenza, egli se ne liberò, conservando intanto ed aggravando quei canoni e quelle prestazioni che i soggetti gli dovevano, e che erano anticamente il compenso dei servigi in realtà prestati dal signore. Non soddisfatto dell’essersi sbarazzato dei carichi feudali, elevò pretese sulle terre dei vassalli, sulle foreste e sugli altri beni comunali. I feudisti francesi, ai quali giustamente fu dato il nome di penne feudali, sostennero che la terra, i boschi, i prati e le acque erano in ogni tempo appartenute al signore, il quale non aveva fatto altro che concederne l’uso ai servi ed ai vassalli. I feudisti inglesi inventarono un’identica storiella; essi affermarono che, in un’epoca indeterminata, «posta qualche volta in modo vago al tempo della feudalizzazione dell’Europa, altra volta con maggior precisione alla conquista normanna, il territorio di tutta l’Inghilterra era stato confiscato; che le terre di ogni signoria erano state date in piena proprietà al signore, il quale ne aveva distribuito una parte agli uomini liberi che l’avevano seguito, ed aveva tenuto per sè un’altra parte, di cui aveva affidato la coltivazione ai servi; che tutte le terre non comprese in questa distribuzione, erano state lasciate da parte e considerate come terreni incolti appartenenti al signore; e che le consuetudini tutte, le quali non si possono riallacciare ai principj feudali, si erano venute formando col tempo, in modo quasi insensibile, a causa della tolleranza del signore feudale».3
In una parola, ogni cosa era appartenuta al barone, ed ogni cosa doveva essergli restituita. In seguito a tali impudenti falsificazioni, la nobiltà francese ed inglese potè impadronirsi delle foreste e delle terre che erano proprietà delle comunanze di villaggio.
Gli storici borghesi e Merlino, il terribile giurista della Convenzione e il gran distruttore dei beni comunali, bramosi di trovare la forma individuale della proprietà finanche nei tempi feudali, hanno accettato l’opinione interessata degli aristocratici.
La storia della genesi e dell’evoluzione della proprietà feudale dimostrerà che la tesi dei feudisti era falsa e metterà in chiaro come la proprietà signorile si sia invece costituita con la frode e con la violenza.
La feudalità, la quale non è altro se non l’organizzazione gerarchica dell’autorità, nacque e si sviluppò in un ambiente nel quale regnava l’uguaglianza; ma affinchè quest’ultima potesse dare vita al dispotismo, era necessaria la cooperazione secolare di eventi storici che è d’uopo ricordare.
Le tribù germaniche, che, durante secoli, invasero l’Europa occidentale, erano popolazioni nomadi in uno stato di barbarie simile assai a quello delle tribù irochesi al tempo della scoperta dell’America. Strabone racconta come i barbari abitanti nel Belgio e nel nord-est della Francia non conoscessero l’agricoltura e vivessero soltanto di latticini e di carne, soprattutto della carne fresca dei porci, che, selvaggi e pericolosi come lupi, pascolavano in liberi branchi nelle foreste immense ricoprenti il paese; essi erano tanto numerosi che bastavano a nutrire tutti gli abitanti ed a far possibile l’acquisto di altri oggetti di consumo e di lusso. Strabone aggiunge che i Galli avevano vissuto cogli stessi costumi, e che, per conoscerli, bastava studiare quelli dei Germani del suo tempo (lib. IV). Quando Cesare sbarcò in Inghilterra, trovò che anche i Bretoni dal paese di Kent avevano gli stessi costumi dei Galli: non coltivavano la terra, si nutrivano di latticini, di carne ed eran coperti di pelli di animali; si dipingevano il corpo di colore azzurro per incutere spavento ai loro nemici, e, tra fratelli, avevano comuni le donne. 4 In Europa, come in tutte le parti del mondo, il punto iniziale è sempre lo stesso.
Una feroce uguaglianza regnava fra questi barbari, che erano guerrieri e cacciatori; ed i loro usi e costumi tendevano a conservare quest’uguaglianza eroica.
Quando ponevano sede fissa e cominciavano a praticare un’agricoltura rudimentale, intraprendevano costantemente delle spedizioni militari, per non dimenticare il mestieri delle armi. Un capo rinomato annunziava ch’egli si proponeva di guerreggiare, e subito, da ogni parte, combattenti bramosi di bottino e di gloria accorrevano a schierarsi nelle sue file. Dovevano a lui obbedienza per tutta la durata della spedizione, come i guerrieri greci ad Agamennone; ma sedevano alla stessa tavola, mangiavano insieme senza distinzione alcuna, e si spartivano in porzioni uguali il bottino, estraendole a sorte; rientrati nel villaggio, ripigliavano la loro indipendenza e la loro uguaglianza, ed il capo guerresco deponeva la sua autorità.
Gli Scandinavi, e, nel fatto, la totalità dei barbari, hanno organizzato tutti i loro corpi di spedizione con questo sistema libero ed ugualitario. Queste usanze di pirateria si conservarono per tutto il medio evo; si arruolavano soldati facendo appello alla libera volontà individuale: per formare un esercito contro gl’Inglesi e gli Albigesi, Guglielmo il Conquistatore e Innocenzo III non fecero altro che promettere la divisione dei beni vinti.
Alla battaglia di Hastings, sul punto in cui le milizie stavano per attaccare la pugna, Guglielmo, alzando la voce, così parlò ai suoi soldati: Guardate di combattere bene, e di uccidere tutti, poichè se noi vinciamo, saremo tutti ricchi; ciò che io guadagnerò, voi lo guadagnerete; se riesco a conquistare, voi conquisterete; se m’impossesso della terra, voi l’avrete.
Il papa, per eccitare i fedeli allo sterminio degli eretici Albigesi, parlò loro come aveva fatto il figlio di Roberto il Diavolo: Su dunque, soldati di Cristo! Distruggete l’empietà con tutti i mezzi che Dio vi rivelerà (non rivelò loro che l’incendio, la morte ed il saccheggio); cacciate il conte di Tolosa dai castelli, lui ed i suoi vassalli, spogliateli delle loro terre, affinchè i cattolici ortodossi si stabiliscano nei dominj degli eretici (10 marzo 1208). Le crociate, le quali spinsero in Oriente la maggior parte dei guerrieri europei, erano organizzate allo stesso modo; esse pigliavano a pretesto la liberazione del santo sepolcro, ma avevano per scopo il saccheggio. 5
Quando i barbari, in cerca di terre, conquistavano un paese, ne uccidevano gli abitanti, appunto come avevano fatto gli Ebrei per ordine del loro buon Dio; ma per solito stavano paghi di porre a ruba le città e di impadronirsi delle terre di cui abbisognavano; si stabilivano poi nella campagna, ch’essi coltivavano a modo loro, lasciando che i vinti vivessero a loro daccanto, secondo le leggi ed i costumi proprj ad essi. E queste fondazioni di villaggi non erano fatte a caso od a capriccio, bensì colle norme della loro organizzazione tribale, come già Cesare aveva particolarmente constatato e come Elphinstone, il quale combattè i barbari dell’Afganistan6 sul finire del secolo scorso, ha confermato. Ogni tribù riceveva un territorio che veniva distribuito fra le gentes o clan abitanti in uno o più villaggi. Più villaggi uniti da vincoli di parentela formavano una centena (huntari, in tedesco antico; haradh in vecchio nordico), più centene una contea, più contee un ducato. Su questa organizzazione tribale i re merovingi innestarono un organismo politico rudimentale.
Il terreno che il villaggio non aveva occupato era lasciato a disposizione della centena; quello non assegnato alla centena apparteneva alla contea; di tutto quello che rimaneva – ed ordinariamente era una vasta distesa di terre – l’intiera nazione aveva l’immediato godimento.
In Isvezia si trovano ancora, l’uno accanto all’altro, tutti questi varj gradi di possesso, dice Engels; ogni villaggio possiede terre comunali; al di là di queste stanno le terre comuni della centena o dell’harads e della contea, ed infine quelle della nazione, che il re rivendica nella sua qualità di rappresentante della nazione, ma che tuttavia continuano ad essere chiamate terre comunali.7 Le terre della corona, in tutte le monarchie feudali, erano beni appartenenti alla nazione; non bisogna, p. es., confonderle coi poderi che i Merovingi possedevano a Braine, ad Attigny, a Compiègne, alla Verberie, etc... che appartenevano alla gens Merovingia. Ma, col diventare sedentari ed agricoltori e, più tardi, convertendosi al cristianesimo, i barbari perdevano poco a poco le loro abitudini guerresche, quantunque alcuni conservassero gli antichi costumi, dai quali non volevano assolutamente staccarsi.
I Germani conosciuti da Tacito avevano deposta già la loro primitiva rozzezza, erano sedentari e coltivatori; però la tribù dei Catti si dedicava in modo esclusivo alla guerra, essi attaccava primi la pugna, schierandosi nei punti più pericolosi; non avevano nè abitazioni, nè terre, nè alcuna sorta di cura; ed erano nutriti ovunque capitassero.
I guerrieri di grido delle altre tribù tenevano continuamente intorno a sè, con banchetti e regali, degli uomini fidi, pronti a seguirli nelle loro scorrerie.
Questi guerrieri Catti e questi prodi, infeudati ai capi militari, formavano una specie di esercito permanente, incaricato di difendere quei membri della tribù che si davano abitualmente ai lavori agricoli.
Ma, appena i barbari invasori avevano perduto l’abitudine della guerra, altri barbari piombavano su di loro come sopra di una preda. Per lunghi secoli, orde incalzanti di barbari si precipitarono sull’Europa; all’est, i Goti, gli Unni, i Germani; al nord, gli Scandinavi; al sud, gli Arabi.
Per proteggere le frontiere dalle invasioni, gli imperatori romani fondavano colonie di veterani, ai quali distribuivano terre, animali, grano e un po’ di denaro; gli stessi barbari venivano adoperati contro gli altri barbari – si dava loro del terreno e li si incaricava di difendere luoghi fortificati – ma questi argini della civiltà non resistevano all’irruzione barbarica.
E quando l’Oriente, il Nord, il Sud cessarono dall’inondare l’Europa con i loro fiumi umani, ed i barbari, fattisi sedentari, ripigliarono l’opera della civiltà, ch’essi avevano interrotto e distrutto, un nuovo flagello si scatenò: torme d’uomini armati andarono percorrendo i paesi, saccheggiando e taglieggiando; dopo ogni guerra, i soldati dei due eserciti nemici, fraternizzavano e facevano scorrerie per proprio conto. 8
Per secoli interi, in Europa si visse continuamente col timore di essere saccheggiati, fatti schiavi e trucidati.
Le invasioni, che rovinavano e disorganizzavano il paese, non impedivano alle tribù, che già vi si erano stabilite, di dilaniarsi fra loro.
Queste continue lotte intestine condannavano i popoli barbari all’impotenza di fronte agli stranieri, poichè non sapevano far tacere odii fra clan e clan, fra villaggio e villaggio, per opporsi efficacemente al nemico comune.
Tacito, il quale non pensava che alla dominazione romana, chiedeva agli dèi di tenere vivi questi odii così disastrosi; giacché, egli diceva «la fortuna nulla può dare di più propizio a Roma che il dissenso dei suoi nemici.»
Gli abitanti della campagna, per proteggersi contro tanti pericoli, fortificavano i loro villaggi, i quali nelle carte dell’Alvernia del XI° e XII° secolo sono designati col nome di castra, campi militari. Tutti gli abitanti, appartenendo allo stesso clan, erano uguali, si doveva perciò ricorrere all’elezione per nominare i capi incaricati della difesa, i quali cogli inviati del re, formarono lo stipite dei baroni feudali. 9
Questi ultimi, da principio non avevano altro ufficio che quello di esattore delle imposte (freda) provenienti dai compensi, di presidente delle riunioni popolari ove si amministrava la giustizia, di sovrintendente militare e di conservatore dell’ordine.
Essi erano soggetti all’autorità del consiglio degli anziani e dell’assemblea popolare. Quel conte (graffio), il quale, nelle tribù franche, non avesse cacciato dal territorio uno straniero, condannato all’espulsione dall’assemblea, era colpito da una multa di duecento soldi d’oro (lex salica): multa che rappresentava appunto la somma da pagarsi in compenso di un omicidio (wergeld).
I poteri, che divennero in seguito privilegio dei signori feudali, appartenevano alla comunità riunita in assemblee generali (folke-mootes); tutti gli abitanti dovevano prendervi parte in armi sotto pena d’un’ammenda. Alcuni comuni possedevano coloni e servi.
Le leggi del paese di Galles, raccolte nel 940 per ordine del re Hoël-Da e pubblicate nel 1841 da A. Owen, indicano il modo d’elezione, le qualità e le funzioni di questi capi di villaggio, le quali, con lievi differenze, sono uguali in tutte le tribù barbare. Il capo della gens o del clan era eletto da tutti i capi di famiglia che avevano mogli e figli legittimi; il suo potere durava per tutta la vita, presso altri popoli solo per un certo tempo; ma, in ogni caso, egli poteva sempre venir destituito. Doveva «esser pronto a parlare in favore dei parenti ed essere ascoltato; esser pronto a battersi per i suoi ed essere temuto; esser pronto a prestar garanzia per i congiunti ed essere aggradito.» Quando amministrava la giustizia, si faceva assistere dai sette anziani di maggiore età; aveva ai suoi ordini un vendicatore (avenger) incaricato di eseguire le vendette; poichè allora la giustizia consisteva nella legge del talione, cioè nella vendetta, colpo per colpo, ferita per ferita, danno per danno.
Al primo allarme, dopo che si era chiamato il popolo a raccolta con alte grida – haro in Normandia, biafor presso i Baschi – tutti gli abitanti dovevano uscir di casa in armi e mettersi agli ordini del capo; egli era il comandante militare e tutti dovevangli obbedienza e fedeltà; colui che non rispondeva all’appello era condannato ad un’ammenda. Gli abitanti erano organizzati militarmente; così, a Tarbes, essi dividevansi in tanti gruppi di una diecina di uomini per ciascuno, comandati da un dizainier (decurione) incaricato di vegliare a che tutti avessero le armi e queste fossero in buono stato. 10
Ogni funzione tende presso i barbari a perpetuarsi in una stessa famiglia: di padre in figlio si è tessitore, fabbro-ferraio, stregone o prete: in questo modo nascono le caste.
Il capo, incaricato del mantenimento dell’ordine interno e della difesa esterna, era scelto dapprima fra tutti gli abitanti; ma coll’andar del tempo si prese l’abitudine di eleggerlo nella medesima famiglia, tanto che questa finì col designarlo da sè, senza più ricorrere alla formalità dell’elezione.
Si errerebbe credendo che le funzioni di capo costituissero da principio un ambito privilegio; erano invece un peso grave e pericoloso, perché sui capi ricadeva la responsabilità di ogni cosa.
Una carestia era, secondo gli Scandinavi, segno certo della collera divina: chi ne andava di mezzo era il loro re, che veniva deposto e qualche volta ucciso. Queste funzioni erano così poco desiderate che l’eletto dall’assemblea popolare, il quale cercava di sottrarvisi, incorreva nell’esilio, e la sua casa, bene sacro ed inviolabile della famiglia, era distrutta.
La consuetudine antica di Amiens dice:
«Se li maires qui eslus seroit refusoit le mairie... et se aucuns refusoit l'esquivinage, on abateroitse maison11».
Gomme cita pene simili nelle consuetudini di Folkestone e di Hastings per i capi di villaggio e per i giurati che, eletti, rifiutassero di entrare in carica.12
Le comunanze di villaggio dell’India, che furono studiate ai giorni nostri, hanno dei tessitori, dei fabbri, dei maestri di scuola, dei bramini, delle danzatrici sacre, etc., – che sono pubblici funzionari, i quali devono i loro servigi alla comunanza, che li rimunera alloggiandoli e dando loro un assegno da prelevarsi sui raccolti e sul bestiame; a volte concede loro del terreno, coltivato in tutto o in parte dagli abitanti. 13
I capi eletti dei villaggi europei erano trattati come i funzionari indiani; i loro compagni, in cambio dei servigi da essi prestati alla comunità, assegnavano loro, nelle spartizioni agrarie, una quantità di terra più grande di quella degli altri abitanti; – così nel borgo di Malmesbury, l’alderman, che ne era il capo, veniva ricompensato con un tratto supplementare di terra che prendeva il nome di cucina dell’alderman; – e, affinchè potessero dedicarsi alle funzioni pubbliche, aravano i loro campi e davano loro le primizie dei raccolti e del gregge ch’essi avevano l’incarico di proteggere.14 Il mestiere di capo non era una sinecura; egli doveva star sempre in guardia, pronto a pigliar le armi. Gomme riproduce un disegno di un manoscritto dell’XI secolo, il quale rappresenta dei mietitori che tagliano il grano sotto la sorveglianza di un guerriero armato di lancia.
I capi eletti non si distinguevano dapprima dal comune degli abitanti; ma il fatto di sceglierli sempre nell’istessa famiglia finì col creare un privilegio che presto si trasformò in un diritto ereditario; il capo della famiglia privilegiata divenne, per diritto di nascita e senza che più si dovesse eleggerlo, capo naturale della comunanza. L’autorità reale non ebbe un’origine diversa nelle tribù franche: la gens dei Merovei forniva i capi militari, come la tribù di Levi dava i sacerdoti agli Ebrei; ma i guerrieri eleggevano quello fra i Merovei ch’essi volevano avere a capo; Pipino il Breve non solo si fece eleggere dall’assemblea dei guerrieri, ma, per mascherare la sua usurpazione, si fece consacrare dal vescovo di Magonza e dal papa Stefano III, che lo chiamò «l’unto del Signore». I re merovingi non emanavano nessun ordine nè lettera alcuna di privilegio, i quali non contenessero la formola seguente: Una cum nostris optimatibus (d’accordo con i nobili nostri), De consensu fidelium nostrorum (con il consenso dei nostri fedeli), ecc.
Le leggi saliche e ripuarie e le ordinanze dei primi re franchi non sono promulgate in nome di un principe. 15
Può darsi che il capo del villaggio fosse qualche volta eletto anche perchè, avendo la casa più spaziosa e più facile da essere difesa, gli abitanti vi si sarebbero più facilmente potuto rifugiare in caso di assalto.
Questo vantaggio strategico, che dapprima era accidentale, viene ad essere poi una delle condizioni richieste nei capi: nei villaggi indiani posti alla frontiera, the burj, la torre, è sempre vicina alla casa del capo ed è costantemente adoperata come luogo di rifugio e di osservazione.
Nei tempi feudali, non si poteva diventar signore se non si aveva «un castello o una casa fortificata con un cortile difeso da fossi o da ponti levatoi, contenente una gran torre quadrata ed un mulino a mano»,16 affinché i contadini potessero mettere al sicuro i loro raccolti ed il loro bestiame, macinare il grano e prepararsi alla difesa.
La casa del capo era considerata come una specie di casa comune; essa lo diventava realmente nel momento del pericolo. Gli abitanti del villaggio vi praticano le necessarie riparazioni, scavavano i fossati, fortificavano le muraglie; nei villaggi collettivisti è costume che tutti gli abitanti concorrano a riparare od a costruire la casa di un membro qualsiasi della comunità.
Quest’uso è l’origine del diritto che spettava al signore feudale di «costringere i suoi vassalli e censuarii a lavorare per la costruzione delle fortificazioni, s’egli avesse titolo per poter ciò fare, ed anche senza titolo alcuno, quando si fosse in tempo di guerra». L’origine di questo diritto è del resto ben dimostrata dal seguente commento di uno scrittore feudista: «E siccome queste fortificazioni servono ugualmente alla sicurezza delle campagne e delle città ed alla conservazione delle persone e dei beni, qualora i foranei posseggano dei beni in paese, essi devono contribuirvi».
I barbari, meglio guerrieri che coltivatori, difendevano tutti insieme il villaggio e la casa fortificata; alla prima chiamata accorrevano armati e si ponevano ai comandi del capo per dargli aiuto e respingere l’aggressione; di giorno, tutti facevano, per turno, la guardia nella torre d’osservazione e di notte invigilavano; in molti luoghi il signore conservò fino alla Rivoluzione il diritto di pretendere dai suoi vassalli questo servizio di sorveglianza. Ma, quando le abitudini agricole ebbero il sopravvento, i contadini, per essere dispensati dagli obblighi militari, che loro impedivano di accudire ai lavori dei campi, li mutarono in canoni da pagarsi al capo, a condizione ch’egli assoldasse dei guerrieri esclusivamente destinati alla difesa ed alla sorveglianza; parte delle multe applicate ai delinquenti era di spettanza del capo e dei suoi militi. In questo modo si fornivano al capo i mezzi per mantenere una forza armata colla quale gli era agevole signoreggiare i suoi antichi compagni ed imporre loro la sua volontà.
Il villaggio, posto nella migliore posizione strategica, divenne presto un centro ove gli abitanti dei villaggi vicini si rifugiarono in caso di invasione; e per avere questo ricovero nel tempo del pericolo, essi dovettero contribuire al mantenimento delle fortificazioni e dei soldati. Il capo di questa preminente comunanza di contadini estese la sua autorità su tutti i paesi vicini.
Sorsero così naturalmente, nei villaggi collettivisti, i cui membri maschi erano tutti uguali nei diritti e nei doveri, i primi elementi del feudalismo; i quali sarebbero certo rimasti stazionari per secoli interi, come nelle Indie, se gli eventi esterni non li avessero posti in moto, infondendo loro una forza novella. Le guerre e le conquiste svilupparono questi germi, li unirono e li fusero mediante doveri e diritti reciproci, in un vasto organismo sociale, che, nell’evo medio, si estese in tutta l’Europa occidentale.
Ciò che è accaduto nei tempi moderni nell’India ci fa comprendere quale sia stata l’influenza della conquista sulla trasformazione dei capi delle comunanze di villaggio in baroni feudali. Quando gl’Inglesi stabiliti sulla costa estesero la loro dominazione all’interno, vennero a contatto con villaggi organizzati nel modo sopra descritto; ogni gruppo agricolo aveva a capo un contadino (l’headman, come lo chiama il Sumner-Maine) il quale parlava a nome della comunanza, e trattava coi conquistatori. Le autorità inglesi non si diedero la pena di studiare le origini e la natura del suo potere, nè la vera posizione di lui nel seno della comunanza; trovarono invece ch'era molto più semplice considerarlo come padrone del villaggio del quale egli non era che rappresentante, e lo trattarono come tale. Ne ingrandirono e ne rassodarono l’autorità con tutti i mezzi che dava loro il diritto del più forte; ed in molte circostanze aiutarono i capi di villaggio a sottomettere i loro antichi compagni e a spogliarli dei loro diritti e dei loro beni. I Francesi e gli Inglesi avevano tentato inutilmente di dare un’autorità simile ai sachems degli Irochesi.
I conquistatori del tempo di mezzo agirono in modo analogo; non toccarono i capi locali di quei villaggi che, per la poca importanza loro, non valeva la spesa di dare in compenso ai fedeli del seguito, e li resero responsabili del pagamento delle imposte e della condotta dei loro amministrati; in questo modo diedero loro nelle comunanze un’autorità che prima non avevano. Ma nei punti strategici i vincitori sostituirono al capo di villaggio uno dei loro guerrieri; era un ufficio militare che veniva loro affidato.
La durata dell’occupazione di queste cariche, dette benefizj, dipendeva dalle circostanze; secondo i compilatori dei libri dei feudi, i beneficiarj erano in origine revocabili, poi nominati per un anno, indi a vita, ed infine ereditarj e perpetui. Per convertire i benefizi in beni ereditarj e in allodi (terre libere da qualsiasi diritto signorile), ogni circostanza era buona; in Francia, i re della seconda dinastia dovettero spesso prendere provvedimenti contro simili abusi. «Colui il quale gode di un benefizio imperiale o della Chiesa non ne trasferisca alcunchè nel patrimonio proprio», dice Carlomagno in un capitolare dell’803 (Cap. VII, c. III). Ma le ordinanze non poterono impedire queste trasformazioni dei capi militari in baroni feudali.
Si può dunque conchiudere che il feudalesimo ebbe una doppia origine, indigena l’una, straniera l’altra; esso nacque dalle necessità frammezzo a cui vivevano le comunanze di villaggio, e dalla conquista.
I baroni feudali, sia che fossero capi di comunanze trasformatesi per via delle circostanze naturali, sia che fossero capi militari imposti dai vincitori, erano obbligati a risiedere nel paese, che dovevano difendere ed amministrare. I beni da essi posseduti e le taglie che riscuotevano dagli abitanti sotto forma di lavori gratuiti e di decime, erano la ricompensa dei servigi resi ai contadini posti sotto la loro giurisdizione. I baroni ed i loro uomini d’arme formavano un esercito permanente e sedentario, nutrito e pagato dagli abitanti medesimi da essi protetti.17
Il barone doveva giustizia, aiuto e protezione ai suoi vassalli; questi dovevano a lui «fedeltà e omaggio». Ad ogni mutazione che accadeva per morte del signore o del vassallo, quest’ultimo doveva presentarsi in persona, – non mai per via di rappresentante – al castello principale e non altrove, per dimostrare chiaramente come egli giurasse fedeltà solo per avere un riparo nel castello del barone; se il signore non era presente, nè aveva lasciato altri per rappresentarlo, il vassallo, dopo aver assunte le debite informazioni, giurava la fede innanzi alla porta del castello e ne faceva stendere un processo verbale. Egli doveva porsi in atteggiamento supplichevole, chiedere protezione a capo scoperto, senza spada e senza speroni, inginocchiarsi, e giungere le mani. Il signore, per ricevere la fede, metteva le mani del vassallo fra le sue in segno di unione e di protezione. Il vassallo faceva allora la «dichiarazione e l’enumerazione», diceva cioè quali e quante terre e dipendenze egli ponesse sotto la protezione del barone; nei primi tempi portava seco una zolla di terra dei suoi campi.
Talvolta era il signore che per primo impegnava la sua fede ai vassalli. Nei fors (consuetudini) di Bigorra è detto che il conte di Bigorra, «prima di ricevere il giuramento degli abitanti del paese a ciò deputati, presterà egli stesso giuramento, promettendo di non toccare per nulla le antiche usanze nè quelle ch’egli troverà presso gli abitanti; farà confermare il giuramento suo da quello di quattro nobili della sua terra».
Il vassallo doveva schierarsi nelle file del suo signore «quando un esercito straniero avesse invaso la sua terra, quando il barone volesse liberare il proprio castello assediato, o quando muovesse una guerra dichiarata», intrapresa cioè nell’interesse degli abitanti dei suoi dominii. Però, quantunque strettamente vincolato, il vassallo poteva, negl’inizj dell’organizzazione feudale, abbandonare il proprio signore in certi casi specificati nei capitolari dell’813 e dell’816, che sono i seguenti: «Quando il signore ha tentato di ucciderlo, di ridurlo in servitù, di percuoterlo con un bastone o con una spada, di disonorarne la figlia o la moglie, o di carpirgli il patrimonio.»
Quando l'autorità sua fu definitivamente stabilita, la nobiltà feudale divenne, a sua volta, cagione di torbidi in quegli stessi paesi che essa aveva incarico di proteggere. I baroni, per ingrandire le loro terre ed estendere la loro autorità, andarono guerreggiando gli uni contro gli altri senza tregua, deponendo le armi solo di tanto in tanto, affinchè gli abitanti potessero coltivare i campi.
Si può paragonare questa guerra fra baroni alla concorrenza, non interrotta da tregua alcuna, che regna fra gl’industriali ed i commercianti d’oggidì. Il risultato è lo stesso, poichè entrambe mettono capo all’accentramento della proprietà e della potenza sociale che è in relazione con essa.
Il vinto dei tempi feudali, quando non era spogliato interamente ed ucciso, diventava vassallo del vincitore, il quale s’impadroniva di parte delle sue terre e dei suoi vassalli. I piccoli baroni scomparvero così per opera dei potenti, che divennero grandi feudatari e tennero delle corti ducali a cui i baroni vassalli dovevano intervenire.
Ben sovente i baroni si trasformavano in veri briganti e battevano la campagna, devastandola e ponendo a taglia i viaggiatori e le città, tanto da meritare ampiamente gli epiteti di gens-pille-hommes e di gens-tue-hommes che loro si davano. 18 Le città furono costrette a mettersi in armi ed a porsi sotto la protezione del re o dei grandi feudatari, che accentravano le terre e la potenza feudale e trasformavano i baroni in cortigiani.
Man mano che i piccoli signori andavano scomparendo, le guerre intestine si spegnevano, la tranquillità ritornava nelle campagne, e la necessità della protezione feudale diminuiva; i signori poterono allora lasciare le loro terre e recarsi alle corti ducali e reali dove si dettero al mestiere di cortigiani, poichè il loro antico ufficio di protettori dei vassalli e dei censuari era diventato inutile.
Non avendo più il coltivatore bisogno di essere difeso militarmente, il feudalesimo non aveva più ragion d’essere. Sorto dalla guerra, morì a cagion della guerra; le qualità guerresche, che gli avevano dato origine, gli servirono per distruggere sè stesso.
Però, finchè il feudalismo ebbe vita, alcune tracce di quell’antica uguaglianza nel cui seno era nato, si conservarono ancora dopo che ogni uguaglianza era scomparsa fra il signore ed i suoi vassalli e livellari.
Il barone ridiveniva loro uguale nell’assemblea comunale in cui regolavansi gl’interessi agricoli del villaggio e del signore; quest’assemblea poteva adunarsi senza l’autorizzazione di lui e finanche ov’egli si rifiutasse di convocarla, com’era dover suo; il diritto d’uso dei beni comunali era limitato pel barone come per gli altri abitanti; ed era determinata la quantità di bestiame ch’egli poteva farvi pascolare.
Delisle, nel suo studio sulle classi agricole della Normandia, cita dei testi che provano come il diritto dei nobili fosse poco esteso: così il signore di Bricqueville non poteva mandare al pascolo nei prati del comune più di due buoi e di un cavallo. I suoi privilegi erano così miseri, che nel La Poix de Fréminville si può leggere come «il signore che non possiede bestiame non possa introdurne dal di fuori, sia coll’affittare, sia col vendere, sia coll’imprestare gratuitamente il proprio diritto d’uso.»19
La proprietà ecclesiastica ebbe un’origine, se non identica, analoga a quella della proprietà signorile. In quei tempi burrascosi cercavasi protezione tanto presso i baroni quanto presso la Chiesa, per i beni e per la persona. Il prete aveva un potere che il barone non possedeva: egli apriva le porte del cielo. La fede era ingenua, ma ardente e profonda; l’epopèa e la canzone popolare, questa espressione sincera dei sentimenti e degl’intimi pensieri della moltitudine, riconoscono al prete il potere di salvare dalle fiamme dell’inferno e di dare un posto in paradiso.
Nella Canzone di Rolando, l’arcivescovo Turpino, per rianimare alla pugna i cavalieri che indietreggiano, promette loro il paradiso e nello stesso tempo li minaccia della temuta canzon popolare:
Signurs baruns, nen allez mespensant;
Pur Deu vus pri que ne seiez fuiant,
Que nuls prozdum malvaisement n’en cant!
Asez est mielz que moerium cumbatant.
Pramis nus est, fin prendum aïtant,
Ultre cest jur ne serum plus vivant,
Mais d’une chose vus sui jo bien guarant:
Seinz Pareïs vus iert abandunant;
As Innocenz vus en serez seant.20
Il clero aveva dato ad intendere che l’avarizia era il primo ed il più importante attributo di Dio e che i suoi santi negoziavano la loro influenza e la loro protezione; il che faceva dire a Clodoveo che «San Martino serviva bene gli amici, ma faceva pagare a troppo caro prezzo il suo disturbo.» Sul punto di morire, si donavano i propri beni alla Chiesa, per esser certi di salire in paradiso; queste donazioni, lasciate prima alla volontà dei credenti, finirono col diventare obbligatorie. «A chiunque fosse morto senza aver lasciato una parte dei suoi beni alla chiesa, dice Montesquieu, (dicevasi in questo caso che egli era morto «déconfès» – sconfesso), negavasi la comunione e la sepoltura. Se moriva ab intestato, i parenti dovevano ottenere dal vescovo la nomina – alla quale però concorrevano essi pure – di più arbitri, per decidere di che cosa il defunto avrebbe dovuto fare donazione, ove egli avesse fatto testamento» ( Esprit des lois, lib. XXVIII, cap. XLI). I preti facevano del loro meglio per assicurarsi tali proventi, e spingevano i fedeli a spogliarsi dei loro beni mentre erano in vita, lasciando che ne godessero l’usufrutto sino al giorno della morte.
La paura che il mondo finisse nel mille moltiplicò le donazioni ai preti ed ai conventi in modo considerevole; a che pro’ difatti conservare i beni di questo mondo, mentre uomini e bruti dovevano perire, e l’ora del giudizio universale stava per suonare? Ma quando, senza cataclisma alcuno, il mille fu trascorso, tutti si riebbero dalla paura e rimpiansero amaramente quei beni che, per un falso timore, essi avevano in vita regalato con tanta premura.
Per intimorire questa buona gente che rivoleva i suoi beni, la Chiesa ricorse agli anatemi ed alle maledizioni. I cartolari dell’epoca sono pieni di queste formule di maledizione destinate a sbigottire l’animo dei donatori e dei loro parenti; eccone una che si incontra spesso nel registro dell’Alvernia:
«Se uno straniero, se un vostro parente, se vostro figlio, se vostra figlia, fossero tanto dissennati da impugnare quest’atto per impadronirsi dei beni dedicati a Dio e consacrati ai santi suoi, siano colpiti, come Erode, da un’atroce ferita; come Dathan e Abiron, come Giuda che vendette il Signore, cadano fra le torture, negli abissi dell’inferno.» 21
I beni della Chiesa ebbero però anche altre origini. Beaumanoir, enumerando le cause che avevano tanto moltiplicato il numero dei servi nel regno, dice che molti uomini liberi avevano venduto sè stessi ed i loro eredi, sia per miseria, sia per essere protetti dal padrone contro i loro nemici; e che degli uomini liberi si erano obbligati, per devozione, a fare certe prestazioni od a pagare certi canoni ad una chiesa o ad un monastero, essi ed i loro eredi; l’origine di tale soggezione fu dimenticata ed essa fu tenuta come prova di una vera servitù. (Coutumes du Beauvoisis, cap. XLV).
I deboli si davano alla Chiesa per avere la sua protezione temporale. La maggior parte degli atti di schiavitù volontaria (obnoxatio), dice Guérard, era originata dallo spirito di divozione, dalle cure che i vescovi e gli abati avevano per i loro servi e dai vantaggi che la legge dava loro. I servi ed i vassalli della Chiesa e dei conventi godevano degli stessi privilegi che appartenevano al re; in caso di ingiuria, di ferita o di morte, avevano diritto ad un compenso triplo di quello degli altri. Il re e la Chiesa si incaricavano di ricercare il colpevole, mentre ordinariamente questo fastidio incombeva alla famiglia dell’offeso.
I conventi erano vere fortezze capaci di sostenere grandi assedj, ed i monaci si addestravano nel mestiere dell’aroni; ad Hastings, gente di Chiesa combatteva nell’uno e nell’altro esercito; l’abate di Hida, convento posto nelle vicinanze di Winchester, aveva condotto ad Aroldo dodici monaci; tutti caddero combattendo.
Gli alti dignitari della Chiesa erano capi militari che si toglievano di dosso l’abito e la croce per vestir la corazza e impugnare la lancia. Certi vescovi, come quello di Cahors, quando uffiziavano in modo solenne, ponevano sull’altare l’elmo, la corazza, la spada e il guanto di ferro. A Roncisvalle, Rolando non sa fare migliore elogio di Turpino che col dire ad Oliviero:
Li Arcevesques est mult bons chevaliers:
Nen ad meillur en terre, desuz ciel,
Bien set ferir e de lance e d’espiet.
..............
Dient Franceis: «Ci ad grant vasselage;
En l’Arcevesque est bien la croce salve,
Kar placet Deu qu’asez de tels ait Carles.
Aoï»22
Nei tempi feudali, i chierici erano i soli che avessero qualche istruzione; la adoperavano, come la spada, in servigio dei parrocchiani che li nutrivano. Spesse volte si interponevano fra le popolazioni rurali ed il signore, che le opprimeva; ai giorni nostri, in Irlanda, il basso clero fa causa comune contro i lordi insieme con gli affittavoli e coi contadini che li mantengono.
Se stretta era l’unione fra il prete ed il popolo delle città e del contado, il clero doveva invece lottare sovente colla nobiltà feudale. Poichè, se in un accesso di esagerato timor religioso e di pietà febbrile, i baroni si decidevano a spogliarsi di una parte dei loro beni per farne dono ai conventi ed alle chiese, nei momenti di calma agognavano i beni dei monaci e dei preti ed approfittavano della prima occasione per impadronirsene.23
I re delle prime dinastie ed i capi militari davano ai loro fedeli ed ai loro soldati delle chiese e dei monasteri; dall’VIII al XII secolo un gran numero di chiese erano possedute da laici.24 I re di Francia avevano conservato fino alla rivoluzione il droit de régale (diritto di regalia), che loro attribuiva tutte le rendite dei benefizi vescovili vacanti. I re feudali credevano che i beni ecclesiastici fossero accumulati dalla Provvidenza per sopperire ai loro bisogni urgenti; essi taglieggiavano le chiese ed i conventi con la stessa disinvoltura con la quale estorcevano l’oro agli ebrei.
«Ma al clero era fatto un così gran numero di donazioni, dice Montesquieu, che tutti i beni del regno gli erano stati certo regalati più volte nel corso delle tre stirpi.» Quando Enrico VIII, il Barba-Bleu della storia inglese e pontefice supremo dell’Inghilterra, riformò la Chiesa cattolica, confiscò 645 conventi, 90 collegi, 2,374 chiese e cappelle libere, 110 ospedali, con le loro rendite ammontanti a più di 50 milioni annui, egli imitò così i suoi predecessori, ma su vasta scala.
I borghesi rivoluzionari dell’89, coll’impadronirsi dei beni ecclesiastici non fecero, in fondo, che seguire l’esempio dato dai cristianissimi re di Francia.
Gli obblighi feudali sopravvissero ai baroni, scomparsi perchè inutili; essi divennero l’appannaggio dei nobili, spesso d’origine borghese, i quali non rendevano più alcuno di quei servigi di cui quegli obblighi erano dapprima il compenso. Attaccati con violenza dagli scrittori borghesi e difesi energicamente dai feudisti, essi vennero soppressi in modo definitivo dalla rivoluzione borghese del 1789.
La rivoluzione borghese inglese, avvenuta un secolo e mezzo prima, portò la borghesia al potere col porre la Camera dei Comuni a lato della Camera dei signori; ma lasciò sussistere molti privilegi feudali, che sono oggi veri anacronismi, perchè la classe aristocratica non è più – nel senso vero della parola – che una frazione della classe capitalistica.
Gli economisti e gli storici liberali del nostro secolo, invece di ricercare l’origine delle servitù feudali e la loro ragion d’essere nel tempo scorso, e di spiegare la loro soppressione col venir meno delle cause che le avevano fatte nascere, hanno creduto fare mostra di scienza e di liberalismo condannando senza eccezione tutto ciò che, più o meno, ha tratto al feudalesimo. Eppure, se si vuol capire l’organizzazione sociale dell’età di mezzo, è necessario conoscere in che cosa consistano queste servitù, che sono la forma mobiliare della proprietà feudale.
Sarebbe troppo lungo esaminare una per una tutte le servitù feudali; mi fermerò soltanto su quelle che hanno maggiormente sollevate le ire degli scrittori borghesi; dimostrerò che, se vennero mantenute ed aggravate colla forza, esse furono da principio liberamente consentite.
Giornate di lavoro gratuito (corvée) – Si è visto come il barone feudale, quando non era un capo militare imposto da un conquistatore, ordinariamente fosse un semplice cittadino del comune, il quale non godeva di alcun privilegio di fronte agli altri abitanti, uguali suoi; egli riceveva il suo pezzo di terra nelle spartizioni agrarie, ma non lo coltivava, perchè i suoi concittadini lavoravano in vece sua, affinchè gli fosse possibile di dedicare tutto il suo tempo alla difesa del comune. Haxthausen ha constatato come il signore russo continuasse a ricevere il quarto ed il terzo delle terre del mir, e le facesse coltivare dagli abitanti del villaggio.
Latruffe-Montmeylian dice che in Francia «la porzione attribuita al signore sui beni comunali variava secondo la natura dei diritti degli abitanti. Essa era di due terzi quando i contadini godevano del diritto d’uso della foresta padronale, e solo del terzo quando questi non potevano valersi del diritto d’uso che si esercitava solamente nella foresta comunale.»25
Quando i beni dei conventi e dei baroni presero sviluppo, i servi, che essi avevano, non bastarono più a lavorare le terre, ed i padroni ne affidarono la coltivazione a comunanze di contadini liberi, che, per usare l’espressione caratteristica di quel tempo, vivevano «alla stessa pentola ed allo stesso pane.»
Però i livellari, fossero essi liberi o servi, avevano l’obbligo di lavorare per il padrone durante un certo numero di giorni, sia per arare i campi di lui, sia per metterne al coperto i raccolti.
In quei tempi, non essendovi nè produzione mercantile nè commercio, il barone ed il contadino dovevano fabbricare tutto ciò che loro abbisognava.26
Nella casa feudale e nell’abbazia eranvi laboratori di ogni specie per la fabbricazione delle armi, degli utensili agricoli, dei tessuti, delle vesti, etc. I contadini, le mogli e le figlie loro erano tenuti a lavorarvi ogni anno per un certo numero di giorni. I laboratori delle donne erano diretti dalla castellana in persona, ed erano chiamati ginecei (gynecia). I conventi, anch’essi, avevano laboratori femminili.27 Questi laboratori non tardarono a trasformarsi in tanti harem pei baroni e pei loro famigli, ed anche in veri luoghi di corruzione ove i signori ed i preti prostituivano le loro serve e le loro vassalle; il nome di gyneciaria (operaia del gineceo) divenne sinonimo di meretrice. Lo scandalo crebbe a tanto, che i vescovi dovettero proibire ai parroci di avere dei laboratori simili.
Come si vede, il bordello, nel mondo moderno, ha avuto un’origine religiosa ed aristocratica.
I giorni di lavoro ch’eran dovuti al barone dai vassalli e dai fittavoli liberi erano da principio poco numerosi; in certi luoghi non assommavano che a tre ogni anno;28 diverse ordinanze reali ne fissarono il numero a dodici all’anno, in mancanza di contratto o di consuetudine. Le giornate dei servi erano invece più numerose; ordinariamente erano tre per settimana, ed in compenso il servo usufruiva pienamente del campicello concessogli e dal quale non lo si poteva espellere; inoltre riceveva una parte dei raccolti del barone ed aveva il diritto di pascolo nelle foreste e nelle terre a coltivo di lui.
Il conte di Gasparin, che fu ministro dell’agricoltura sotto Luigi XVIII, nel suo trattato sulla mezzadria pubblicato nel 1821, non dubita punto di riconoscere, per ciò che riguarda il proprietario fondiario, la superiorità della mezzadria sul regime del lavoro gratuito obbligatorio.29
Ma, sul declinare del feudalismo, i signori abusarono del loro potere per accrescere i giorni di lavoro obbligatorio; «essi avevano acquistato un’autorità così grande, scrive Giovanni Chenu (autore del principio del secolo decimosettimo) che costringevano ad arare la terra, a vendemmiare, a far mille lavori diversi, senz’altro titolo che il timore dei servi d’esser bastonati o angariati dalla soldatesca.» Quando la pace regnò – più o meno – nell’interno degli stati europei, non avendo più i contadini bisogno d’esser protetti, la nobiltà cortigiana, che successe ai baroni feudali, divenne parassita e tiranna.
Bando delle messi (Bans de moisson). – Si è creduto generalmente che il diritto del barone di bandire il giorno nel quale si dovevano falciare i prati, o vendemmiar l’uva, o mietere il grano, etc. fosse di origine puramente feudale, mentre invece risale all’epoca in cui la proprietà collettiva era in fiore. Abbiamo veduto più sopra come, affinchè il bestiame della comunanza potesse pascolare nelle terre a coltivo, il consiglio degli anziani del villaggio stabilisse il giorno pei diversi raccolti. A questa consuetudine, stabilita nell’interesse di tutti gli abitanti, non venne meno il suo vero scopo che quando il signore cominciò a negoziare i proprj raccolti. Egli soppiantò il consiglio degli anziani o pesò sulle deliberazioni, tanto da far tardare la proclamazione del bando delle messi, per aver agio di raccogliere i prodotti delle sue terre prima degli altri, e potere così venderli per primo a migliori condizioni.
Banalità:30. – Quantunque il nome sia feudale, l’uso che designa data dall’epoca comunista.
Nelle collettività di villaggio certe funzioni erano esercitate, come abbiamo veduto, da individui mantenuti a spese della comunanza; il villaggio aveva un pubblico mandriano per condurre al pascolo il bestiame di tutti gli abitanti; aveva pure fucine, beccherie, molini, animali riproduttori destinati al servizio del comune. Ogni famiglia invece di scaldare il suo forno per cuocere il pane, lo mandava al forno banale o comunale: quest’usanza era stata stabilita con uno scopo economico, per ridurre cioè al minimo il consumo della legna da ardere. La custodia e la conservazione del forno erano affidate al consiglio degli anziani, più tardi al signore, il quale, ovunque ebbe la convenienza di farlo, sostituì la propria autorità a quella dei rappresentanti del comune. L’imposta riscossa per l’uso delle cose banali era minima: in un’ordinanza del 1223 emessa da Guglielmo Biancamano, arcivescovo di Reims, è detto che questo prelato «avrà il forno banale e riscuoterà un pane per ogn’infornata di trentadue pani.»
Boucher d’Argis cita varie decisioni del 1563 e del 1673, che stabiliscono la molenda nei molini banali ad un sedicesimo ed a un tredicesimo; oggidì si calcola che il mugnaio prelevi più del decimo.31
Simili istituzioni non potevano esistere che nella mancanza di ogni produzione mercantile; esse erano di impaccio allo sviluppo del commercio ed impedivano ai privati di sfruttare la comunanza: i borghesi rivoluzionari di Francia le tacciarono di feudalità e le abolirono nel 1790.
La Chiesa – Il parroco era unito in istretto vincolo colle popolazioni rurali che lo sceglievano, lo nutrivano, e che egli istruiva, divertiva colle leggende religiose, ricreava colle cerimonie del culto e con altre rappresentazioni drammatiche sacre, e proteggeva contro il barone; il legame che univa in quei tempi il prete al popolo si manifesta nel carattere che aveva allora la Chiesa. Il tempio di Dio, che finì poi col divenire proprietà esclusiva del clero e coll’essere chiuso al pubblico nelle ore non destinate al culto, era allora proprietà comune del parroco, del barone e dei contadini. Il coro e l’altare appartenevano ai decimatori, cioè al signore ed al prete; i quali erano «tenuti a fare tutte le riparazioni del coro; muri volte, pareti, rivestimenti, pavimenti, sedie, stalli, invetriate, altari e quadri... Gli abitanti della parrocchia dovevano conservare e riparare la navata, perchè loro apparteneva», dice La Poix de Fréminville. Questi ultimi tenevano in chiesa i loro mercati, le assemblee comunali, le riunioni di ballo, e vi racchiudevano i raccolti in caso d’urgenza.32
Charold Rogers dice che in Inghilterra la chiesa era ovunque una sala comune di riunione della parrocchia ed una fortezza nei momenti di pericolo; essa era costrutta nel luogo che i primi occupanti del paese avevano afforzato con palizzate.33 Il tempio di Dio era una volta un luogo sacro per depositarvi gli oggetti preziosi; gli Ebrei facevano del tempio di Gerusalemme, i Romani di quello di Vesta, i Greci di quello di Delfo, delle banche di deposito per i loro tesori.
Le campane delle chiese del medio evo appartenevano ai contadini, i quali le suonavano per annunziare le assemblee ed avvertire in caso di incendio o di assalto; negli archivi giudiziari delle province francesi del XVII e XVIII secolo si fa spesso menzione di sentenze emesse contro campane accusate di aver dato avviso ai contadini della venuta degl’impiegati del fisco e delle milizie reali di sicurezza; esse erano condannate ad essere calate giù e flagellate per mano del carnefice, «quantunque fossero benedette e consacrate in una cerimonia delle più solenni, poichè vi si fa uso del santo crisma, dell’incenso e del mirto e vi si recitano molte preghiere». La chiesa era la casa di Dio, innalzata di fronte al maniero feudale, ed i contadini le si stringevano attorno.
La decima – era il salario dei parroci, pagato in altri tempi dai parrocchiani, oggidì dallo Stato, il quale se ne procura l’ammontare per via di imposte. Essa era pagata in natura, come gli altri canoni feudali. Vauban riconosce che le decime ed i canoni in natura riescono meno gravosi pel coltivatore che non le imposte in denaro; infatti, esse erano proporzionate ai raccolti, e così più o meno importanti secondochè vi era abbondanza o scarsezza. Invece, sia l’annata buona o cattiva, l’imposta non varia; per pagarla, il contadino deve comprar denaro con i suoi prodotti, ed in questo scambio il piccolo coltivatore, sempre aguzzato dal bisogno, deve subire le esigenze di chi possiede del denaro contante (banchiere o negoziante di grano). La sola ragione per cui tutti i governi moderni hanno adottato il pagamento delle imposte in danaro, è che così rendono il gettito invariabile e pongono a carico del coltivatore l’alea della vendita dei raccolti.
La decima a favore della Chiesa era da principio facoltativa, come ancora oggidì in Irlanda; Mably sostiene che nei capitolari di Carlomagno non si trova disposizione alcuna che ne prescriva apertamente l’obbligo; essa pagavasi tanto al prete quanto allo stregone.
Agobardo, arcivescovo di Lione al IX secolo, lamentava profondamente che si pagasse la decima ecclesiastica con minore esattezza di quella concessa ai tempestarj, stregoni che avevano il potere di mandare e di allontanare la procella. E difatti, il sinodo di Francoforte, tenutosi nel 794 sotto Carlomagno, dovette far intervenire il diavolo per eccitare al pagamento della decima; vi si compilò un capitolare in cui è detto che «nell’ultima carestia eransi trovate le spighe vuote, divorate dai demoni, i quali facevano rimprovero di non aver pagata la decima». – Preti e stregoni, Diavolo e Dio sovente sono gli stessi personaggi sotto nomi diversi.
Ma, in virtù dell’adagio feudale: niuna terra senza carichi e senza decima, questa, di facoltativa che era, divenne obbligatoria; fu convertita in un diritto padronale e venne concessa a signori laici oppure ad ecclesiastici che la vendevano ai laici.
La decima pagata volontariamente per avere il soccorso morale dei sacerdoti, diventò obbligatoria e finì col trasformarsi in un’imposta gravosa, non più giustificata da nessun servigio che le corrispondesse: così l’oro fino cambiasi in piombo vile.
Se, da un lato, i carichi feudali, consentiti liberamente, divennero gravosi ed iniqui allorquando i baroni cessarono di rivestire il loro ufficio di protettori dei vassalli, dei livellari e dei servi, da un altro lato la proprietà fondiaria nobiliare, che in origine era un posto militare affidato temporaneamente ad un guerriero, od un semplice diritto nelle spartizioni agrarie, si ingrandì con la frode e con la violenza, soprattutto a spese dei beni comunali.
Carlo Marx, nello splendido capitolo XXVII del Capitale in cui tratta dell’espropriazione della popolazione agricola, ed al quale rimando il lettore, ha mostrato in qual modo spiccio e brutale i signori di Scozia e d’Inghilterra abbiano totalmente spogliato i contadini delle loro terre. Quantunque nessun’altra nazione europea possa vantarsi d’aver dato i natali ad un’aristocrazia, la quale abbia compiuto l’opera sua di monopolizzazione del suolo con tanta rapacità e ferocia, pure in tutte le nazioni civili vennero tolti ai contadini i loro beni ed i loro diritti secolari; e, per giungere a questo lucroso e nobile scopo, aristocratici e borghesi usarono ogni sorta di mezzi. Ne citeremo qualcuno.
I canoni e le «corvées» erano divenute così esagerati, soprattutto da quando la nobiltà non adempiva più al suo vero scopo, che, per riscattarle, i contadini cedevano volentieri al barone parte delle terre comuni del villaggio. Queste cessioni di territorio, agognate dai signori, pare fossero quasi tutte frutto dell’astuzia: i nobili corrompevano un certo numero di abitanti del villaggio, i quali facevano in modo di partecipare da soli all’assemblea generale, e decidevano così la cessione delle terre.
Difatti, si trovano in Francia molte ordinanze reali che annullano queste decisioni, impongono la restituzione delle terre al comune, e stabiliscono che nessuna cessione di beni sia valida se non è consentita da tutti gli abitanti riuniti a questo scopo.
Ma i ladri dei beni comunali molte volte non ricorrevano a quei procedimenti apparentemente legali, li pigliavano colla forza.
Nel secolo XVI, quando la borghesia manifatturiera e commerciale si andava sviluppando con rapidità, le terre comunali furono oggetto delle brame dei nobili e degli speculatori che sorgevano per ogni dove.
La popolazione della città andava crescendo, e l’agricoltura, per sopperire ai nuovi bisogni, doveva moltiplicare i suoi prodotti. Lo sviluppo agrario era la preoccupazione di tutti. Molti speculatori, col pretesto di crescere l’estensione delle terre coltivabili, ottennero dai re di Francia delle ordinanze che loro concedevano il diritto di dissodare le terre incolte; costoro si affrettarono a porre nel numero delle terre incolte anche i beni comunali, e si accinsero a toglierle dalle mani dei contadini, i quali li difesero con le armi e costrinsero gli speculatori a chiedere l’aiuto della forza armata dello Stato, che i re – e fra questi anche Enrico IV, il re della poule au pot (gallina in pentola) – misero a loro disposizione.
I nobili, per impadronirsi delle terre dei villaggi, usarono dei mezzi che sapevano di cavillo; pretendevano che i campi dei contadini non corrispondessero ai titoli di proprietà, ciò che era verissimo in molti casi; volevano verificare quei titoli e confiscavano, a profitto proprio, tutta l’eccedenza. Altra volta, il loro modo di procedere diventava brutale; annullavano i titoli che si erano fatti rilasciare, per modo che bruciato il titolo, il contadino non poteva più provare il suo diritto di proprietà sulla terra, la quale restava così senza padrone; in virtù dell’adagio «niuna terra senza signore», il nobile se ne impossessava.
Gli «autodafé» dei titoli di proprietà del 1789 non furono che una risposta alle antiche soppressioni dei titoli, fatte dai nobili del secolo XVI.
I signori s’erano impossessati già prima delle foreste; senza darsi pensiero degli scartafacci, essi attribuivansi la proprietà dei boschi e dei cedui; li chiudevano, e proibivano ai contadini di cacciare e di fare uso del loro secolare diritto di prendervi la legna per il fuoco e per le costruzioni. Queste usurpazioni delle foreste del comune da parte dei nobili sollevarono lo sdegno generale, e furono causa, in Europa, di terribili tumulti.
«I signori non ci fanno che del male, dice il contadino nel Roman de Rou dell’XI secolo; essi hanno ogni cosa, possono ciò che vogliono, mangiano tutto e ci fanno vivere in povertà e dolore... Perchè lasciarci trattare in tal modo? Noi siamo uomini come loro, abbiamo le stesse membra, la stessa statura, la stessa forza per soffrire e siamo cento contro uno... Difendiamoci dai cavalieri, uniamoci, e nessuno potrà mai dominarci; e potremo tagliare gli alberi, prendere la selvaggina nelle foreste ed i pesci negli stagni, e faremo ciò che vorremo nei boschi, nei prati, nelle acque...».
Le sommosse popolari che scoppiarono in pieno secolo XIV nelle province del Nord e del centro della Francia furono cagionate dalla pretesa dei nobili di proibire ai contadini l’uso delle foreste ed il godimento delle acque.
Sommosse simili si ebbero in Germania, cominciando da quella dei Sassoni contro l’imperatore Enrico IV, e venendo fino a quella dei contadini della Svevia, che, al tempo di Lutero, presero le armi contro i signori che loro impedivano l’uso dei boschi e delle acque. Il tumulto svevo ebbe un’eco sanguinosa in Alsazia-Lorena. Questi torbidi costrinsero i signori a rispettare, in molte circostanze, i diritti consuetudinari dei contadini, diritti così ben fondati da far dire al La Poix de Fréminville nel 1760 che «se i contadini ne abusassero, non potrebbero essere loro tolti, poichè il diritto d’uso delle foreste dev’essere considerato come perpetuo, ed essendo perpetuo, è concesso sia agli abitanti presenti quanto a coloro che succedono in avvenire, nè si può spogliare d’un diritto acquisito coloro che non sono ancora nati.» Ma i borghesi rivoluzionari dell’89 non ebbero, pei diritti dei contadini, il rispetto del giurista feudale; li abolirono a profitto del gran proprietario fondiario.
I signori, pur essendo costretti qualche volta a rispettare i diritti consuetudinari dei contadini, li dissero favori concessi per liberalità; e si considerarono proprietari delle foreste, appunto come più tardi elevarono pretese sulle terre medesime dei loro vassalli. Nell’evo-medio, quando un uomo libero padrone di un allodio chiedeva la raccomandazione, cioè la protezione di un signore potente, gli portava una zolla della sua terra, gli giurava fedeltà e omaggio, e si obbligava a certi canoni in natura od a certe prestazioni; però, conservava la proprietà del suo campo. Ma il signore feudale, in molte province, si dichiarò padrone del fondo (foncier), cioè del sottosuolo, pur riconoscendo ai contadini o domaniers la proprietà della superficie, e cioè di tutto ciò che copre il suolo: costruzioni, piantamenti, alberi, raccolti; quantunque il diritto feudale non accordasse al signore la proprietà del sottosuolo, poichè per scavare una miniera nelle proprie terre, egli doveva chiederne al re l’autorizzazione, la quale non era concessa che per un tempo determinato e verso un canone fisso. Ciò nonostante, è con l’appoggiarsi a tali finzioni legali che, ai giorni nostri, i nobili bretoni domandano l’espropriazione dei coltivatori, discendenti dai vassalli dei loro antenati.
La rivoluzione borghese del 1789 creò la proprietà privata della terra; fin’allora i fondi francesi, sia quelli dei nobili che quelli dei borghesi e dei contadini, erano soggetti a varj diritti consuetudinarj che loro toglievano per qualche tempo ogni apparenza di proprietà privata. Il bestiame degli abitanti del villaggio doveva avere libero accesso non solo nelle foreste usurpate dai nobili, ma anche nelle terre a coltivo che questi possedevano; appena raccolti i frutti, i campi ridiventavano proprietà comune ed i contadini vi facevano pascolare i loro animali.
Gli stessi vigneti non erano esenti da quest’uso.34 Nè soltanto i proprietari dovevano lasciare le loro terre soggette al pascolo comune, ma non avevano neppure il diritto di coltivarle come volevano: essi dovevano uniformarsi alle decisioni del consiglio comunale, e per piantare viti dovevano ottenere un permesso dal re.
Quest’autorizzazione venne rifiutata, qualche anno prima della Rivoluzione, a Montesquieu, con grande scandalo degli enciclopedisti. – Il proprietario aveva dei doveri verso la terra, non poteva lasciarla incolta; il 13 ottobre 1693 Luigi XIV emanava un decreto col quale autorizzava «ogni persona a seminare ed a godere di quelle terre che non fossero coltivate dai loro proprietari, a condizione di dividere i frutti a metà col padrone.» Quest’ordinanza non faceva che rimettere in vigore una vecchia consuetudine. «I nostri maggiori, dice Coquille, amanti del bene pubblico e dell’ordine... hanno introdotto, con gran ragione, la consuetudine che fa lecito ad ognuno di lavorare le terre altrui non coltivate, senza il permesso del proprietario, a condizione di pagare il champart (una parte determinata dei raccolti) al detto proprietario.
Questo canone in natura non è da pertutto uguale, ma varia secondo il numero dei lavoratori e la bontà delle terre: qualche volta è del terzo, qualche altra del quarto, del quinto, del sesto o del settimo; bisogna seguire l’uso del paese». (Questions et Réponses sur les coutumes de France, § LXXVI).
La proprietà fondiaria feudale non era libera affatto; non era individuale, ma della famiglia; il proprietario non poteva farne traffico, egli non era che un usufruttuario incaricato di trasmetterla ai suoi discendenti. I beni ecclesiastici rivestivano lo stesso carattere; ma, invece di appartenere ad una famiglia, erano proprietà dei poveri e di quella grande famiglia cattolica che è la Chiesa: gli abati, i monaci ed i preti, che ne godevano, erano dei semplici amministratori, e per giunta infedeli di molto. Per sottrarli all’imposta, il clero francese sostenne fino alla Rivoluzione che i beni ecclesiastici non dovevano essere considerati come una proprietà ordinaria, ma come proprietà di nessuno, res nullius, perchè erano proprietà sacra, religiosa, res sacrae, res religiosae. I borghesi rivoluzionari li presero in parola: dichiararono che il clero non era proprietario dei beni ecclesiastici, i quali appartenevano alla Chiesa; ora, la parola greca ecclesia, dalla quale deriva il moderno Chiesa, significa riunione, complesso, società di tutti i fedeli, il che, in fondo, equivale a dire nazione; i beni della Chiesa sono adunque veri beni nazionali.
E vennero difatti nazionalizzati, come già aveva fatto Carlo Martello, il quale li aveva dati ai soldati suoi. I borghesi rivoluzionari, imitando Enrico VIII di Inghilterra, fecero man bassa dei beni della Chiesa e divisero fra loro quelle proprietà, che appartenevano ai poveri ed alla nazione.
Gli storici liberali e gli economisti borghesi si sono furiosamente scagliati appunto contro queste servitù, che Neufchâteau chiama le «macchie di ruggine feudale», ed erano invece tracce del comunismo primitivo, le quali davano al contadino un benessere che egli non ha conosciuto più, dal giorno in cui la proprietà privata borghese ha surrogato la proprietà feudale.
Gli storici ed i politici borghesi, questi falsificatori sfacciati della storia, hanno inventato una leggenda sulla rivoluzione del 1789; essa fu fatta – dicono – per giovare ai contadini ed ha dato loro la terra. A sentirli, si crederebbe che la proprietà contadina prima non esistesse, e ch’essa abbia aspettato, per far la sua apparizione, la vendita dei beni nazionali e la divisione di quelli comunali.
Questa gigantesca liquidazione territoriale, che è una ripetizione, su più vasta scala, di quella che Enrico IV d’Inghilterra aveva intrapreso nel secolo XVI, giovò in ispecial modo agli speculatori ed ai borghesi, i quali colsero l’occasione per arricchirsi a spese della nobiltà e del clero, per ingrandire le loro terre e procacciarsi dei tenimenti splendidi a buon prezzo: ma essa non aumentò sensibilmente il numero dei piccoli proprietari, come constata Leonzio de Lavergne nella sua Economie rurale. Infatti, nella Francia antica «eravi un’immensità di piccole proprietà rurali» dice Necker; «il numero dei piccoli proprietari è tanto grande, scrive Arturo Young, che io credo ch’essi comprendano un terzo del regno.» F. de Neufchâteau afferma che «nelle provincie della senatoria di Digione, le terre sono distribuite fra la maggior parte degli abitanti: pochi sono coloro che sono privi affatto di proprietà fondiaria». Questi proprietari non erano certo di data recente, poichè – egli aggiunge – le loro terre sono frazionatissime, in seguito alle divisioni ereditarie che si successero per molte generazioni.35
La rivoluzione del 1789 non ha creato la piccola proprietà; però, se non ha dato la terra ai contadini, li ha per contro spogliati di una parte dei beni comunali che loro appartenevano e li ha privati dei loro diritti consuetudinari sulle terre dei nobili e dei borghesi: diritto di spigolatura, di pastura nelle foreste, di pascolo sulle terre coltivabili dopo il raccolto, ed altri molti ugualmente importanti per il loro benessere. La Rivoluzione fu fatta a profitto esclusivo dei medii e dei grandi proprietari, sia nobili che borghesi.
I nobili hanno dato prova di una rara mancanza d’intelligenza non comprendendo come, in cambio del sacrificio di qualche decrepito privilegio, più apparente che reale, la rivoluzione borghese avrebbe tolto loro l’imbarazzo delle schiavitù feudali, di cui avevano già da tempo chiesto l’abolizione, e che, secondo l’espressione comune del secolo XVIII, toglievano ai fondi un carattere di proprietà privata, dopo i raccolti, per dare loro quello di proprietà comune. Un agronomo che visse prima della Rivoluzione, Duhamel du Monceau, quantunque biasimi severamente e con ragione il diritto di pascolo, il quale impediva l’introduzione di qualsiasi nuova coltivazione, aggiunge: «Però, siccome io credo che sia opportuno rispettare, fino ad un certo punto, gli usi antichi, mi pare che il solo mezzo per ristorare l’agricoltura sarebbe quello di stabilire che ogni proprietario possa liberare dal diritto di pascolo un trentesimo delle sue terre36». La legge del 28 settembre 1891 sui Beni ed usi rurali autorizzò i proprietari a sottrarre al pascolo tutti i loro possedimenti. Quest’attentato contro i secolari diritti dei contadini fu più potente a sollevare contro la Rivoluzione i contadini del Mezzogiorno, dell’Alvernia, dell’Angiò, del Poitou, della Vandea, della Bretagna e dell’Alsazia, che non l’abolizione dell’autorità regia e l’ordinamento civile del clero.37
Quando gli emigrati ritornarono in Francia, riebbero quelle fra le loro terre che non erano ancora state vendute, libere da ogni servitù feudale, e si fecero pagare dallo Stato, ad un prezzo molto maggiore del vero, quelle che erano state alienate.38
La Rivoluzione non ha tolto dagli artigli degli aristocratici il suolo della Francia; quest’opera si compie ai giorni nostri dai banchieri, dagl’industriali e dai commercianti, i quali se ne vanno di continuo impossessando. La proprietà fondiaria, che si accentra a cagione dell’incessante espropriazione dei piccoli coltivatori, fa vivere in un lusso ributtante dei parassiti grossolani ed imbecilli, i quali non hanno nè le virtù guerresche dei baroni feudali, nè l’eleganza e la cortesia dei cortigiani di Versaglia.
Sui 49.388.304 ettari soggetti all’imposta fondiaria, che rappresentano la parte utilizzabile e produttiva del territorio francese, 2.574.589 ettari sono posseduti da 5.091.097 proprietari, e così un mezzo ettaro per ogni coltivatore, in media; mentre 8.017.542 ettari sono monopolizzati da 10.482 nobili imborghesati e borghesi milionari, il che dà una media di 764 ettari per ogni parassita. Quella stessa assemblea che, nel 1871, separò l’Alsazia-Lorena della Francia, diede 33.000 ettari ai principi d’Orléans. – Secondo una voce degna di fede, la famiglia Rothschild possiede più di 200.000 ettari.39
I pochi lembi di territorio nazionale lasciati ai contadini non bastano a dar loro i mezzi d’esistenza, ma li incatenano ai campi e fanno sì che i proprietari capitalisti possano avere sempre sotto mano dei braccianti per coltivare i loro beni.
Prima della Rivoluzione, per avere dei lavoratori al tempo delle messi e durante l’anno, in molte provincie i proprietari erano costretti a stabilirli sulle loro terre, entro piccole case a cui andavano uniti due o tre ettari di terreno; questi piccoli poderi, concessi ai lavoranti in cambio di un certo numero di giorni di lavoro, eran chiamati manouvreries (poderi di braccianti, manovalerie, mansi).40
Le porzioncelle di terra dei contadini moderni compiono l’ufficio delle manovalerie del secolo scorso, con questa differenza: che i contadini devono pagarle coi loro denari.
Le terre accentrate sono date in affitto o coltivate, per conto di società capitalistiche, da agronomi esperti e versati nei progressi della scienza e della tecnica agraria, ma parte delle terre, monopolizzata dai parassiti, è trasformata, per loro piacere, in territori di caccia, da dove i fagiani e lepri cacciano i contadini.
La Rivoluzione, invece di mettere la proprietà a portata del contadino, lo allontana costantemente da essa col rialzo continuo che ha cagionato nel prezzo della terra e nel tasso della rendita fondiaria usufruita dai parassiti.
1789 | 1815 | 1859 | 1884 | |
Prezzo medio dell'ettaro .................... | 400 fr. | 600 fr. | 1,000 fr. | 1,800 fr. |
Rendita fondiaria dell'ettaro ............... | 12 fr. | 18 fr. | 30 fr. | 54 fr. |
Le cifre del 1789 sono ricavate da Forbonnais e dal Lavoisier; quelle del 1815 e del 1859 dal Lavergne, e quelle del 1884 sono basate sulla valutazione del fisco, il quale valuta il prezzo medio dell’ettaro in 1800 franchi; e certamente si è al disotto del vero portando questo prezzo medio a 2000 franchi pel giorno d’oggi, e la rendita a 60; Lavergne calcola al 3 p.% il tasso della rendita fondiaria.41
Nello spazio di un secolo, il valore della proprietà rurale è cresciuto di più del quintuplo. Quest’aumento enorme del prezzo della terra è la causa principale, se non forse l’unica, della crisi permanente dell’agricoltura. Il contadino non può più comprare la terra senza ricorrere al credito, senza mettersi per tutta la vita nelle mani dell’usuraio: egli non è che un proprietario nominale, poichè chi veramente possiede il campo, è il banchiere; egli non lavora che per scontare gl’interessi del suo debito, il quale va ingrossandosi di mano in mano che ne paga una parte.
I profitti del proprietario parassita si fanno più lauti solo perchè il guadagno del coltivatore diminuisce. Il fitto della terra, che il contadino paga a coloro che hanno approfittato della Rivoluzione, è ben più grave di quello che pagava il coltivatore del medioevo: poichè il signore feudale partecipava all’alea del lavoratore; la rendita fondiaria di lui non consisteva in una somma fissa di denaro e stabilita prima, bensì in una data parte del raccolto, o buono o cattivo che fosse; molte volte, negli anni di carestia, invece di ricevere i canoni era costretto a procacciare ai coltivatori grano, fieno e bestiame.
Olivier de Serres, il quale scriveva in un’epoca nella quale la nobiltà di corte si adoprava per aggravare i fitti delle terre, consigliava la mezzadria a parti uguali come il migliore dei contratti, quando il signore però fornisse la metà del bestiame, gli attrezzi rurali e le sementi, e lasciasse al mezzadro la paglia ed una quantità di granaglie sufficiente per poter nutrire gli animali senza spendere nulla. Ma, risalendo più innanzi nel passato, si trovano condizioni più vantaggiose per il lavoratore.
L. Delisle, nel suo studio sulle classi agricole medioevali, fra diversi contratti di affitto, ne cita due degli affittavoli dei monaci di San Giuliano di Tours, che stipulavano di pagare il sesto, ed altri in cui il canone era fissato al decimo ed anche al solo dodicesimo.42
Nè queste condizioni erano proprie di una sola provincia, poichè le si trovano pure nel Mezzogiorno.
Varii atti del 1212 e del 1214 ci fanno sapere come i monaci dell’abbazia di Moissac dessero a coltivare le loro terre a contadini liberi riservando per sè il terzo, il quarto e perfino il decimo soltanto del raccolto.
Lagréze-Fossat, che ha studiato quegli atti, nota che «i contadini trattano da pari a pari coi monaci, e che il prelievo di prodotti stipulato a favore di questi ultimi non riveste il carattere di un tributo imposto; è discusso prima e liberamente consentito».43
Nei paesi vinicoli, si davano a piantare le terre per trasformarle in vigneti; il proprietario teneva per sè la metà del prodotto e non poteva scacciare i coloni ed i loro discendenti dal terreno che avevano piantato.
Il libro dei conti dell’abbazia di S. Germain-des-prés, che Guérard ha pubblicato nel 1844, ci addentra nella vita dei servi e dei coltivatori liberi del IX secolo: la coltivazione dei campi era affidata non a singoli individui, ma a comunanze di contadini che lavoravano e vivevano in comune, come fu detto già più innanzi.
Le terre dell’abbazia erano divise in mansi ingenui44o liberi – ed erano i più numerosi – ed in mansi servili; nel medio evo la terra aveva qualità morali: essa era signorile, vassalla o serva. I livellari avevano l’obbligo di fare certi servigi, di pagare canoni di bestiame, pollame, uova, legumi, mostarda e di altri oggetti di consumo e di utilità agricola: assicelle, legname, pali, vimini, etc. – Guérard ha calcolato il valore approssimativo in denaro delle prestazioni e dei canoni; ed ha trovato che un ettaro di manso libero pagava una rendita di 6 fr., 13 c. in «corvèes» e di 10 fr. 62 c. in prodotti, e che un ettaro di manso servile ne pagava una di 15 fr. 34 c. in servigi gratuiti e di 6 fr. 46 c. in derrate ed oggetti. I contadini dell’abbazia ascendono a 10.026, quasi tutti d’origine germanica, a giudicarne dai nomi. Le condizioni fatte ai lavoratori dell’abbazia, che erano in numero tanto considerevole, dovevano essere, più o meno, simili a quelle stabilite in generale. Quale degli affittavoli odierni non acconsentirebbe a mutare il proprio padrone capitalista coi monaci del IX secolo, per poter così occupare una terra al prezzo di 21 fr. 80 c. all’ettaro, pagabili non in denaro, ma in giornate di prestazioni ed in prodotti?45
La rivoluzione dell’89, che non avrebbe potuto compiersi senza il concorso attivo e passivo dei contadini, deluse tutte le loro speranze; essa condusse a termine l’opera spogliatrice dell’aristocrazia e tolse loro quei diritti e quei beni comunali, che per lunghi secoli avevano subìto gli assalti della nobiltà, del clero e della borghesia, senza dar loro compenso alcuno; essa liberò la proprietà fondiaria dalle servitù che la collegavano al comunismo primitivo della gens ed instaurò la proprietà privata col suo diritto assoluto d’uso e d’abuso.
I contadini, per riconquistare i loro diritti soppressi ed i loro beni usurpati dai signori, si lanciarono frammezzo alla burrasca rivoluzionaria al primo convocarsi degli stati generali: incendiarono, con gioia frenetica, i castelli e le pergamene feudali, con grande meraviglia e scontento dei rivoluzionari borghesi; ma, dagli artigli affilati degli aristocratici, caddero nelle mani rapaci dei capitalisti.
I contadini furono gabbati dai rivoluzionari borghesi, come più tardi i volontari della Repubblica dagli speculatori fondiarii, i quali tennero per sè il miliardo delle terre degli emigranti che loro avevano promesso, e come già i contadini ribellatisi ai signori del XIV secolo erano stati traditi da Stefano Marcel, l’eroe borghese.
Però, sconfitti, ma vinti mai, si raccolgono oggidì attorno al rosso vessillo del socialismo per ricominciare la rivoluzione sociale che esproprierà gli espropriatori e porrà riparo ai delitti della Rivoluzione dell’89.
1. The vision of Piers the Plowman (La visione di Pietro il lavoratore), scritta qualche anno prima della rivolta dei contadini di Kent, i quali s’impadronirono di Londra nel 1380, ricorda ai nobili i loro doveri verso i servi ed i vassalli che li nutrivano. Pietro dice al cavaliere:
Ye profre yow so faire
That I shall swynke, and swete, and sow for us bothe,
And other laboures do for thi love al my lyf-tyme,
In convenant that thow kepe holik irke and myselve
Fro wastoures and fro wikked men that this world struyeth.
Ciò che tu offri è così giusto, che io lavorerò e suderò e seminerò per noi due, e farò altri lavori per l’amor tuo durante tutta la vita mia, a condizione che tu protegga la santa Chiesa e me stesso contro i devastatori e gli uomini malvagi che corrono pel mondo. ↩
2. “Non dite un così grande oltraggio. Maledetto sia chi porta in petto un cuore codardo! Noi staremo fermi al posto; da noi verranno i colpi e la pugna... Per il proprio signore si devono soffrire gran mali, e sopportare grandi freddi e grandi calori. Si deve anche perdere del sangue e della carne. Ferisci con la tua lancia ed io con Durendal, la buona spada che il re mi ha dato. Se io muoio, colui che l’avrà, potrà dire che essa appartenne a nobile vassallo”. Aoi. (Chanson de Roland; édition Léon Gautier, XCIII e XCIV).
La canzone di Rolando, l’epopea popolare del medioevo, era cantata sovente nel cominciar delle battaglie. Ad Hastings, quando i due eserciti furono di fronte, un cavaliere normanno, Taillefer, uscì dalle file ed intuonò il canto di Carlomagno e di Rolando per “animare i soldati”, racconta William of Malwsbury. Cantando, egli gettava in aria la spada riafferrandola poi per l’impugnatura: i Normanni ripigliavano in coro il ritornello e gridavano: “Dieu aide!” Dio aiuti! L’interiezione Aoi!, che ritorna dopo ogni strofa, diede campo alla sagacia dei filologi di esercitarsi; essa corrisponde al moderno hoé!, fa osservare GAUTIER, e serviva ad avvertire il coro della fine del ritornello; poiché probabilmente la Canzone di Rolando era cantata da due giocolieri, come ancora oggi in Finlandia il Kalevala da due runoiat. Uno dei due incomincia col cantare una strofa, che l’altro ripete, poi il secondo, a sua volta, ne canta un’altra, che viene ridetta dal primo, e così di seguito sino al termine del poema, il quale dura alle volte giorni e notti intere. ↩
3. H. SUMMER MAINE, Village communities, pag. 84. Quest’opinione era manifestata ad una commissione della Camera dei comuni da un avvocato, Mr. Blamire, il quale, secondo MAINE, era uno dei giureconsulti più versati nello studio delle forme più rare della proprietà inglese. ↩
4. De bello gallico, V, § 14.↩
5. Un economista di gran fama, DE MOLINARI, ha innocentemente paragonato le speculazioni finanziarie dei nostri tempi alle spedizioni di pirati dell’evo medio; ciò equivale al confessare che gli onesti impieghi di denaro dei padri di famiglia hanno per iscopo soltanto la ruberia. C’è però una differenza: i guerrieri feudali arrischiavano la propria vita, mentre i capitalisti che accorrono in gran numero per partecipare al 10 ed al 20% delle imprese finanziarie, impegnano solo dei capitali che non hanno mai creato. ↩
6. “Le terre dei Gundehpoors vengono divise in sei lotti corrispondenti al numero dei clan che compongono la tribù; i lotti sono estratti a sorte... Le divisioni si fanno ogni tre o cinque anni. Ciò che v’ha di sorprendente, è che queste transazioni, presso un popolo senza leggi, non danno luogo a nessuna contesa nè ad alcuna rissa sanguinosa.” (MOUNTSTUART ELPHINSTONE, An Account of the Kingdom of Caubul; 1805).↩
7. F. ENGELS, Socialism utopian and scientific. Vedi lì la notevole appendice sulla Mark. ↩
8. Dopo la battaglia di Poitiers (1356) i soldati dei due eserciti, non avendo più alcuna occupazione, si unirono e guerreggiarono per conto proprio. Dopo il trattato di Brétigny (1360), che rese la libertà al re Giovanni, prigioniero degl’Inglesi, le milizie vennero licenziate; esse, organizzatesi in bande, fecero scorrerie pel paese. Una torma guerreggiava nel Nord; un’altra più considerevole comandata da Tallegrand-Périgord scese la valle del Rodano e depredò la Provenza. Passò per Avignone, dove il papa fece regali ai capi e diede l’assoluzione alla soldatesca, la quale non ne fece davvero gran conto, e un regalo di 500,000 lire; essa andò taglieggiando le città e saccheggiando il contado. ↩
9. Alle volte si eleggeva un guerriero forastiero. I fors (consuetudini) del BEARN incominciano con questa dichiarazione d’indipendenza:
A quelts sort los fors de Bearn : en los quo ans fé mentiou que antiquement en Bearn no havé Senhor.
(Ecco le consuetudini bearnesi: esse fanno menzione che anticamente in Bearn non v’era signore).
– Ma gli abitanti di Pau, avendo bisogno di un capo militare ed avendo udito magnificare un cavaliere di Bigorra, lo elessero signore per un anno. L’assemblea popolare, avendogli ordinato di attenersi alle consuetudini locali, ch’egli trasgrediva, lo uccise seduta stante perchè non aveva voluto obbedire. ↩
10. L. DEVILLE, Ètudes historiques sur Tarbes (Bulletin de la Société académique des Hautes-Pyrénées, anno 6°, 2° fascicolo, 1861). ↩
11. Se il sindaco che fosse eletto rifiutasse tale funzione... e se qualcuno rifiutasse lo scabinato, si distruggerebbe la sua casa. ↩
12. GOMME, Village community. ↩
13. Queste porzioni di terra erano talvolta designate col nome del mestiere di coloro a cui erano assegnate. “Esistono, dice Sumner-Maine, in diverse parrocchie inglesi, certe pezze di terra nelle proprietà comunali che, da tempo immemorabile, portano il nome d’un mestiere, e spesso esiste anche questa credenza popolare; che un uomo, il quale non faccia il mestiere di cui la terra porta il nome, non possa legalmente possederla.” (Village communities). ↩
14. “I Basutos si radunano ogni anno per ritornare e seminare i campi del loro capo e della sua prima moglie. Centinaia d’uomini schierati in linea retta alzano ed abbassano insieme i loro mattocq: tutto il villaggio concorre a mantenere il capo.” (CASALIS, Les Basoutos). ↩
15. Ecco la formola per l’intronizzazione degli antichi re d’Aragona che dovette essere, o quasi, la stessa di quella usata pei re Franchi: “Noi, che siamo individualmente uguali a te, ti facciamo re nostro, a condizione che tu rispetti le nostre consuetudini; se no, no.” ↩
16. BOUCHER D’ARGIS, Code rural ou Maximes et réglements concernant les biens de campagne; 1774, 3ª edit.; cap. VI, § 2.↩
17. Nelle lingue romane la parola barone, il primo nome dei signori feudali, significava “uomo forte, guerriero impavido”; il che indica appunto come il carattere del feudalismo fosse militare per eccellenza. Vassallo aveva ugualmente il senso di “coraggioso, intrepido”. ↩
18. VITRY, il legato di Innocenzo III che predicò la crociata contro gli Albigesi (1208) in Belgio ed in Germania, scrive: “I Signori, nonostante i loro titoli e dignità, non tralasciano di cercar preda e di fare mestiere di ladri e di briganti, mettendo a ruba ed incendiando regioni intiere...”. Gli usi clericali non erano diversi: l’arcivescovo di Narbona, sul finire del XII secolo, faceva scorrerie nel paese con i suoi canonici ed arcidiaconi saccheggiando i contadini e violando le donne. Manteneva a proprie spese una torma di routiers (uomini da strada) aragonesi, ch’egli adoperava per taglieggiare il paese; ai vescovi ed agli abati “piacciono molto le donne dalla pelle bianca, il vino rosso, gli abiti ricchi ed i bei cavalli; vivono fra le ricchezze, mentre Iddio volle vivere povero”, dice un trovatore. ↩
19. LA POIX DE FRÉMINVILLE, Traité général du gouvernement des biens des communautés d’habitants; Paris, 1760. ↩
20. Signori baroni, non abbiate cattivi pensieri; per Dio vi prego, non fuggite, affinchè nessuno canti di voi in cattivo modo! È molto meglio che moriamo combattendo; qui fra noi, è certo che moriremo, che non vivremo più oltre questo giorno, ma d’una cosa io mi rendo garante: il santo paradiso vi sarà aperto; voi siederete a lato dei santi. ↩
21. Citata da RIVIÈRE nella sua Storia delle istituzioni dell’Alvernia, 1874. ↩
22. L’arcivescovo è buonissimo cavaliere: non ve n’è di migliore in terra, sotto il cielo, sa ben ferire di lancia e di spada... Dicono i Francesi: Ecco, qual bravura; con l’Arcivescovo la croce è in salvo. Piacesse a Dio che Carlo ne avesse molti come lui.
Aoï↩
23. W. OF MALESBURY racconta che Sveno figlio di Godwin e fratello di Aroldo, aveva rapito una monaca ed ucciso un uomo in un momento di passione; per acquetare il rimorso, si condannò egli stesso a fare il viaggio di Gerusalemme a piedi scalzi. Egli compì rigorosamente questo pellegrinaggio, ma ne morì. ↩
24. Pipino d’Héristal, suo nipote Pipino il Breve e Carlomagno, i quali avevano sulla coscienza l’uccisione di Dagoberto e la loro usurpazione, furono grandi protettori della Chiesa; ma Carlo Martello, padre di Pipino il Breve, la spogliò brutalmente. Il cronista, per raccontare questo fatto si serve del verbo socializzare. “Karolus plurima juri ecclesiastico detrahens, proedia fisco sociavit, ac deinde militibus dispertivit” (En chronico Centutensi, lib. II). ↩
25. LATRUFFE-MONTMEYLIAN, Du droit des communes, sur les biens communaux, Paris 1825. – Montmeylian è uno di quei rari scrittori che abbiano, in Francia, avuto il coraggio di difendere i beni comunali contro la rapacità borghese.
Aoï ↩
26. OLIVIER DI SERRES, nel suo “Théâtre de l’agricolture et du mesnage des champs” consigliava al proprietario fondiario di produrre tutto quello che consumava abitualmente, e di farsi gli abiti coi prodotti della sua tenuta, piuttosto che vendere questi prodotti e spenderne il prezzo nel comprare oggetti fabbricati altrove; raccomandava di avere in ogni tenuta una beccheria, una panetteria, una filanda, etc. Infatti, l’economia feudale non conosce la produzione mercantile, nè la circolazione delle merci, che sono appunto le caratteristiche dell’economia borghese. ↩
27. Nell’atto di donazione fatto nel 728 dal conte Eberardo al convento di Morbach, si fa menzione di quaranta operaie che lavoravano nel gineceo. ↩
28. Il Fors di Bigorra ordina che gli uomini liberi siano lasciati in pace e vadano tre volte all’anno al carriaggio comitale. ↩
29. Le ragioni addotte dal conte de GASPARIN sono topiche e meritano di essere citate, perché possono venire applicate al lavoro del proletario:
“Il sistema delle “corvées” consiste nell’obbligo di concedere al servo, per il suo sostentamento, una certa distesa di terra ch’egli coltiva per conto proprio, a condizione che, in compenso di questa concessione, egli dia al padrone un certo numero di giornate di lavoro... Gl’interessi del proprietario e del servo si scindono, e ciascuno dei due va specificandosi; il servo sa che il lavoro fornito sulle terre concessegli è la base della sua agiatezza, ed egli lo fa più attivo, per renderlo più fruttifero...
Accade forse così delle giornate dovute al padrone? Ogni settimana, le mani, che sono libere per tre giorni, divengono schiave nei tre altri. Il servo impara a distinguere ciò che fa per sè da quello che fa pel Signore; e questa distinzione è fatale agli interessi di quest’ultimo... Veniamo al sistema della mezzadria. Se lo paragoniamo alla “corvée”, è facile scorgere come la mezzadria sia molto più conveniente pel proprietario. Nella fattoria, l’impossibilità in cui trovasi il mezzadro di discernere, nel suo lavoro, la parte che sarà profitto suo da quella che lo sarà invece del padrone, lo costringe a mettere ovunque la stessa diligenza; e se il terreno ch’egli coltiva è proporzionato alle sue forze, ne ritrarrà tutto ciò che sarà possibile ricavare in un dato stadio di sviluppo dell’industria agricola.” (Le Métayage, publié avec le concours du ministre de l’agricolture). ↩
30. In diritto feudale, si designa con questo nome l’obbligo dell’uso di una cosa appartenente al barone e di pagare, per quest’uso, un canone annuo. ↩
31. BOUCHER D’ARGIS, Code rural, chap. XV, Des banalités. ↩
32. Una decisione sinodale del 1529 proibisce “di fare o di tollerare in chiesa o nel suo cimitero festa alcuna, danze, giochi, sollazzi, rappresentazioni, mercati ed altre riunioni illecite; perchè la chiesa è destinata soltanto a servire Iddio e non a commettervi simili pazzie.” Ma a quest’ordine pare non si sia badato molto, poichè il Mercurie de France del settembre 1742 racconta come nella diocesi di Besançon si celebrasse, nel giorno di Pasqua, un ballo chiamato Bergerette, regolato dagli statuti stessi della Chiesa; si ballava in medio navis ecclesiae, e, finito il ballo, si banchettava cum vino rubro et claro. Bounet, nella sua Histoire de la danse, dice che, nel giorno di San Marziale, gli abitanti del Perigord ballavano in chiesa mentre si cantavano i salmi e gli inni. Al termine di ogni strofa si ripeteva questo ritornello:
San Marceou, pregas per nous,
E nous espingarem per vous.
(San Marziale, prega per noi, e noi balleremo per te). ↩
33. THOROLD ROGERS, Economical interpretation of history. ↩
34. FRANÇOIS DI NEUFCHÀTEAU cita, nel suo Voyage agronomique del 1806, una memoria, pubblicata nel 1763 dalla Società di economia rurale di Berna, in cui si rimpiange amaramente che dopo la vendemmia i vigneti debbano rimanere aperti alle pecore “per pascolarvi come in un terreno comune.” ↩
35. FRANÇOIS DI NEUFCHÀTEAU, Voyage agronomique dans la sénatorerie de Dijon. 1806. ↩
36. DUHAMEL DU MONCEAU, Eléments d’agriculture, 1762. ↩
37. Non si deve esagerare l’importanza del diritto di pascolo quando si sappia ciò che ne dice un agronomo del tempo: “Esso è un prezioso ripiego per un gran numero di piccoli proprietari, i quali, non avendo la possibilità di nutrire il loro bestiame col prodotto delle loro terre, le nutrivano abbondantemente facendole pascolare per sei o sette mesi sulle terre a maggese di tutto il comune. Non vi ha villaggio dove ogni abitante, anche se non possiede terra alcuna, non abbia una o due vacche, cinque o sei pecore e qualche volta un cavallo. Con questo bestiame, essi hanno latte, burro e formaggio per nutrirsi, lana per fare calze, berretti e stoffe comuni; lo stallatico, non avendo essi terre da concimare, lo vendono, e nell’inverno non hanno da comprare altro che del fieno col denaro risparmiato sui guadagni dell’annata.” (G. DESCHENES, Mémoire sur la vaine pâture et les jachères, tomo V delle Memorie pubblicate dalla Società d’agricoltura del dipartimento della Senna; anno XI). ↩
38. Nei motivi della legge sull’indennità d’un miliardo, proposta il 3 gennaio 1825 da DE MARTIGNAC, si calcola esattamente in 987.819.968 franchi il valore totale dei beni nobili venduti. ↩
39. La tavola che segue dà la distribuzione approssimativa della proprietà fondiaria; è basata sulla classificazione ufficiale delle quote fondiarie del 1884.
Categoria | Quantità delle quote | Numero dei proprietari | Superficie soggetta all'imposta | Media degli ettari posseduti da ogni proprietario | |||||||||||||||||||
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40. Per essere certi di avere dei braccianti, o manovali, come eran detti, i proprietari fondiari erano obbligati a stabilirli sulle loro terre. L’usanza era tanto generale, anche dopo la rivoluzione, che nella sua “Mémoire sur l’art de perfectionner les constructions rurales”, PERTHUIS dà la pianta di una di queste abitazioni composte di una camera che da un lato comunica colla stalla, dall’altro con una piccola cascina, e di una cameretta dove si lavorano i prodotti destinati alla vendita (lino, canapa, etc.) o si esercita il proprio mestiere. “Ordinariamente si assegna ad ogni manovaleria un pezzo di terra di due arpenti (un ettaro e 25 are circa), in cui la casa e le sue attinenze occupano un mezzo arpento.... I manovali non facevano caso delle manovalerie senza terreno.... Due vacche e qualche volta un vitello di latte formano tutto il gregge del manovale, a cui viene dato dal proprietario a titolo di soccida. (Mémoire publié dans le tome VII de la Société d’Agriculture du département de la Seine; an. XIII). ↩
41. L. DE LAVERGNE, Economie rurale de France depuis 1789. ↩
42. LÉOPOLD DELISLE, Étude sur la condition de la classe agricole au moyen âge, du dixième au quìnzìème sìécle, en Normandie; 1851. ↩
43. LAGRÈZE-FOSSAT, Etudes historiques sur Moissac; 1872. ↩
44. In diritto feudale dicesi manso quella misura di terreno che è riputata necessaria al contadino per vivere e per nutrire la sua famiglia. (nota del trad.) ↩
45. Polyptique de l’abbè Irminon, ou dénombrement des manses, des serfs, et des revenus de l’abbaye de Saint-Germain-des-Prés, sous le règne de Charlemagne, pubblicata da Guérard nel 1844. ↩
Indice de L'origine e l'evoluzione della proprietà
Ultima modifica 2021.05.14