Tutto in natura, sì nel mondo inanimato e sì in quello animato, avviene secondo regole; sebbene queste non sempre sieno da noi conosciute. L'acqua cade secondo le leggi della gravità, e negli animali avviene anche secondo regole il moto dello andare. Il pesce nell'acqua, l'uccello nell'aria muovesi secondo regole. Tutta la natura in generale altro non è propriamente che un assieme di fenomeni regolari; e non ci ha, dove che sia, alcuna irregolarità. E quando crediamo di trovarne alcuna, possiamo in tal caso dir solamente, che le regole ci sono ignote.
Ancora l'esercizio delle nostre potenze procede secondo certe regole, che da prima seguiamo senza esserne consapevoli; dipoi, a poco a poco, per mezzo di esperienze e di un più lungo uso di nostre potenze, perveniamo a conoscerle; e infine ci si fanno sì spedite, da costarci non poca fatica pensarle astrattamente. Un esempio n'è la grammatica generale, forma di una lingua in generale. Se non che si parla pur senza conoscere la grammatica; ma colui che, senza conoscerla, parla, ha realmente una grammatica, e parla secondo regole, di cui però non è consapevole.
Or come tutte quante insieme le nostre potenze, così ancora in particolare l'intelletto è sottoposto, nelle sue operazioni, a regole2 che noi possiamo ricercare. L'intelletto, in verità, è da considerare come la sorgente e la facoltà di pensare regole in generale. Perciocchè come la sensività è la facoltà delle intuizioni, così lo intelletto è la facoltà di pensare, cioè di subordinare a regole le rappresentazioni de' sensi3. Egli è perciò avido di ricercar regole, ed è pago, quando le ha trovate. Adunque, poichè l'intelletto è la fonte delle regole, si domanda: secondo quali esso stesso procede? Perciocchè egli non si può affatto dubitare, che noi non possiamo pensare o usare altrimenti il nostro intelletto che secondo certe regole. Ma di nuovo possiamo noi concepire queste regole in se stesse, cioè possiamo concepirle senza loro applicazione o in astratto. Or quali sono queste regole?
Tutte le regole, secondo cui l'intelletto procede, sono o necessarie, o contingenti. Le prime sono tali, che senza di esse non sarebbe affatto possibile alcun uso dell'intelletto; le altre sono così fatte, che senza di esse non avrebbe luogo certo determinato uso dell'intelletto. Le regole contingenti, che dipendono da un determinato oggetto della conoscenza, sono molteplici come gli oggetti stessi. Così ci ha, p. e., un uso dell'intelletto nella matematica, nella metafisica, nella morale, e così di seguito. Le regole di cotesto uso particolare, determinato dell'intelletto nelle menzionate scienze sono contingenti, perciocchè egli è contingente che io pensi questo o quell'oggetto, al quale si riferiscono queste regole particolari.
Ma, se noi ponghiamo da l'un de' lati ogni conoscenza, che ci è uopo apprendere solo dagli oggetti, e riflettiamo soltanto all'uso dello intelletto in generale; ne discopriremo quelle regole, che, per ogni rispetto e senza riguardo a quale che siasi oggetto particolare del pensiero, sono assolutamente necessarie, perciocchè senza di esse noi non penseremmo affatto. Onde queste regole si possono ancora avvisare a priori, cioè indipendentemente da ogni esperienza, perciocchè esse, senza distinzione di oggetti, comprendono solamente le condizioni dell'uso dell'intelletto in generale, puro o empirico che sia. E di qui segue parimenti, che le regole generali e necessarie del pensiero non possono riguardarne che la forma, e in niun modo la materia. Perciò la scienza, che contiene queste regole generali e necessarie, è semplicemente una scienza della forma della conoscenza intellettuale o del pensiero. E noi possiamo dunque farci un'idea della possibilità di una tale scienza, a quel modo che la ci facciamo di una grammatica generale, la quale niente altro contiene che la semplice forma della lingua in generale, senza i vocaboli che appartengono alla materia della lingua stessa.
Or questa scienza delle leggi necessarie dell'intelletto e della ragione in generale, o, che torna lo stesso, delle sole forme del pensiero in generale, noi appelliamo Logica.
Come scienza che versa in tutto il pensiero in generale, senza riguardo agli obbietti che sono la materia del pensiero, la Logica è da riguardare:
1. come fondamento di tutte le altre scienze, e come la propedeutica di tutto l'esercizio intellettuale;
2. e per ciò appunto che fa del tutto astrazione da ogni oggetto, non può essere poi un organo delle scienze. Per organo, cioè, intendiamo un insegnamento del modo, onde una certa conoscenza si debba condurre a fine. Il che poi richiede che io già in qualche maniera conosca l'oggetto della conoscenza da formare secondo certe regole. Un organo delle scienze non è dunque semplice logica, perciocchè esso suppone la esatta conoscenza delle scienze, dei loro obbietti e delle loro sorgenti. In tal modo è, p. e., la matematica un organo eccellente, come una scienza, che contiene la ragione dello allargamento della nostra conoscenza, rispetto ad un certo uso razionale. La logica, al contrario, come propedeutica d'ogni esercizio in generale dell'intelletto e della ragione, non potendo far parte delle scienze e anticiparne materia, è solamente un'arte universale della ragione (Canonica Epicuri), di accordare conoscenze in generale alla forma dell'intelletto, e però è da appellarsi organo solo in quanto che serve, non già ad allargare veramente le nostre conoscenze, ma semplicemente a criticarle e a rettificarle.
3. Come scienza delle leggi necessarie del pensiero, senza le quali non avrebbe affatto luogo alcun uso dell'intelletto e della ragione, e che però sono le condizioni sotto le quali l'intelletto può e deve accordare unicamente con sé stesso (le leggi e le condizioni necessarie del suo uso retto) è poi la logica un canone. E, come un canone dell'intelletto e della ragione, nè pure può togliere a prestanza alcun principio, vuoi da scienza, vuoi da esperienza; ella deve contenere semplicemente leggi a priori, che sono necessarie e riguardano in generale l'intelletto.
Alcuni logici, a dir vero, suppongono nella logica principii di psicologia. Ma recare cotali principii nella logica, egli è così assurdo, come raccogliere la morale dalla vita. Prendendo i principii dalla psicologia, cioè dalle osservazioni sopra il nostro intelletto, noi vedremmo solamente come il pensiero proceda, e come esso soggiaccia a impedimenti e condizioni subbiettive di diversa maniera; il che perciò menerebbe alla conoscenza delle sole leggi contingenti. Ma nella logica non è quistione circa le regole contingenti, ma circa le necessarie; non come pensiamo, ma come dobbiamo pensare. Perciò le regole della logica debbono esser prese, non dall'uso contingente dell'intelletto, ma dall'uso necessario, il quale si trova in sè, senza psicologia di sorta. Nella logica non si vuol sapere come l'intelletto sia e pensi e come fin qui siasi governato, ma come dovrebbe governarsi nel pensiero. Ella deve insegnarci l'uso retto dello intendimento, cioè quello che fa armonia con se stesso.
Dai dati schiarimenti della logica riesce ora agevole derivare anche le rimanenti proprietà essenziali di questa scienza; vale a dire, che essa:
4. Sia una scienza razionale, non per la semplice forma, ma per la materia, dappoichè non deriva le sue regole dall'esperienza, ed ha del pari, a suo oggetto, la ragione. Onde la logica è una conoscenza che l'intelletto e la ragione prendono di sè, non già quanto alle loro facoltà in riguardo agli oggetti, ma semplicemente quanto alla forma. Io non dimanderò nella logica: che cosa l'intelletto conosca e quanto possa conoscere, o fin dove estenda la sua conoscenza; perciocchè questo sarebbe la conoscenza di sè, riguardo al suo uso materiale, e appartiene perciò alla metafisica. Nella logica si ricerca solamente come l'intelletto conosca sè stesso.
5. Infine, come scienza razionale per la materia e per la forma, la logica è ancora una dottrina o teoria dimostrata. Perciocchè, occupandosi, non dell'uso comune, e, come tale, solo empirico dell'intelletto e della ragione, ma semplicemente delle leggi generali e necessarie del pensiero, essa riposa sopra principii a priori, da cui si possono dedurre e conoscere tutte le sue regole, come quelle alle quali devesi conformare ogni conoscenza della ragione.
Per ciò che la logica è da ritenere come una scienza a priori, o come una dottrina per un canone dell'uso dell'intelletto e della ragione, ella differisce essenzialmente dall'estetica, che, come semplice critica del gusto, non ha alcun canone (legge), ma solamente una norma (modello o regola per la critica) che consiste nell'accordo generale. L'estetica, cioè, contiene le regole dell'accordo della conoscenza con le leggi della sensività; la logica, al contrario, le regole dell'accordo della conoscenza con le leggi dell'intelletto e della ragione. Quella ha principii solamente empirici, e però non può mai essere scienza o dottrina, dovechè s'intenda per dottrina un insegnamento dommatico per principii a priori, in cui tutto si avvisa per mezzo dell'intelletto, senza altro insegnamento ricevuto dall'esperienza, e che ci porge regole, la cui applicazione fa ottenere la perfezione desiderata.
Taluni, specialmente oratori e poeti, han tentato di sottilmente ragionare sul gusto, ma non han potuto mai dare sopra ciò sentenza decisiva. Il filosofo Baumgarten, a Francoforte, avea fatto il piano di una estetica come scienza. Ma Home con più proprietà ha appellato critica la estetica, perciocchè ella non porge, come la logica, alcune regole a priori,4 che determinino il giudizio in una maniera bastevole, ma raccoglie le sue regole a posteriori, e solo per mezzo della comparazione fa più generali le leggi empiriche, secondo cui conosciamo il più imperfetto e il più perfetto (bello).
La logica dunque, più che semplice critica, è un canone, che serve alla critica, cioè che serve di principio al giudizio di ogni uso dell'intelletto in generale, sebbene quanto alla rettitudine formale solamente; poiché essa non è organo, a quel modo che non lo è la grammatica generale.
Parimenti, come propedeutica di tutto l'uso dell'intelletto, la logica generale differisce ancora, per altro verso, dalla logica trascendentale5, in cui l'oggetto stesso è rappresentato come oggetto del solo intendimento; al contrario la logica generale si riferisce a tutti gli oggetti in generale.
Or, raccogliendo insieme le note essenziali, comprese nella larga determinazione della logica, ci sarà uopo formare di essa il seguente concetto:
La logica è una scienza razionale, non solo per la forma, ma anche per la materia; una scienza a priori delle leggi necessarie del pensiero, ma non in riguardo ad oggetti particolari, ma a tutti gli oggetti in generale) — perciò una scienza del retto uso dell'intelletto e della ragione in generale, ma non subbiettiva, cioè non per principii empirici (psicologici), come l'intelletto pensa, ma obbiettiva, cioè per principii a priori, come esso deve pensare.
La logica si divide: 1. In analitica e dialettica.
L'analitica discopre per mezzo dell'analisi tutte le operazioni della ragione che si esercitano nel pensiero in generale. Essa perciò è una analitica della forma dell'intelletto e della ragione e appellasi ancora giustamente la logica della verità, perciocchè contiene le regole necessarie di tutta la verità (formale), senza le quali la nostra conoscenza, riguardata indipendentemente dagli oggetti, anche in se stessa non è vera. Perciò ancora essa non è altro che un canone pel giudizio critico (della rettitudine formale della nostra conoscenza).
Questa dottrina semplicemente teoretica e generale, volendosi usare come un'arte pratica, cioè come un organo, diverrebbe dialettica: cioè logica dell'apparenza (ars sophistica, disputatoria), che deriva dal semplice abuso dell'analitica, in quanto è simulata, secondo la pura forma logica, l'apparenza di conoscenza vera, le cui note per tanto si han da ricavare dall'accordo con gli oggetti, e però dalla materia.
Nei tempi andati la dialettica era studiata con grande diligenza. Quest'arte proponeva falsi principii sotto l'apparenza della verità, e per l'apparenza cercava di affermare, cose conformi ad essi. Presso i Greci i dialettici erano gli avvocati e i retori, i quali potevano menare il popolo dove essi volevano, perché il popolo si lascia trarre dall'apparenza. La dialettica fu perciò in quel tempo l'arte dell'apparenza. Nella logica ella si trattò ancora, lungo tempo, sotto il nome di arte disputatoria, e intanto tutta la logica e la filosofia era la cultura di certi capi ciarlatani per simulare ogni sorta apparenza. Ma non ci può esser cosa più indegna di un filosofo, che la cultura di una simile arte. È uopo perciò che essa in questo senso finisca del tutto, e in suo luogo s'introduca nella logica piuttosto una critica di cotesta apparenza.
In conseguenza di che avremmo della logica due parti: l'analitica, che insegnerebbe i criteri formali della verità, e la dialettica, che conterrebbe le note e le regole, secondo cui potremmo conoscere come qualche cosa non si accorda con quei criteri formali, sebbene apparisca di accordarvisi. La dialettica in questo senso avrebbe la sua grande utilità come catartica dell'intelletto.
2. Si suole inoltre dividere la logica in naturale o popolare, e in artificiale o scientifica (logica naturalis, log. scholastica, s. artificialis).
Ma questa divisione è insussistente. Perciocchè la logica naturale o della pura ragione (sensus communis) non è propriamente una logica, ma una scienza antropologica, che ha principii solo empirici, poiché ella si maneggia intorno le regole dell'uso naturale dell'intelletto e della ragione, non conosciute altrimenti che in concreto, e però senza averne consapevolezza in astratto. La logica artificiale o scientifica solamente merita dunque questo nome, come una scienza delle regole necessarie e generali del pensiero, che possono e debbono essere conosciute a priori, indipendentemente dall'uso naturale in concreto dell'intelletto e della ragione, sebbene non si possano da prima ritrovare, che mediante la osservazione di quell'uso naturale.
3. Un'altra divisione della logica è ancora quella di logica teoretica e logica pratica. Ma anche questa divisione è inesatta.
La logica generale, che, come un semplice canone, fa astrazione da tutti gli oggetti, non può avere alcuna parte pratica. Ciò sarebbe una contradictio in adiecto, perciocchè una logica pratica suppone la conoscenza di una certa maniera di oggetti, ai quali sia applicata. Possiamo perciò appellare ogni scienza una logica pratica; perciocchè in ognuna ci è uopo avere una forma del pensiero. La logica generale, riguardata come pratica, non può perciò essere altra cosa che una tecnica della scienza in generale; — un organo del metodo scolastico. Quindi la logica, in conseguenza di questa divisione, avrebbe una parte dommatica, e una parte tecnica. La prima potrebbesi appellare dottrina elementare [Elementarlehre], l'altra, dottrina del metodo, metodologia [Methodenlhre]. La parte pratica o tecnica sarebbe un'arte logica, in riguardo all'ordine e alla logica espressione artistica, e alla distinzione, per rendere agevole, con tal mezzo, all'intelletto la sua operazione.
In tutte due le parti, così teorica, come dommatica, non si potrebbe prendere la minima considerazione, vuoi sopra l'oggetto, vuoi sopra il soggetto del pensiero.
4. Sotto l'ultimo rispetto la logica si potrebbe dividere in pura e applicata.
Nella logica pura astragghiamo l'intelletto dalle altre potenze dell'animo, e consideriamo ciò che esso fa da se solo. La logica pratica considera l'intelletto nella sua unione con le altre potenze dell'animo, le quali agiscono nelle operazioni di quello, e gli danno una direzione obliqua, sì che non proceda secondo le leggi, la cui rettitudine ei pur ben avvisa. La logica applicata non dovrebbe propriamente appellarsi logica, essa è una psicologia, nella quale consideriamo come si soglia procedere nel pensiero, e non già come si debba procedere. In fine essa dice, per verità, ciò che sia da fare sotto i diversi impedimenti subbiettivi e i limiti, per rettamente usare l'intelletto; possiamo ancora da essa apprendere quel che giova a cotesto uso retto, i mezzi cioè preservativi, e i mezzi curativi dalle fallacie logiche e dagli errori. Nulla però di meno essa non è propedeutica: perciocchè la psicologia, onde tutto si ha da prendere nella logica applicata, è una parte delle scienze filosofiche, alle quali la logica deve essere la propedeutica.
Si dice, per verità: la tecnica, o la maniera e guisa, di formare una scienza si ha da esporre nella logica applicata. Ma ciò è inutile, anzi dannoso: perciocchè s'incomincia a costruire, prima che si abbia materiali; e si dà la forma bensì, ma ci manca la materia. La tecnica è uopo che si esponga in ogni scienza.
5. Per ciò che, in fine, riguarda la divisione in logica dell'intelletto comune (sensus communis), e in quella dell'intelletto speculativo, noi osserviamo che questa scienza non può essere affatto in tal modo divisa.
Ella non può essere una scienza dell'intelletto speculativo. Perciocchè, come logica della conoscenza speculativa o dell'uso speculativo della ragione, sarebbe un organo di altre scienze, e non una semplice propedeutica che deve guidare a tutti gli usi possibili dell'intelletto e della ragione. Tanto meno ancora può essere la logica un prodotto del senso comune; perché il senso comune è la facoltà di avvisare le regole della conoscenza in concreto; laddove la logica deve essere scienza delle regole del pensiero in astratto.
Intanto si può prendere l'intelletto umano generale per oggetto della logica, e in ciò si farà astrazione dalle regole particolari della ragione speculativa, e però si distinguerà dalla logica dell'intelletto speculativo.
Per ciò che riguarda l'esposizione della logica può essere scolastica o popolare. È scolastica, se si conforma al desiderio del sapere, alla capacità e alla coltura di coloro, che vogliono trattare come scienza la conoscenza delle regole logiche; popolare poi, se si accomoda alla capacità e ai bisogni di coloro, che non istudiano la logica come scienza, ma vogliono usarla solamente a chiarire il loro intelletto. Nella esposizione scolastica le regole debbono essere esposte nella loro generalità o in astratto; nella popolare, al contrario, in particolare o in concreto. La esposizione scolastica è il fondamento della popolare; perciocchè quegli solamente può esporre qualche cosa in una maniera popolare, che potrebbe esporla ancora in una maniera fondamentale. Noi qui, per altro, facciamo differenza tra esposizione e metodo: vale a dire, per metodo è da intendere la maniera e guisa, come sia da conoscere pienamente un determinato oggetto, alla cui conoscenza devesi applicare. Esso si ha da prendere dalla natura della scienza stessa, e però, come ordine del pensiero, da quella determinato e necessario, non soffre mutamento di sorta. Esposizione vuol dire solamente, maniera di comunicare agli altri i propri pensieri, per rendere intelligibile una dottrina.
Da ciò che abbiamo detto fin qui sopra l'essenza e il fine della logica, si può ormai stimare secondo misura giusta e determinata, il pregio di questa scienza e l'utilità del suo studio. La logica dunque non è, a dir vero, un'arte generale di scoprimento, e un organo di verità; un'algebra con l'aiuto della quale si possa scoprire verità nascoste. Ma ella è assai utile e indispensabile come critica della conoscenza; o pel giudizio della ragione, sì comune e sì speculativa, non per istruirla, ma solamente per renderla corretta e concorde con se stessa. Perciocchè il principio logico della verità è l'accordo dell'intelletto con le sue proprie leggi generali.
Per ciò che, in fine, riguarda la storia della logica, vogliamo sol dire quanto segue. La logica moderna deriva dall'analitica di Aristotele. Questi può essere riguardato come il padre della logica. Egli la espose come un organo, e la divise in analitica e dialettica. La sua maniera d'insegnare è molto scolastica, e mira alla spiegazione dei concetti più generali che stanno a fondamento della logica; di che intanto non si ha alcuna utilità, perciocchè quasi tutto va a riuscire a mere sottigliezze, salvo che sonosi di là ricavate le denominazioni delle diverse operazioni dell'intelletto. Del rimanente la logica, dai tempi di Aristotele, non ha molto guadagnato nella sostanza, né, per la sua natura, il può. Ma ben il può, rispetto all'esattezza, alla precisione e alla lucidezza. Egli ci ha sol poche scienze, che possono pervenire ad uno stato fisso da non poter essere mutate in meglio. A queste appartiene la logica e ancora la metafisica. Aristotele non ha tralasciato alcun momento dell'intelletto; noi siamo in ciò solamente più esatti, più metodici e più ordinati. Veramente si è creduto che la logica si fosse, per mezzo dell'organo di Lambert, di molto avvantaggiata. Ma esso non contiene che divisione più sottili, le quali, come tutte le giuste sottigliezze, aguzzano bensì l'intelletto, ma non sono di un uso essenziale.
Fra i filosofi moderni ci ha due, Leibnitz e Wolff, che han messo in voga una logica generale.
Malebranche e Locke non han trattato propriamente la logica, poiché essi si occupano della materia della conoscenza e dell'origine de' concetti.
La logica generale di Wolff è la migliore che si abbia. Alcuni, come p. e. Reusch, l'hanno collegata con l'aristotelica.
Baumgarten, uomo che in questo ha molto merito, compendiò la logica wolfiana, e Meyer poi fece di nuovo comenti sopra Baumgarten.
Fra i moderni logici è ancora Crusio, se non che egli non ne avvisò la vera natura. Perocché la sua logica contiene principii di metafisica, e quindi oltrepassò, per tale ragione, i limiti di questa scienza; oltre a ciò pone un criterio di verità, che non può essere un criterio, e perciò lascia libero corso a tutte le fantasticherie. A nostri tempi non si è dato alcun logico celebre, né noi abbisogniamo di alcuna invenzione per la logica, perocché essa contiene semplicemente la forma del pensiero.
Egli è difficile, talvolta, chiarire che sia una scienza. Se non che, col fermarne ben bene il concetto, ella viene a guadagnare in precisione, e si cansano per ragioni certe taluni errori, che altrimenti s'introducono, ove non la si possa pur distinguere dalle altre scienze a lei affini.
Intanto, prima che tentassimo di porgere una definizione della filosofia, ci è uopo, esaminare il carattere delle diverse conoscenze stesse, e poiché le conoscenze filosofiche sono razionali, chiarire particolarmente ciò che sia da intendere per queste ultime.
Le conoscenze razionali sono opposte alle storiche. Quelle sono conoscenze per principii (ex principiis); queste, conoscenze per dati (ex datis). Una conoscenza poi può venire dalla ragione, ed essere, ciò non per tanto, storica; come, p. e., se un semplice letterato apprende le produzioni della ragione altrui, la sua conoscenza circa tali produzioni razionali è meramente storica. Vale a dire, si può la conoscenza distinguere:
1. quanto alla sua origine obbiettiva, cioè alle sorgenti dalle quali solamente può venire; e per cotesto rispetto tutte le conoscenze sono razionali, o empiriche;
2. quanto alla sua origine subbiettiva, cioè alla maniera, onde può essere acquistata dagli uomini. Dal qual punto di vista considerate le conoscenze, possono essere razionali o storiche, quale che possa essere la loro origine in se. Onde può essere obbiettivamente conoscenza razionale, qualche cosa che subbiettivamente pur non sia che conoscenza storica.
In alcune conoscenze razionali egli è dannevole sapere solo storicamente; in altre, al contrario, è ciò indifferente. Così p. e. il nocchiero sa storicamente, mediante le sue tavole, le regole della navigazione; e ciò gli è bastevole. Ma se il giurisprudente non sa che storicamente la giurisprudenza, egli è del tutto incapace a farla da giudice, e ancora più da legislatore.
Or dalla indicata differenza tra la conoscenza razionale obbiettiva e la subbiettiva apparisce chiaramente, come si può in certo riguardo imparare la filosofia, senza saper filosofare. Chi vuol dunque divenir propriamente filosofo, gli è uopo che si abitui a fare della sua ragione un uso libero e non di semplice imitazione e, per così dire, meccanico.
Abbiamo dichiarate le conoscenze razionali, conoscenze per principii; di qui segue, che elle han da essere a priori. Or ei ci ha due specie di conoscenze che sono tutte e due a priori, le quali non per tanto han fra loro una differenza assai considerevole; cioè la matematica e la filosofia.
Si suole affermare, che la matematica e la filosofia sien fra loro differenti, quanto all'oggetto, maneggiandosi la prima intorno la quantità, e la seconda intorno la qualità. Il che è del tutto falso. La differenza di queste scienze non può fondarsi nell'oggetto; perciocchè la filosofia versa in tutto, e però ancora nella quantità; la matematica ancora, sotto un certo rispetto, in quanto, cioè, che tutto ha grandezza. Ma solamente la differente specie della conoscenza razionale o dell'uso della ragione, nella matematica e nella filosofia, forma tutta la differenza specifica tra queste due scienze. Vale a dire, filosofia è la conoscenza razionale per meri concetti; matematica, al contrario, la conoscenza razionale per costruzione di concetti.
Noi costruiamo concetti, quando li esponiamo nella intuizione a priori senza l'esperienza, e quando esponiamo nella intuizione l'oggetto che risponde al concetto che ne abbiamo. Il matematico non può mai servirsi della sua ragione per meri concetti, il filosofo non può servirsene per costruzione di concetti. Nella matematica si usa la ragione in concreto, la intuizione poi non è empirica, ma vi si costruisce qualche cosa a priori per l'oggetto della intuizione. E però la matematica ha in questo, come si vede, un vantaggio su la filosofia, che le conoscenze della prima sono intuitive, quelle della seconda non sono che discorsive. La ragione poi, perché nella matematica consideriamo più le grandezze, dimora in ciò, che le grandezze possano essere costruite nella intuizione a priori, le qualità, al contrario, non si lasciano esporre nella intuizione.
La filosofia dunque è il sistema delle conoscenze filosofiche, o delle conoscenze razionali per concetti. Tale è il concetto che la scuola ha di questa scienza. Secondo il concetto del mondo, ella è la scienza degli ultimi fini della ragione umana. Questo alto concetto dà una dignità alla filosofia, cioè un valore assoluto. E realmente ella è la sola che ha valore intrinseco, e che dà un primo valore a tutte le altre conoscenze.
In fine, si dimanda pur sempre: a che serve il filosofare, e quale n'è lo scopo supremo, considerata pur la filosofia come scienza, giusta il concetto della scuola? In cotesto significato scolastico del vocabolo, filosofia altro non vuol dire che abilità; secondo il concetto cosmico, al contrario, significa utilità. Nel primo aspetto ella è perciò una dottrina dell'abilità; nel secondo, una dottrina della sapienza, la legislatrice della ragione, e il filosofo, in quanto a ciò non è artista della ragione, ma legislatore. L'artista della ragione, o, come Socrate l'appella, il filodosso aspira semplicemente ad un sapere speculativo, senza por mente a questo, quanto, cioè, il sapere conferisca agli ultimi fini della ragione umana; egli porge regole per l'uso della ragione a fini arbitrari d'ogni sorta. Il filosofo pratico, il maestro della sapienza, mediante l'insegnamento e l'esempio, è propriamente il filosofo; perciocchè la filosofia è l'idea di una perfetta sapienza, che ci mostra gli ultimi fini dell'umana ragione.
Alla filosofia, secondo il concetto della scuola, s'appartiene avere, primamente, un corredo sufficiente di conoscenze razionali; secondamente, una composizione sistematica di queste conoscenze, o un loro collegamento nell'idea di un tutto. La filosofia non solamente permette una così fatta rigorosa composizione sistematica, ma che anzi è l'unica scienza, che in senso strettissimo ha connessione sistematica, e da unità sistematica a tutte le altre scienze.
La filosofia poi riguardata secondo il concetto del mondo (in sensu cosmico), si può appellare ancora: scienza intorno le massime supreme dell'uso di nostra ragione, dovechè s'intenda per massima il principio interno della elezione tra differenti fini. Imperciocchè la filosofia, in questo senso, è bensì la scienza della relazione d'ogni conoscenza ed uso razionale al fine ultimo della ragione umana, al quale, come a supremo, sono subordinati tutti gli altri fini, ed è uopo che vi si raccolgano ad unità.
Il campo della filosofia, in questo senso cosmopolitico, si può ridurre alle seguenti dimande:
1. che cosa posso io sapere?
2. che cosa debbo io fare?
3. che cosa mi è dato sperare?
4. che cosa è l'uomo?
Alla prima dimanda risponde la metafisica; alla seconda, la morale; alla terza, la religione; e alla quarta, l'antropologia. Ma in fondo potrebbesi tutto questo aggiudicare all'antropologia, per la ragione che le tre prime dimande si riferiscono all'ultima.
È quindi mestieri che il filosofo possa determinare:
1. le sorgenti del sapere umano;
2. la sfera dell'uso possibile ed utile di tutto il sapere;
3. in fine, i limiti della ragione.
L'ultima domanda è la più importante e ancora la più difficile; se non che, il filodosso non si cura di essa.
Ad un filosofo fan uopo principalmente due cose: 1. coltura dell'ingegno e dell'attitudine, per usarli ad ogni sorta fini; 2. prontezza nell'uso d'ogni mezzo a qualsivoglia fine. Ei bisogna che le due cose vadono unite; perciocchè, senza conoscenze, non si diverrà mai filosofo; ma, del pari, le sole conoscenze non formeranno il filosofo, dove un conveniente collegamento di tutte le conoscenze ed attitudini non concorra all'unità, e non s'abbia perspicacia di accordarle ai fini supremi dell'umana ragione.
Niuno, generalmente, che non sappia filosofare, può appellarsi filosofo. Ma non s'impara a filosofare che con l'esercizio e l'uso della propria ragione.
Come potrebbesi ancora propriamente imparare la filosofia? Ogni pensatore filosofo costruisce, a così parlare, l'opera sua propria su le ruine di un'altra, ma non si è mai compiuta opera alcuna, che fosse stata ferma in tutte le sue parti. Non si può quindi imparare a fondo la filosofia, perché essa non è ancora data. Ma, posto pure che n'esistesse realmente una, niuno, pur imparandola, potrebbe dire di essere filosofo; perciocchè la sua conoscenza, non sarebbe, che subbiettivamente storica. Nella matematica la cosa va altrimenti. Questa scienza si può ben imparare in certa maniera; perciocchè le dimostrazioni sono qui così evidenti, che ciascuno ne può essere convinto; ancora, per la stessa evidenza, può essere quasi riguardata come un insegnamento certo e stabile. Al contrario, chi vuole apprendere a filosofare, può riguardare tutti i sistemi di filosofia solamente come storia dell'uso della ragione, e come oggetto di esercizio del suo ingegno filosofico. Il vero filosofo deve dunque fare, come pensatore da se, un uso della sua ragione libero e proprio, per nulla di servile imitazione. Ma nè pure farne un uso dialettico, cioè tale, che miri solamente a dare alle conoscenze un'apparenza di verità, e di sapienza. La è questa faccenda da meri sofisti, ma affatto incompatibile con la dignità del filosofo, qual conoscitore e maestro di sapienza. Per fermo, la scienza non ha un vero valore intrinseco che come organo della sapienza. E, come tale, è a questa indispensabile, per forma che si può ben dire, sapienza mancante di scienza sia adombramento di una perfezione cui non toccheremo giammai. Chi odia la scienza, ma di tanto più ama la sapienza, appellasi misologo. La misologia deriva, ordinariamente, da mancanza di conoscenze scientifiche, unita a certa specie di vanità. Se non che cadono talvolta nel vizio della misologia pur coloro, che prima con grande diligenza e felicità andaron dietro alle scienze, e alla fine poi non trovarono in tutto il loro sapere alcuna soddisfazione. La filosofia è l'unica scienza, che ci sappia procurare cotesta interna soddisfazione; perciocchè ella chiude, per così dire, il circolo scienziale, e quindi per suo mezzo principalmente ottengono le scienze ordine e connessione. Per la qual cosa, ad aiutare l'esercizio del proprio pensiero, o del filosofare, avremo da badare più al metodo, onde abbiamo da usare nostra ragione, che alle proposizioni istesse alle quali siamo per esso pervenuti.
Egli torna malagevole determinare i limiti, dove finisca l'uso comune dell'intelletto, e incominci l'uso speculativo; ovvero, dove la conoscenza razionale comune divenga filosofia. Non per tanto è qui un carattere di differenza, abbastanza sicuro, ed è questo: La conoscenza del generale in astratto è conoscenza speculativa; la conoscenza del generale in concreto, è conoscenza comune. La conoscenza filosofica è conoscenza speculativa della ragione, e però essa incomincia là, dove l'uso comune della ragione incomincia a far tentativi nella conoscenza del generale in astratto.
Or, mediante cotesta determinata differenza tra l'uso comune e l'uso speculativo della ragione, si può discernere, da qual popolo si abbia a datare l'incominciamento della filosofia. Adunque fra tutti i popoli i Greci per i primi incominciarono a filosofare: perciocchè essi i primi tentarono di coltivare le conoscenze razionali, non nell'involucro delle immagini, ma in astratto; laddove gli altri popoli non si adoperarono a rendere intelligibili i concetti che sempre per via d'immagini in concreto. Ci ha pure a nostri giorni popoli, come i Cinesi e alcuni Indiani, che, a dir vero, trattano di cose, la quali sono apprese solamente dalla ragione, come, di Dio, dell'immortalità dell'anima ed altrettali, ma tuttavia non si adoperano a investigare, secondo concetti e regole in astratto, la natura di tali oggetti. Essi non fanno alcuna distinzione tra l'uso in concreto della nostra ragione, e quello in astratto. Appo i Persiani e gli Arabi trovasi, a dir vero, qualche uso speculativo della ragione; ma le regole che ne hanno sono le aristoteliche, e però tolte dai Greci. Nel Zend-Avesta di Zoroastro non si trova pur minimo vestigio di filosofia. Lo stesso è a dire ancora della magnificata sapienza egiziana, che, in paragone della filosofia greca, è stata un mero giuoco fanciullesco.
Come nella filosofia così in riguardo alla matematica ancora i Greci sono stati i primi a coltivare con metodo speculativo e scientifico questa parte delle conoscenze razionali, avendo essi dimostrato ogni teorema per via di elementi. Ma quando e dove fra i Greci sia prima sorto lo spirito filosofico, non si può precisamente determinare.
Il primo a introdurre l'uso della ragione speculativa, e da cui siensi ancora derivati i primi passi dell'intelletto umano per la cultura scientifica, è Talete, capo della setta ionica. Egli portò il soprannome di fisico, sebbene fosse ancora matematico; siccome generalmente la matematica è andata sempre innanzi alla filosofia. Del rimanente i primi filosofi vestivano tutto d'immagini. Percioccé la poesia, la quale in altro non consiste propriamente che nel vestire d'immagini i pensieri, è più antica della prosa. Onde a principio per sino nelle cose che sono assolutamente oggetto della pura ragione, si dovette usare parole d'immagini e maniere di scrivere poetiche. Ferecide vuolsi che sia stato il primo scrittore in prosa.
Agli Ionici seguirono gli Eleati. Il principio fondamentale della filosofia eleatica e del suo fondatore Senofane era: nei sensi è illusione ed apparenza, solo nell'intelletto sta la sorgente della verità.
Fra i filosofi di questa scuola si distinse Zenone, come uomo di grande intendimento e perspicacia e come dialettico sottile.
La dialettica a principio significò l'arte dell'uso puro dell'intelletto in riguardo ai concetti astratti, spogliati d'ogni sensibile. Di qui i molti encomi di quest'arte presso gli antichi. In seguito, come quei filosofi, che rigettavano interamente la testimonianza dei sensi, dovettero cadere per questo necessariamente in molte sottigliezze, la dialettica degenerò in arte di sostenere ed impugnare ogni proposizione. E così divenne un mero esercizio da sofisti, i quali volevano ragionare su tutto, e si adoperavano a dare all'apparenza il colore della verità, e di fare il bianco, nero, ed il nero, bianco. Per la qual cosa il nome ancora di sofista, che una volta significava uomo che poteva parlare con assennatezza e perspicacia sopra tutte le cose, divenne poscia sì odioso e spregevole, e in suo luogo s'introdusse il nome di filosofo.
Quasi a tempo della scuola ionica comparve nella Magna-Grecia un uomo di straordinario ingegno, il quale non solo fondò, come Talete, una scuola, ma ancora formò e pose in atto un progetto, che simile non si era avuto giammai. Quest'uomo fu Pitagora, nativo di Samo — Vale a dire stabilì una società di filosofi, i quali erano insieme uniti fra loro mediante la legge della segretezza. Divise i suoi scolari in due classi: cioè in acusmatici, ἀκουσματικοί che dovevano semplicemente udire, e acroamatici, ἀκροματικόί a cui era ancora permesso di dimandare. Nella sua dottrina ci avea una parte essoterica che esponeva a tutti; e un'altra che era segreta ed esoterica, destinata solamente ai membri della sua società, che egli accoglieva nella più intrinseca amicizia e che segregava interamente da tutti gli altri. A veicolo della sua dottrina segreta egli faceva la fisica e la teologia, e però la dottrina del visibile e dell'invisibile. Ebbe ancora diversi simboli, i quali probabilmente non dovettero essere altro che certi segni usati dai pitagorici per intendersi tra loro. Il fine della sua unione pare non sia stato altro che: purgare la religione dai pregiudizi del popolo, temperare la tirannia e introdurre negli stati miglior forma legale. Ma questa unione, che i tiranni incominciarono a temere, fu distrutta poco prima della morte di Pitagora, e cotale società filosofica fu disciolta, parte per l'uccisione, parte per la fuga e l'esilio di molti de' soci. I pochi rimasti erano novizi. E poiché costoro poco sapevano gl'insegnamenti propri di Pitagora, non se ne può dire niente di certo e di determinato. In seguito sonosi attribuite a Pitagora, che per altro era un grande ingegno matematico, molte dottrine del tutto, a dir vero, immaginarie.
L'epoca più importante della filosofia greca cominciò in fine con Socrate: perciocchè egli fu appunto colui che allo spirito filosofico e a tutte le menti speculative diede un indirizzo pratico del tutto nuovo. Egli ancora fra tutti gli uomini è stato quasi l'unico, la cui condotta siasi più avvicinata all'idea del saggio.
Fra i suoi discepoli è Platone, il quale più che altri occupossi degl'insegnamenti pratici di Socrate; e tra i discepoli di Platone, Aristotele, il più celebre, che dette nuovo impulso alla filosofia speculativa.
A Platone ed Aristotele seguirono gli Epicurei e gli Stoici, che furono nemici giurati fra loro. Quelli riponevano il bene supremo nella gioia del cuore, che appellavano voluttà; questi lo trovavano unicamente in quella elevatezza e forza dell'animo, in cui si può far senza ogni piacevolezza della vita.
Gli stoici erano del rimanente dialettici nella filosofia speculativa, dommatici nella filosofia morale, e mostravano nei loro principii pratici (onde hanno sparso il seme per i più nobili sentimenti che sieno mai esistiti) molta non comune dignità. Il fondatore della scuola stoica è Zenone da Cizico. I più rinomati di questa scuola tra i filosofi greci sono Cleante e Crisippo.
La scuola epicurea non ha potuto giammai pervenire a quella rinomanza in cui fu la stoica. Ma quello che si può sempre dire con certezza degli Epicurei, è questo, che essi mostravano la più grande temperanza nel godimento ed erano i migliori filosofi della natura fra tutti i pensatori della Grecia.
Notiamo ancora qui come le principali scuole greche portarono un nome particolare. Così, la scuola di Platone si appellò Accademia, quella di Aristotele Liceo, la scuola degli Stoici Portico, στοά, passeggio coperto, donde venne il nome di Stoici; la scuola di Epicuro, Orti, per ciò che Epicuro insegnava in giardini.
All'accademia di Platone tennero dietro ancora tre altre accademie, fondate dai suoi discepoli. La prima ebbe a fondatore Speusippo, la seconda Arcesilao, e la terza Carneade.
Queste accademie inchinavano allo scetticismo. Speusippo ed Arcesilao conformarono tutti e due la loro maniera di pensare al dubbio, e Carneade si cacciò più oltre ancora. Per questa cagione gli scettici, filosofi sottili, dialettici, sono stati pur detti accademici. Gli accademici seguirono perciò il primo grande scettico Pirrone e suoi successori. Platone istesso, loro maestro, ne aveva dato loro l'occasione, avendo esposte molte sue dottrine per via di dialoghi, sì che furono introdotte ragioni pro e contra, senza pronunciare sopra quelle sua sentenza decisiva, sebbene egli fosse, per altro, molto dommatico.
Facendosi incominciare l'epoca dello scetticismo con Pirrone, si ha una intera scuola di scettici che nel loro modo di pensare e nel metodo di filosofare si distinguono essenzialmente dai dommatici; poiché essi toglievano a prima massima d'ogni uso filosofico della ragione, il rattenere il proprio giudizio, anche nella più grande apparenza della verità; ed avevano elevato a principio, che la filosofia consista nell'equilibrio del giudizio, e c'insegni a scoprire la falsa apparenza. Di questi scettici poi non ci è rimasto che le due opere di Sesto Empirico che vi raccolse tutti i dubbi.
Passata poi la filosofia dai Greci ai Romani, non ha progredito, perciocchè i Romani sono stati sempre discepoli. Cicerone era, nella filosofia speculativa, discepolo di Platone, nella morale, uno stoico. Della setta stoica i più celebri furono Epitteto, Antonino il filosofo e Seneca. Non ci fu alcun fisico tra i Romani, salvo Plinio il vecchio, che ha lasciato una storia naturale. In fine anche presso i Romani disparve la cultura e si ebbe la barbarie, sino a che gli Arabi, nel VI. e VII. secolo, non cominciarono ad applicarsi alle scienze e a ritornare in fiore Aristotele. Allora perciò vennero nell'occidente di nuovo in su le scienze, e in ispecialità il rispetto per Aristotele, a cui poi si tenne dietro servilmente. Nell'undecimo e duedecimo secolo vennero gli scolastici; i quali spiegarono Aristotele e ne spinsero le sottigliezze all'infinito. Non si occuparono d'altro, che di vane astrazioni. Cotesto metodo scolastico di falso filosofare fu rimosso a tempo della riforma; e allora si ebbero gli eclettici in filosofia, cioè tali pensatori indipendenti, che non professavano alcuna scuola, ma cercavano la verità e la prendevano dovunque la si trovasse.
La filosofia nei tempi moderni poi deve il suo miglioramento, parte al maggiore studio della natura, parte al collegamento della matematica con la fisica. L'ordine che per lo studio di queste scienze provenne nel pensiero, si estese ancora ai rami speciali e alle parti della filosofia propriamente detta. Il primo e più grande fisico de' nuovi tempi fu Bacone da Verulamio; il quale tenne nelle sue ricerche la via dell'esperienza, e fece por mente alla importanza e necessità somma delle osservazioni e degli esperimenti per iscoprire la verità. Del resto egli è difficile dire onde propriamente derivi il miglioramento della filosofia speculativa. Non poco ben meritò di essa Descartes, poiché molto contribuì a dare lucidezza al pensiero, mediante il criterio da lui proposto della verità, che consiste nella chiarezza ed evidenza della conoscenza.
Ma tra i più grandi e benemeriti riformatori della filosofia a' nostri tempi è da annoverare Leibnitz e Locke. Questi si adoperò ad esaminare l'intelletto umano, e a chiarire, quali facoltà e quali operazioni dell'anima appartengano a questa o a quella conoscenza. Ma l'opera del suo esame non fu compita; il suo procedimento ancora è dommatico, sebbene abbia prodotto il vantaggio di essersi incominciato a studiare meglio e più profondamente la natura dell'anima.
Per ciò che riguarda il metodo dommatico speciale di filosofare proprio di Leibnitz e di Wolff, si può dire che fu assai difettoso; anzi è cotanto illusorio, da doversi bandire in tutto il suo procedimento, e introdurre in sua vece un altro, il metodo cioè della filosofia critica, che consiste nel ricercare il procedimento della ragione istessa, nello esaminare tutta quanta la facoltà conoscitiva dell'uomo, e provare fin dove si possano estendere i suoi confini.
A' nostri tempi è in istato fiorente la filosofia della natura, e tra i suoi cultori ci ha taluni di grande rinomanza, p. e. Newton — Ora non si può indicare propriamente alcun nuovo filosofo distinto, che sia per lasciare rinomanza di sé, perciòcché tutto qui egualmente si dilegua. Ciò che l'uno fa, l'altro disfà dalle fondamenta.
Nella filosofia morale noi non siamo andati più innanzi degli antichi. Quanto alla metafisica pare come se fossimo stati sopraffatti nella ricerca di cotesta specie di verità. Mostrasi oggi una maniera d'indifferentismo contro questa scienza, poiché pare che ognuno si faccia vanto parlare con disprezzo delle ricerche metafisiche, come di mere sottigliezze. E pure la metafisica è la filosofia propriamente detta, la vera filosofia!
Il nostro secolo è il secolo della critica, e si ha da vedere ciò che escirà dai tentativi critici dei nostri tempi per rispetto alla filosofia e alla metafisica in ispecialità.
Conoscenza in generale. — Conoscenza intuitiva e discorsiva; intuizione e concetto, e loro differenza in particolare. — Perfezione logica e perfezione estetica della conoscenza.
Ogni nostra conoscenza [Erkenntniss] ha duplice relazione: primamente, una relazione all'oggetto; secondamente, una relazione al soggetto. Nel primo rispetto si riferisce alla rappresentazione, e nell'altro alla coscienza, condizione generale d'ogni conoscenza chiara. La coscienza [Bewusstsein] è propriamente una rappresentazione [Vorstellung] che un'altra rappresentazione è in me.
In ogni conoscenza si ha da distinguere la materia, cioè l'oggetto, e la forma, cioè la maniera onde conosciamo l'oggetto. Un selvaggio p. e. vedendo da lungi una CASA di cui non conosce l'uso, ha, per verità, nella rappresentazione innanzi a se, quell'oggetto appunto cui ha altri che la conosce determinatamente come abitazione accomodata per uomini. Se non che, rispetto alla forma, cotesta conoscenza di uno e medesimo obbietto è in lor due differente: nell'uno è mera intuizione, nell'altro intuizione e concetto.
La differenza della forma della conoscenza dimora in una condizione che accompagna ogni conoscenza chiara, cioè nella coscienza. Se io mi sono consapevole della rappresentazione, essa è chiara; se io non mi sono consapevole, è oscura.
Poiché la coscienza è la condizione essenziale di ogni forma logica della conoscenza, la logica può e deve occuparsi delle rappresentazioni chiare solamente, e non già delle oscure. Noi vediamo nella logica non come derivino le rappresentazioni, ma semplicemente come esse si accordino con la forma logica. In generale non può la logica affatto maneggiarsi intorno alle semplici rappresentazioni e alla loro possibilità, il che ella rimette alla metafisica; ma si occupa solamente delle regole del pensiero nei concetti, nei giudizi e nei ragionamenti, come quelle secondo le quali avviene ogni pensiero. Prima che una rappresentazione diventi concetto, va certamente qualche cosa innanzi, come faremo vedere a suo luogo. Ma noi non cercheremo, come le rappresentazioni derivino. La logica tratta, a dir vero, del conoscere,6 per ciò che nel conoscere ha già luogo il pensiero. Ma rappresentazione non è ancora conoscenza; al contrario, conoscenza presuppone sempre rappresentazione. E questa non può essere assolutamente chiarita: perciocchè, a chiarire che sia rappresentazione, si dovrebbe ricorrere sempre nuovamente ad un'altra rappresentazione.
Or tutte le rappresentazioni chiare, alle quali solamente sono applicabili le regole logiche, si possono dividere in distinte e indistinte. Se noi siamo consapevoli di tutta la rappresentazione, ma non della diversità che vi è contenuta, la rappresentazione è indistinta. A chiarimento della cosa togliamo prima un esempio nella intuizione. Scorgiamo da lontano una casa di campagna. Se siamo consapevoli che l'oggetto intuito è una casa, dobbiamo necessariamente avere ancora una rappresentazione delle diverse parti di questa casa, delle fenestre, delle porte e così di seguito. Che se noi non vedessimo le parti, non vedremmo né pure la casa stessa. Ma noi non siamo consapevoli, in questa rappresentazione, della diversità delle sue parti, e però la nostra rappresentazione del menzionato oggetto è indistinta. Se vogliamo inoltre un esempio di concetto indistinto, possiamo servirci all'uopo del concetto di bellezza. Ciascuno ha un concetto chiaro della bellezza. Ma in questo concetto si rinvengono diverse note; fra le altre che il bello debba essere qualche cosa che cada nel senso, e che generalmente piaccia. Or se noi non possiamo sceverare la diversità di queste e di altre note del bello, il concetto che ne abbiamo è tuttavia indistinto.
La rappresentazione indistinta vien appellata confusa dai discepoli di Wolff. Ma questa espressione non va, perciocchè il contrario di confusione non è distinzione, ma ordine. La distinzione, a dir vero, è un effetto dell'ordine, e la indistinzione un effetto della confusione; e però ogni conoscenza confusa è ancora indistinta. Ma non è vera la proposizione inversa; non ogni conoscenza indistinta è conoscenza confusa; perciocchè nelle conoscenze dove non si rinviene alcuna diversità non si trova ordine, e pure non ha luogo alcuna confusione. Tale è la condizione di tutte le rappresentazioni semplici le quali non diventano mai distinte; non perché è in esse confusione, ma perché non vi si rinviene alcuna diversità. Esse perciò si debbono appellare indistinte, ma non già confuse. Anzi, nelle stesse rappresentazioni composte in cui una diversità di note non si lascia distinguere, l'indistinzione spesso deriva non già da confusione, ma da debolezza di coscienza. Vale a dire può qualche cosa esser distinta quanto alla forma, cioè io posso essere consapevole della diversità nella rappresentazione; ma quanto alla materia la distinzione può venir meno, se si diminuisce il grado di coscienza, sebbene vi sia tutto l'ordine. Tale è il caso delle rappresentazioni astratte.
La distinzione istessa può essere duplice: Primamente, sensibile. — Questa consiste nella coscienza della diversità nella intuizione. Io vedo, p. e. la via lattea come una striscia biancastra; i raggi di luce delle singole stelle in essa reperibili debbono necessariamente esser venuti nel mio occhio. Se non che la rappresentazione di essa era solamente chiara, e diviene distinta per mezzo del telescopio, perché allora io discopro le singole stelle contenute in quella via lattea. Secondamente, intellettuale, distinzione nei concetti o distinzione d'intelletto. Questa dimora nell'analisi del concetto in riguardo alla diversità che vi è contenuta. Così, p. e., nel concetto di virtù sono contenuti, come note 1.° il concetto di libertà; 2.° il concetto di soggezione alle regole (del dovere); 3.° il concetto del domare la forza delle inclinazioni, dove che si oppongano a quelle regole. Or noi, disciogliendo così il concetto di virtù nelle sue singole parti costitutive, per mezzo dell'analisi ce lo rendiamo distinto. Per questa distinzione poi nulla aggiungiamo ad un concetto; lo delucidiamo solamente. Onde i concetti per mezzo della distinzione non sono migliorati nella materia, ma solamente nella forma.
Riflettendo alle nostre conoscenze in riguardo alle due potenze fondamentali essenzialmente differenti, sensiva ed intellettiva, dalle quali derivano, c'incontriamo nella differenza tra intuizioni e concetti. Vale a dire, tutte le nostre conoscenze, considerate sotto questo rispetto, sono o intuizioni o concetti. Le prime hanno la loro sorgente nella sensività, facoltà delle intuizioni; i secondi nell'intelletto, facoltà dei concetti. Questa è la differenza logica tra l'intelletto e la sensività, secondo la quale, l'una nient'altro fornisce che intuizioni; l'altro poi nient'altro che concetti7. Veramente le due potenze fondamentali si possono riguardare ancora da un altro lato, e in altra maniera definire; ciò è a dire, la sensiva come potenza della ricettività, l'intellettiva come potenza della spontaneità. Se non che così fatta spiegazione non è logica, ma metafisica. Si suole ancora appellare la sensività potenza inferiore, l'intelletto al contrario potenza superiore; per la ragione che la sensività porge semplicemente la materia al pensiero, l'intelletto poi dispone questa materia e la subordina a regole o concetti.
Nella differenza pur dianzi detta tra le conoscenze intuitive e le discorsive, o tra le intuizioni e i concetti, fondasi la differenza tra la perfezione estetica e la perfezione logica della conoscenza. Una conoscenza può esser perfetta o secondo le leggi della sensività, o secondo le leggi dell'intelletto; nel primo caso è perfetta esteticamente, nel secondo logicamente. Le due perfezioni, l'estetica e la logica, sono perciò di specie differenti; la prima si riferisce alla sensività; la seconda all'intelletto. La perfezione logica della conoscenza dimora nel suo accordo con l'oggetto; quindi nelle leggi valevoli universalmente, e però si può giudicare secondo norme a priori. La perfezione estetica consiste nell'accordo della conoscenza col soggetto, e fondasi nella sensività particolare dell'uomo. Onde nella perfezione estetica non hanno affatto luogo leggi obbiettive e universalmente valevoli, in relazione alle quali si potesse giudicare a priori in una maniera universalmente valevole per ogni essere pensante in generale. Intanto, se ci ha leggi generali della sensività, che, sebbene non abbiano un valore obbiettivo e per ogni pensante in generale, hanno nondimeno un valore subbiettivo per tutta l'umanità; si può pensare ancora una perfezione estetica, che contenga la ragione di un piacere subbiettivo generale. Tale è la bellezza, cosa che piace ai sensi nella intuizione, e appunto per questo può essere l'oggetto di un piacere generale, perché le leggi della intuizione sono le leggi generali della sensività. Per questo accordo con le leggi generali della sensività il bello proprio, per se, la cui essenza sta nella semplice forma, differisce, quanto alla specie, dall'aggradevole, che piace solamente nella sensazione mediante la grazia o il movimento, e perciò ancora può essere cagione solamente di un piacere meramente privato. Codesta perfezione estetica essenziale è ancora ciò che fra tutte le altre si confa con la perfezione logica e meglio vi si lascia collegare.
Quindi sotto questo aspetto la perfezione estetica, in riguardo a quel bello essenziale, può essere di vantaggio alla perfezione logica. Per un altro rispetto poi l'è di nocumento, quando noi nella perfezione estetica non miriamo che al bello non essenziale, il toccante, o il commovente, che piace ai sensi nella sola sensazione, e si riferisce non alla semplice forma, ma alla materia della sensività. Perché il toccante e il commovente possono per lo più guastare la perfezione logica nelle nostre conoscenze e nei nostri giudizi.
In generale, tra la perfezione logica e le estetica della conoscenza, rimane sempre, in verità, una specie di opposizione che non può essere pienamente tolta. L'intelletto vuol essere istruito, la sensività mossa e avvivata; il primo brama di penetrar dentro le cose; la seconda ama cose d'immediata apprensione. Perché le conoscenze han da istruire, è d'uopo che sieno per ciò fondate; dovendo parimenti dilettare, bisogna che sieno ancora belle. Se una esposizione è bella, ma superficiale, può piacere alla sensività solamente, e non all'intelletto; se per contrario è fondata, ma arida, può piacere solamente all'intelletto e non alla sensività ancora.
Intanto, poiché il bisogno della natura umana e il fine della popolarità della conoscenza richiede che noi facciamo opera a riunire tra loro le due perfezioni, egli ci è uopo avere a cuore di dare la perfezione estetica a quelle conoscenze, che in generale ne sono capaci, e di rendere popolare, mediante la forma estetica, una conoscenza regolare, logicamente perfetta. Se non che, studiandoci a collegare nelle nostre conoscenze la perfezione estetica con la perfezione logica, non dobbiamo perdere di vista le seguenti regole; cioè, primamente, che la perfezione logica sia la base di tutte le altre perfezioni, e però non possa essere affatto posposta o sacrificata ad altra; secondamente, che si badi sopra tutto alla perfezione estetica formale, accordo di una conoscenza con le leggi della intuizione, perocché appunto in ciò dimora il bello essenziale che si lascia meglio unire con la perfezione logica; in fine, che col toccante e col commovente, onde una conoscenza opera con efficacia nella sensazione e per la quale interessa, ci è uopo essere assai guardinghi, perocché l'attenzione di leggieri per quel mezzo può essere divertita dall'oggetto al soggetto, onde può evidentemente derivare azione assai dannosa alla perfezione logica della conoscenza.
A rendere intelligibili le differenze essenziali, che han luogo tra la perfezione logica e la estetica della conoscenza, non solo in generale, ma ancora in molte parti speciali, vogliamo paragonarle tra loro tutte e due rispetto ai quattro momenti principali della quantità, qualità, relazione e modalità, da cui dipende il giudizio della perfezione della conoscenza.
Una conoscenza è perfetta rispetto alla quantità, se è universale; alla qualità, se è distinta; alla relazione, se è vera; e in fine alla modalità, se è certa.
Per questi aspetti considerata una conoscenza sarà perciò logicamente perfetta secondo la quantità, se ha universalità obbiettiva (è universalità di concetto o di regola); secondo la qualità, se ha distinzione obbiettiva (distinzione nel concetto); secondo la relazione, se ha verità obbiettiva; e in fine secondo la modalità; se ha certezza obbiettiva.
Or a queste perfezioni logiche corrispondono le seguenti perfezioni estetiche per rispetto ai quattro momenti principali; cioè:
1. la generalità estetica. La quale consiste nell'essere una conoscenza applicabile ad una molteplicità di obbietti che servono di esempi, nei quali si può fare l'applicazione, e perciò diviene acconcia al fine della popolarità;
2. la distinzione estetica. La quale è distinzione nella intuizione, in cui per via di esempi un concetto astrattamente pensato vien esposto o chiarito in concreto;
3. la verità estetica. Una verità semplicemente subbiettiva, che consiste solo nell'accordo della conoscenza col soggetto e con le leggi della apparenza sensibile, e conseguentemente non è altro che apparenza generale;
4. la certezza estetica. La quale dimora in ciò che viene necessariamente dalla testimonianza de' sensi, vale a dire, che è avvalorato mediante la sensazione e l'esperienza.
Nelle anzidette perfezioni si offrono sempre due elementi che nella loro armonica unione formano la perfezione in generale, cioè: la diversità e l'unità. Per intendimento l'unità giace nel concetto, per i sensi nella intuizione. La sola diversità senza l'unità non ci può soddisfare. E quindi principale fra tutte le perfezioni è la verità; perciocchè essa è il fondamento dell'unità per via della relazione di nostra conoscenza all'oggetto. Nella stessa perfezione estetica la verità rimane sempre la conditio sine qua non, la principale condizione negativa, senza la quale nulla generalmente può piacere al gusto. Niuno può quindi sperare di progredire nelle belle lettere, quando non abbia posto a fondamento della sua conoscenza la perfezione logica. Nel maggiore congiungimento possibile della perfezione logica con la estetica in generale, rispetto a conoscenze che debbono del pari ammaestrare e dilettare, mostrasi ancora realmente il carattere e l'arte dell'ingegno.
A. Perfezione logica della conoscenza secondo la quantità. — Grandezza. — Estensiva e intensiva. — Vastità e profondità, o importanza e fecondità della conoscenza. — Determinazione dell'orizzonte della nostra conoscenza.
La grandezza della conoscenza si può prendere in due sensi, cioè come estensiva e come intensiva: la prima si riferisce alla sfera della conoscenza, e però consiste nella sua multiplicità e diversità; la seconda al suo intrinseco valore [Gehalt], e risguarda propriamente il molto valore [Vielgültigkeit] o la logica importanza e fecondità di una conoscenza, in quanto che essa vien riguardata come fondamento di molte e grandi conseguenze (non multa sed multum).
Nello estendere le nostre conoscenze, o nel perfezionarle secondo la grandezza estensiva, egli è bene calcolare, quanto una conoscenza si accordi coi nostri fini e con le nostre attitudini. Questo esame riguarda la determinazione dell'orizzonte delle nostre conoscenze, pel quale è da intendere la convenienza della grandezza di tutte quante le conoscenze con le attitudini e i fini del soggetto.
L'orizzonte si può determinare;
1. Logicamente, cioè per rispetto alla facoltà o potenza conoscitiva in relazione all'interesse dell'intelletto. Nel che abbiamo da giudicare fin dove possiamo avanzarci nella nostra conoscenza, fin dove ci sia uopo in esse progredire, e quanto certe conoscenze possano servire, nell'aspetto logico, di mezzo a queste o quelle conoscenze principali come nostri fini.
2. Esteticamente, rispetto al gusto in relazione all'interesse del sentimento. — Colui che determina il suo orizzonte estetico, cerca d'accomodare la scienza secondo il gusto del pubblico, cioè farla popolare, o in generale fornirsi solamente di tali conoscenze che si possano comunicare a tutti, e nelle quali ancora la classe non istruita trovi piacere ed interesse.
3. Praticamente, rispetto all'utilità, in relazione all'interesse della volontà. L'orizzonte pratico, in quanto è determinato secondo l'azione cui una conoscenza esercita su la nostra moralità, è pragmatico e della maggiore importanza.
L'orizzonte perciò riguarda il giudicare e il determinare ciò che l'uomo può sapere, ciò che gli è permesso sapere, e ciò che deve sapere.
Or, per ciò che riguarda l'orizzonte teoreticamente o logicamente determinato, di cui solamente può qui esser parola, possiamo considerarlo sotto l'aspetto obbiettivo e sotto l'aspetto subbiettivo. In riguardo all'obbietto, l'orizzonte è storico o razionale. Il primo è molto più vasto del secondo, anzi immensamente grande, perciocchè la nostra conoscenza storica non ha limiti. L'orizzonte razionale al contrario si può fissare; si può p. e. determinare a qual maniera di oggetti non si possa estendere la conoscenza matematica. Così ancora, in riguardo alla conoscenza razionale filosofica, fin dove in essa si possa andare a priori, senza alcuna esperienza. — Relativamente al soggetto l'orizzonte è generale ed assoluto, o particolare e condizionato (Privat-Horizzont). —Per orizzonte assoluto e generale è da intendere la convenienza dei limiti delle conoscenze umane coi limiti di tutto il perfezionamento umano in generale. E però qui si dimanda: che cosa può l'uomo come uomo in generale sapere? — La determinazione dell'orizzonte privato dipende da condizioni empiriche di varie maniere, e da rispetti speciali, p. e. dell'età, del sesso, dello stato, della maniera di vita ed altrettali. Quindi ogni classe particolare di uomini, rispetto alle sue facoltà conoscitive speciali, fini e punti determinati, ha il suo particolare orizzonte; ognuno, in conformità delle sue potenze individuali e alla sua situazione, l'orizzonte suo proprio. In fine possiamo ancora concepire un orizzonte della sana ragione, e un orizzonte della scienza, il quale ultimo abbisogna eziandio di principii, a fine di determinare, che possiamo sapere, e che no. — Ciò che non possiamo sapere è sopra il nostro orizzonte; ciò che non ci è dato sapere o non ci è uopo sapere, è fuori il nostro orizzonte. Questo secondo può nondimeno valere soltanto relativamente, rispetto cioè a questo o a quel privato fine particolare, al cui conseguimento certe conseguenze potrebbero non solo non giovare affatto, ma anzi essere d'impedimento. Perocché niuna conoscenza al certo è assolutamente inutile e inservibile, sebbene non sempre possiamo vederne l'utilità. Egli è quindi un rimprovero, quanto insipiente altrettanto ingiusto, quello che è fatto dagl'insensati agli uomini grandi che si travagliano con ogni diligenza intorno alle scienze, quando loro si dimanda: a che utile questo? Tale dimanda è uopo che si faccia volendosi occupare delle scienze, e non mai per lanciarla contro di esse. Posto che una scienza potesse porgere chiarimenti sopra un oggetto qualunque, ella sarebbe perciò già utile abbastanza. Ogni conoscenza logicamente perfetta ha mai sempre un utile possibile, il quale, sebbene fin ora non ci sia conosciuto, sarà forse ritrovato dai posteri. Che se nella cultura delle scienze si fosse badato sempre al profitto materiale soltanto, alla loro utilità, noi non avremmo aritmetica e geometria. Il nostro intelletto è, oltre a ciò, così fatto che trova appagamento nella pura penetrazione delle cose, più che nell'utile che ne deriva. Il che fu ben avvisato da Platone. L'uomo prova in ciò la sua propria eccellenza; sperimenta che significhi aver intelletto. Gli uomini che ciò non sentono, han da invidiare gli animali. Il valore intrinseco che alcune conoscenze hanno per la perfezione logica, non è da paragonare col loro valore estrinseco, valore nell'applicazione. Se non ci è permesso sapere, come superfluo per noi, giusta i nostri fini, quel che è fuori del nostro orizzonte, e ancora, se non dobbiamo sapere, come dannoso per noi, quel che è sotto il nostro orizzonte, allora ciò è da intendere in un senso relativo solamente, e non affatto in un senso assoluto.
In riguardo allo estendimento e ai confini della nostra conoscenza sono da raccomandare le seguenti regole:
Devesi il proprio orizzonte:
1. determinare ben per tempo, ma però allora soltanto, quando lo si può da se: il che ordinariamente non ha luogo prima del ventesimo anno;
2. non mutarlo facilmente e spesso (non passare da uno ad un altro);
3. non misurare l'orizzonte altrui secondo il proprio, e non tenere per inutile ciò che a noi non sia per nulla giovevole; sarebbe temerario, voler determinare l'orizzonte altrui, perciocchè non se ne conoscono bene le attitudini e i fini;
4. né troppo estenderlo, né troppo restringerlo. Perciocchè chi vuol troppo sapere, alla fine si trova di non saper nulla, e per contrario chi crede che alcune cose non gl'interessino punto, spesso s'inganna; come se p. e., il filosofo credesse che la storia non gli sia giovevole. Si cerchi ancora:
5. di determinare anzi tratto l'orizzonte assoluto di tutto il genere umano (quanto al passato e all'avvenire), siccome determinare ancora in ispecialità:
6. il luogo che la nostra scienza occupa nell'orizzonte della conoscenza tutta. A ciò serve l'universale-enciclopedia, come carta universale (mappamondo) delle scienze.
7. Nella determinazione del proprio orizzonte particolare si esamini diligentemente, a quel parte del sapere si abbia maggiore idoneità e inclinazione; ciò che sia più o meno necessario rispetto a certi doveri; ciò che non possa stare insieme coi doveri necessari.
8. In fine, si cerchi di allargare sempre, anzi che restringere, il proprio orizzonte.
Per lo allargamento del conoscere non è da fare in generale ciò che fece d'Alembert; perciocchè egli non ci comprime il peso, ma ci fa più stretto il volume spazioso delle nostre conoscenze. Una critica della ragione, della storia, degli scritti storici, uno spirito generale che comprenda le conoscenze umane nel tutto insieme, e non già semplicemente in particolare, faranno sempre la sfera più piccola, senza che si scemi qualche cosa del contenuto. Dal metallo non va via che la scoria o l'invoglio cotanto fin ora necessario. Con lo incremento della storia naturale, della matematica e così di seguito, saranno ritrovati nuovi metodi che abbrevieranno lo antico e renderanno superflua la moltiplicità dei libri. Egli dipende dal ritrovamento di cotali nuovi metodi e principii che noi, senza molestare la memoria, possiamo col loro aiuto, secondo ci aggrada, ritrovare tutto. Quindi si fa degno di storia, come un ingegno; colui che li comprenda sotto idee che possono per sempre rimanere.
Alla perfezione logica della conoscenza in riguardo alla sua sfera è contraria la ignoranza; imperfezione negativa o imperfezione di mancanza che per i limiti dell'intelletto è inseparabile dalla nostra conoscenza.
Possiamo riguardare l'ignoranza sotto l'aspetto obbiettivo, e sotto l'aspetto subbiettivo. Obbiettivamente presa, l'ignoranza è materiale o formale. La prima dimora in una mancanza di conoscenza storica; l'altra in una mancanza di conoscenza razionale. — In niun genere del sapere si deve essere del tutto ignorante, ma ben si può limitare il sapere storico per darsi maggiormente al razionale, o al contrario. In senso subbiettivo l'ignoranza è dotta, cioè scientifica, ovvero comune. Colui che avvisa distintamente i confini della conoscenza, e però d'onde incomincia il campo dell'ignoranza, il filosofo p. e. che vede e dimostra, quanto poco si possa sapere della composizione dell'oro, per mancanza di dati necessarii all'uopo, è ignorante a ragion veduta, ossia di una maniera dotta. Colui, al contrario, che è ignorante, senza avvisare le ragioni dei limiti dell'ignoranza e sentir pena per questo, lo è di una maniera non scientifica, ma comune. Un cotale non sa né pure di non saper nulla. Perocché non si può mai rappresentare la propria ignoranza che per mezzo della scienza, siccome un cieco non può rappresentarsi il buio che per essere stato finora veggente. La conoscenza della propria ignoranza suppone adunque la scienza, e ci fa modesti; il sapere presuntuoso, al contrario, gonfia. In tal maniera il non sapere di Socrate fu una ignoranza onorevole; e propriamente un sapere di non sapere, giusta la sua propria confessione. Perciò il rimprovero d'ignoranza non può propriamente colpire coloro che posseggono moltissime conoscenze, e ciò non per tanto stupiscono della moltiplicità delle cose che non conoscono.
Non è biasimevole (inculpabilis) in generale la ignoranza in cose la cui conoscenza sorpassa il nostro orizzonte; e può essere permessa, sebbene in senso relativo solamente, rispetto all'uso speculativo delle nostre facoltà conoscitive, in quanto che gli oggetti si trovano, sebbene non sopra, fuori nondimeno il nostro orizzonte. Ma ella è vituperevole in cose che è assai necessario e ancora facile a sapere.
Egli ci ha differenza tra non sapere qualche cosa e ignorare qualche cosa, cioè non prenderne notizia. È buono ignorare molte cose che non è buono a sapere. Lo astrarre ancora differisce da tutte e due coteste cose. Si astrae da una conoscenza, quando se ne ignora l'applicazione; pel che si acquista in astratto, e quindi in generale si può meglio considerare come principio. Un tale astrarre da ciò, che nella conoscenza di una cosa non appartiene al nostro fine, è utile e lodevole.
Coloro che sono storicamente ignoranti sono, d'ordinario, razionalmente istruiti.
Il sapere storico senza determinati confini è polistoria; questa gonfia. La polimatia ci guida alle conoscenze razionali. Questo duplice sapere, il sapere cioè storico estesamente senza determinati confini, ed il sapere razionale si può appellare pansofia. Al sapere storico appartiene la scienza degli organi della erudizione, cioè la filologia che comprende in se una conoscenza critica de' libri e delle lingue, letteratura e linguistica. La semplice polistoria è una erudizione ciclopica, a cui manca un occhio, l'occhio della filosofia; e un ciclope di matematica, di storia, di storia naturale, un filologo e un linguista, è un dotto, che è grande in tutte queste parti, ma che ritiene per inutile ogni filosofia su di esse. Le cose umane (humaniora) fan parte della filologia, per le quali s'intende la conoscenza dell'antichità, che giova all'unione della scienza col gusto, toglie la ruvidezza e promuove la communicabilità e l'urbanità, nel che consiste l'umanità.
Quindi le umane cose (humaniora) riguardano una istruzione in ciò che serve alla coltura del gusto conformemente ai modelli degli antichi. Ad esse appartiene p. e. l'eloquenza, la poesia, la erudizione sopra gli autori classici, ed altrettali. Tutte queste conoscenze di umanità si possono stimare come parte pratica dello filologia, avente direttamente per fine la formazione del gusto. Ma noi distinguendo tuttavia il semplice filologo dall'umanista, essi differirebbero in ciò, che quegli cerca negli antichi il mezzo della erudizione, questi, per contrario, il mezzo della formazione del gusto.
Il bello ingegno, o le bel esprit, è un umanista secondo modelli contemporanei in lingue viventi. Egli non è perciò un dotto, perciocchè solamente le lingue morte son ora lingue dotte, ma un semplice dilettante per conoscenze di gusto secondo la moda, senza aver bisogno degli antichi. Lo si potrebbe appellare la scimia dell'umanista. Il polistorico deve, come filologo, essere linguista e letterato, e come umanista essere versato nei classici e saperli interpretare e comentare. Come filologo egli è colto, come umanista è incivilito.
In riguardo alle scienze ci ha due trasmodamenti del gusto dominante: cioè pedanteria e galanteria. L'una professa le scienze solamente per la scuola, e però le limita rispetto al loro uso; l'altra le professa per la sola conversazione o pel mondo, e però le restringe rispetto al loro contenuto. Il pedante è da riguardare o come dotto in opposizione all'uomo del mondo, e lo è, quanto il gonfio dotto mancante della conoscenza pratica degli uomini, cioè senza conoscere la maniera e la guisa di comunicare ad uomo la sua scienza; ovvero, come uomo di abilità in generale, ma solamente nelle mere forme, e non già quanto alla essenza e al fine. Nel secondo significato egli è un minuto ricercatore di formalità; ristretto per ciò che riguarda il nocciolo delle cose, non guarda che alla veste esteriore e alla buccia. È la imitazione rovescia o la caricatura dello spirito metodico. Quindi la pedanteria si può dire ancora cura minuziosa e precisione inutile (micrologia) in cose di mere forme. E cotale formalismo del metodo scolastico è reperibile fuori la scuola non solo nei dotti e in materie dottrinali, ma ancora in altri stati e in altre cose. Il cerimoniale nelle corti, nella conversazione, che altro è mai, se non una caccia, a così dire, e ricerca minuta di pure forme? Nella milizia non è totalmente così, sebbene così apparisca. Nel parlare, nel vestire, nella maniera di vita, nella religione, spesso domina molta pedanteria. Una esattezza di espressioni, conveniente al fine, è profondità, perfezione regolare, scolastica. Quindi pedanteria è profondità affettata; siccome galanteria, qual mera cortegiana per piacere al gusto, altro non è che popolarità affettata: perciocchè la galanteria si studia di rendersi graziosa al lettore, e quindi di non offenderlo nè pure con qualche parola grave.
Ad evitare la pedanteria, si richiede conoscenze estese non solo nelle scienze stesse, ma ancora in riguardo al loro uso. Quindi il vero dotto solamente può preservarsi dalla pedanteria, propria sempre di una mente ristretta.
Studiandoci di procurare insieme alla nostra conoscenza la perfezione della profondità scolastica e del pari quella della popolarità, senza cadere nell'anzidetta mancanza di un'affettata profondità, o di un affettata popolarità, ei ci è uopo guardare anzitutto alla perfezione scolastica della nostra conoscenza, forma regolare della profondità; e allora soltanto badare al modo di rendere la conoscenza metodicamente imparata nella scuola, veramente popolare, cioè comunicabile agli altri con facilità e generalmente, di maniera che la profondità non iscapiti per la popolarità. Perciocchè in grazia della perfezione popolare (per piacere al popolo) non si deve sacrificare la perfezione scolastica, senza la quale ogni scienza non sarebbe altro che trastullo e baloccamento.
A imparare poi la popolarità, si deve leggere gli antichi, p. e. gli scritti filosofici di Cicerone, i poeti, Orazio, Virgilio, e così di seguito; e tra i moderni Hume, Schaftesbury ed altrettali; uomini tutti che hanno avuto molta frequenza col mondo civile, senza di che non si può essere popolare. Per fermo, la vera popolarità richiede molta conoscenza pratica del mondo e degli uomini; conoscenza dei loro concetti, del loro gusto e delle loro inclinazioni, al che è da riguardare costantemente nella esposizione, ed anche nella scelta delle espressioni più acconce e più convenienti alla popolarità. Questo abbassarsi (condiscendenza) alla intelligenza del publico e alle espressioni comuni, in cui non è posposta la perfezione scolastica, ma solamente la veste del pensiero è ordinata in modo che non si lascia vedere il ponte (la regolarità e la tecnica di quella perfezione), a quel modo che tiransi con la matita le linee sopra cui si scrive, e poscia, tergendo, si fanno sparire, questa verace perfezione popolare della conoscenza è nel fatto una grande e rara perfezione che dimostra, grande profondità nella scienza. Ella, oltre molti altri meriti, ha ancora questo che per la perfetta conoscenza di una cosa può darne una dimostrazione. Perciocchè il semplice saggio scolastico di una conoscenza lascia ancora dubitare, se esso sia imperfetto, e se la conoscenza istessa ben anche abbia un valore che le si può concedere da tutti gli uomini. La scuola ha i suoi pregiudizi, come il senso comune. L'uno qui corregge l'altro. Egli è perciò importante saggiare una conoscenza in uomini, il cui intelletto non sia ligio ad alcuna scuola.
Questa perfezione per cui la si rende capace di comunicazione facile e universale potrebbesi ancora appellare la estensione esterna o la grandezza estensiva di una conoscenza, in quanto che ella è estesa esternamente tra molti uomini.
Poiché ci ha tante e diverse conoscenze, metterà bene formarsi un piano secondo il quale si ordini le scienze, come meglio si accordino ai fini proposti, e conferiscano al loro agevolamento. Tutte le conoscenze hanno fra loro una certa naturale connessione. Or, se nell'adoperarsi per lo allargamento delle conoscenze non si pon mente a questa loro connessione, da tutta la moltiplicità del sapere nient'altro risulterà che una rapsodia. Ma, ove si faccia a scopo una scienza principale, e si consideri tutte le altre conoscenze sol come mezzo per arrivare a quella, si reca nel suo sapere un certo carattere sistematico. E a por mano all'opera per lo allargamento della sua conoscenza secondo un tal piano ben ordinato e rispondente allo scopo, è uopo perciò studiarsi d'imparare a conoscere quel collegamento delle conoscenze fra loro. Al che è introduzione l'architettonica delle scienze, la quale è un sistema informato ad un'idea, in cui le scienze sono considerate per rispetto alla loro attenenza e al legame sistematico in un tutto di conoscenza interessante l'umanità.
Per ciò che riguarda poi in ispecie la grandezza intensiva della conoscenza, cioè il suo valore intrinseco, o il suo molto valore e la importanza, che essenzialmente differisce, come sopra abbiamo notato, dalla grandezza estensiva, semplice loro ampiezza, faremo solamente queste poche osservazioni:
1. È da distinguere una conoscenza che va al grande, cioè al tutto nell'uso dell'intelletto, dalla sottigliezza nel piccolo (micrologia).
2. Logicamente importante è da appellare ogni conoscenza che promuova la perfezione logica quanto alla forma, p. e. ogni proposizione matematica, ogni legge della natura, distintamente avvisata, ogni retto schiarimento filosofico. La importanza pratica non si può prevedere, ma si deve aspettare.
3. Non si deve confondere importanza con la difficoltà. Una conoscenza può essere difficile, senza essere importante, e viceversa. La difficoltà perciò non decide ne pro, né contra il valore e l'importanza di una conoscenza. Questa dimora nella grandezza o multiplicità delle conseguenze. Quanto più o maggiori conseguenze ha una conoscenza, e maggior uso può farsene, tanto maggiormente è importante. Una conoscenza senza importanti conseguenze appellasi sottigliezza; come era p. e. la filosofia scolastica.
Principale perfezione della conoscenza, anzi condizione essenziale ed inseparabile d'ogni sua perfezione, è la verità. La verità, dicesi, consiste nell'accordo della conoscenza con l'oggetto. In conseguenza di questa semplice spiegazione di vocabolo, la mia conoscenza perciò, ad esser vera, deve accordare con l'oggetto. Or io posso paragonare l'oggetto solamente con la mia conoscenza, perché con essa io lo conosco. La mia conoscenza deve perciò convalidare se stessa, il che poi non è ancora bastante alla verità. Perciocchè, essendo qui l'oggetto fuor di me, e la conoscenza in me, io non posso sempre giudicare che di questo: se cioè la mia conoscenza dell'oggetto si accordi con la mia conoscenza dell'oggetto. Un tal circolo nel chiarire una cosa appellavasi diallele dagli antichi. E infatti di contesto mancamento i logici sono stati sempre accusati dagli scettici; i quali osservavano che con quella definizione della verità si procede appunto come uno che faccia innanzi alla giustizia una deposizione, e poi la fondi su di un testimone, cui nessuno conosce, e che vuole farsi credere degno di fede, dicendo che sia uomo onesto colui che l'ha chiamato in testimonio. L'accusa fu del tutto fondata: solamente la soluzione dell'anzidetta quistione è assolutamente e per tutti gli uomini impossibile. Val quanto dire, egli qui si dimanda: se ci abbia, e a che si estenda, un criterio di verità, sicuro, generale e applicabile. Perciocchè questo deve significare la dimanda: che cosa è verità?
A poter isciogliere questa importante quistione, ci è uopo ben distinguere ciò che nella nostra conoscenza appartiene alla sua materia e riferiscesi all'oggetto, da ciò che riguarda la semplice forma, come condizione, senza la quale una conoscenza in genere non sarebbe affatto possibile. Avendo riguardo a questa differenza tra la relazione obbiettiva o materiale e la subbiettiva o formale, nella nostra conoscenza, la suddetta quistione si scioglie in due particolari:
1. ci ha egli un criterio generale materiale di verità?
2. ci ha egli un criterio generale formale di essa?
Un criterio generale materiale della verità non è possibile; anzi egli è in se stesso contradittorio. Perciocchè come criterio generale valevole per tutti gli oggetti in generale, dovrebbe fare del tutto astrazione da ogni loro differenza, e non per tanto, come criterio materiale, dovrebbe pur anche condurre a questa differenza, per poter determinare, se una conoscenza a dirittura s'accordi con l'oggetto al quale è riferita, e non con un oggetto qualunque in generale (con che nulla affatto si direbbe propriamente). In questo accordo di una conoscenza con quell'oggetto determinato, al quale si riferisce, deve poi consistere la verità materiale. Perché una conoscenza, che in riguardo ad un oggetto è vera, può esser falsa rispetto ad un altro. Egli è perciò assurdo chiedere un criterio generale materiale della verità, il quale debba ad un tempo fare e non fare astrazione da ogni differenza di obbietti.
Che se poi la dimanda è per criteri generali formali, allora la soluzione è facile, potendosi dare assolutamente di simili criteri. Perciocchè la verità formale consiste semplicemente nell'accordo della conoscenza con se stessa, facendo astrazione da tutti quanti gli oggetti, e da ogni loro differenza. E però i criteri generali formali della verità altro non sono che segni generali logici dell'accordo della conoscenza con se stessa, ovvero, ciò che torna lo stesso, con le leggi generali dell'intelletto e della ragione. Cotesti criteri formali generali sono, a dir vero, insufficienti per la verità obbiettiva, ma essi tuttavia si han da riguardare come la loro conditio sine qua non. Perciocchè alla dimanda, se la conoscenza si accordi con l'oggetto, deve andare innanzi la dimanda, se ella si accordi con se stessa (secondo la forma). E ciò si appartiene alla logica.
I criteri formali della verità nella logica sono:
1. il principio di contradizione,
2. il principio della ragione sufficiente.
Pel primo si determina la possibilità logica, pel secondo la realtà logica della conoscenza. Val quanto dire, alla verità logica di una conoscenza appartiene: primo, che sia logicamente possibile, cioè non sia contradittoria. Senonchè questo carattere della verità logica interna è puramente negativo; perciocchè una conoscenza che si contradice è per verità, falsa; ma, non contradicendosi, non è sempre vera. Secondo, che sia logicamente fondata, cioè che abbia ragioni, e che non abbia false conseguenze. Questo secondo criterio della verità logica esterna o della razionabilità della conoscenza, riguardante la sua connessione logica con le ragioni e con le conseguenze, è positivo. E valgono qui le seguenti regole:
1. Dalla verità della conseguenza si può conchiudere, ma solo negativamente, la verità della conoscenza come principio: se da una conoscenza segue una falsità, la conoscenza stessa è falsa. Perciocchè se il principio fosse vero, ancora la conseguenza dovrebbe esser vera, per la ragione che la conseguenza è determinata pel principio. Ma non viceversa: se da una conoscenza non deriva alcuna falsa conseguenza, essa è vera; perciocchè si può da un falso principio derivare conseguenze vere.
2. Se tutte le conseguenze di una conoscenza sono vere, la conoscenza è ancora vera. Perocché, se qualche cosa di falso fosse nella conoscenza, dovrebbe aver luogo ancora qualche falsa conseguenza.
Dalla conseguenza si può conchiudere un principio, ma senza poterlo determinare. Solamente dall'insieme di tutte le conseguenze si può solo conchiudere un determinato principio esser vero.
La prima maniera di conchiudere, secondo la quale la conseguenza può essere solamente sufficiente criterio negativo ed indiretto della verità della conoscenza, si appella nella logica maniera apagogica (modus tollens). Questo procedimento di cui vien fatto uso frequente nella geometria, ha il vantaggio che io posso derivare da una conoscenza solamente una falsa conseguenza, per dimostrare la sua falsità. A chiarire p. e. che la terra non sia piana, io posso, senza recare innanzi ragioni positive e dirette, conchiudere solo apagogicamente e indirettamente a questo modo: se la terra fosse piana, la stella polare dovrebbe essere sempre ugualmente alta; ma ciò non accade; dunque essa non è piana. Nell'altra maniera di ragionare, positiva e diretta (modus ponens), s'incontra la difficoltà, che non si può conoscere apoditticamente la totalità delle conseguenze, e però, per la menzionata maniera di conchiudere, si è condotti ad una conoscenza verosimile ed ipoteticamente vera (ipotesi), giusta la supposizione che, laddove molte conseguenze sieno vere, possano ancora esser vere le rimanenti.
Potremo adunque qui stabilire tre principii, come criteri generali e puramente formali o logici della verità, e sono:
1. il principio di contradizione e d'identità (principium contradictionis et identitatis), onde si determina pei giudizi problematici la possibilità interna di una conoscenza;
2. il principio della ragione sufficiente (principium rationis sufficientis), dove si fonda la realtà logica di una conoscenza, e pel quale si determina, come materia di giudizi assertorii, che essa sia fondata;
3. il principio del mezzo escluso (principium exclusi medii inter duo contradictoria), dove si fonda la necessità (logica) di una conoscenza; e pel quale si determina, per i giudizi apodittici, che si debba giudicare necessariamente così e non altrimenti, che cioè l'opposto sia falso.
L'opposto della verità è la falsità, la quale, in quanto è tenuta per verità, appellasi errore. Un giudizio erroneo (perciocchè l'errore come la verità è solamente nei giudizi) è perciò tale che confonde l'apparenza della verità con la verità.
Come la verità sia possibile, è cosa facile a vedere, essendo che l'intelletto quivi procede secondo le sue leggi essenziali. Ma come sia possibile l'errore nel senso formale del vocabolo, cioè come forma del pensiero, contrario all'intelletto, egli è difficile comprendere; a quel modo che non si può in generale comprendere come mai una forza debba allontanarsi dalle sue proprie leggi essenziali. Quindi non possiamo nell'intelletto stesso e nelle sue leggi essenziali ricercare la cagione degli errori, più che non la possiamo nei limiti dell'intelletto, nei quali ha luogo, a dir vero, la cagione dell'ignoranza, ma non affatto quella dell'errore. Or, se noi non avessimo altra potenza conoscitiva che l'intelletto, non erreremmo mai. Ma oltre l'intelletto ancora in noi un'altra sorgente indispensabile di conoscenze, cioè la sensitiva, la quale ci porge la materia del pensiero, e governasi con leggi ben diverse da quelle dell'intelletto. Ma né pure dalla sensitiva, riguardata in se e per se, può derivare l'errore, perciocchè i sensi non giudicano affatto. La cagione di tutti gli errori è perciò unica, ed è mestieri ripeter i unicamente dall'occultazione della sensitiva su l'intelletto, o, a dire più esattamente, sul giudizio. Cotesta azione cioè fa, che noi nel giudicare teniamo per obbiettive ragioni meramente subbiettive, e conseguentemente prendiamo la pura apparenza della verità per la verità istessa. Perocché in ciò appunto consiste l'essenza dell'apparenza, che per questo è da riguardare come cagione, nel tenere cioè per vera una falsa conoscenza. Quel che rende possibile l'errore, è dunque l'apparenza; per la quale nel giudizio si scambia il puro subbiettivo con l'obbiettivo.
In certo senso si può ben anche l'intelletto far cagione di errori, in quanto cioè per mancanza della richiesta attenzione all'azione della sensitiva si lascia sviare dall'apparenza che ne deriva, a tenere per obbiettiva una ragione meramente subbiettiva che determina il giudizio, o pure far valere per vero secondo le sue proprie leggi, ciò che è vero solamente secondo le leggi della sensitiva.
Adunque, dell'ignoranza abbiamo ad incolpare i limiti dell'intelletto; dell'errore, noi stessi. La natura ci ha negato, a dir vero, la notizia di molta cose, sopra un gran numero ci lascia in una ignoranza invincibile, ma ella non per tanto non è cagione dell'errore. A questo ci mena la nostra inclinazione di giudicare e decidere, anche quando, a cagione de' nostri limiti, non lo possiamo.
Senonchè ogni errore, nel quale l'intelletto umano può cadere, è solo parziale, e in ogni giudizio erroneo deve sempre trovarsi qualche cosa di vero. Perciocchè un errore totale sarebbe una totale opposizione alle leggi dell'intelletto e della ragione. Come potrebbe un tale errore derivare in qualche maniera dall'intelletto, e non per tanto valere, in quanto è giudizio, come un prodotto dell'intelletto?
Per rispetto al vero e all'erroneo nella nostra conoscenza distinguiamo una conoscenza esatta da una conoscenza vaga: esatta è la conoscenza, se corrisponde al suo oggetto, ovvero, se in riguardo al suo oggetto non ha luogo il minimo errore; vaga, se vi possono essere errori, senza esservi punto impedimenti pel fine. Questa distinzione riguarda la determinazione più larga o più stretta della nostra conoscenza (cognitio late vel stricte determinata). A principio, talvolta, è uopo determinare una conoscenza in una larga sfera (late determinare), specialmente nelle cose storiche. Ma nelle conoscenze razionali deve essere tutto strettamente (stricte) determinato. Nella determinazione larga dicesi che una conoscenza sia determinata praeter, propter. Egli dipende sempre dal fine di una conoscenza, se debba essere determinata rigorosamente o con larghezza. La determinazione larga lascia sempre luogo all'errore, il quale però può avere i suoi confini determinati. Ha luogo specialmente l'errore, laddove si prende una determinazione larga in vece di una stretta; p. e. nelle cose di moralità, dove tutto deve essere strettamente determinato. Coloro che ciò non fanno, sono appellati latitudinari dagl'Inglesi.
Dalla esattezza, come perfezione obbiettiva della conoscenza (quando la conoscenza conviene perfettamente con l'obbietto), si può ancora distinguere la sottigliezza come perfezione subbiettiva di essa. La conoscenza di una cosa è sottile, se vi si discopre ciò che suole sfuggire all'altrui attenzione. Il che richiede perciò un grado più alto di attenzione e un. maggior dispendio di forza intellettiva. Molti biasimano ogni sottigliezza, dacché essi non vi possono giungere. Ma ella in se stessa fa sempre onore all'intelletto, ed è, anzi, degna di lode e necessaria, doveché sia adoperata ad osservare oggetto importante. Che se poi con poca attenzione e con poco sforzo dell'intelletto si possa raggiungere il fine, e ciò non ostante vi s'impieghi di più, si fa dispendio inutile e si cade in sottigliezze che sono, a dir vero, difficili, ma di niuna utilità (nugae difficiles).
Siccome all'esatto è opposto il vago, così al sottile il grosso.
Dalla natura dell'errore, nel cui concetto è compresa, come abbiamo osservato, oltre la falsità, ancora l'apparenza della verità, come carattere essenziale, segue per la verità della nostra conoscenza la seguente regola importante.
Ad evitare gli errori (nè ci ha errore inevitabile, al meno assolutamente o semplicemente, sebbene possa essere relativamente per quei casi, quando ci è inevitabile il giudicare, anche a rischio di cader in errore) ad evitare, dico, gli errori, è uopo cercare di scoprire e chiarire la loro fonte, l'apparenza: ciò che pochissimi filosofi poi han fatto. Essi han cercato solamente di confutarli, senza scoprire l'apparenza dalla quale derivano. Lo scoprire e dileguare l'apparenza è poi un servigio per la verità assai maggiore che non la confutazione diretta istessa degli errori, con la quale non si può turarne la sorgente, e impedire che l'apparenza (perocché non la si conosce) in altri casi meni nuovamente ad errori. Essendo pur convinti di aver errato, ci rimangono ancora degli scrupoli, per poco che, a giustificarli, possiamo arrecare, nel caso che l'apparenza, che giace a fondamento del nostro errore, non sia dileguata. Inoltre, spiegando l'apparenza, si rende ancora a chi erra una specie di giustizia: perciocchè niuno concederà di aver errato senza qualche apparenza di verità, la quale avrebbe forse potuto ingannare anche uno più perspicace, per questo che in ciò si dipende da ragioni subbiettive.
Un errore ove l'apparenza è evidente al comune intendimento (sensus communis), appellasi sciocchezza, o assurdità. Il rimprovero dell'assurdità è sempre un difetto personale che bisogna evitare, specialmente nella confutazione degli errori. Perciocchè a colui che afferma un'assurdità non è pur discoperta l'apparenza che giace a fondamento della falsità manifesta: è uopo prima discoprirgliela. Che se, ciò non ostante, egli ancora perseveri in essa, è certamente insulso; e con lui non c'è da far niente più, essendosi con ciò fatto incapace non meno che indegno di ogni altra correzione e confutazione. A niuno, per fermo, si può propriamente dimostrare che egli sia assurdo, riuscendo a vuoto ogni sottil ragionamento. Dimostrandosi l'assurdità, ei non si parla più con uom che erra, ma con uomo assennato. Allora poi non è necessario discoprire l'assurdità (deductio ad absurdum).
Errore sciocco si può appellare ancora quello a cui niente, nè pura l'apparenza, serve di scusa; siccome grossolano è quell'errore che dimostra ignoranza di conoscenza comune, o mancanza di attenzione comune.
L'errore nei principii è più grande che nella loro applicazione.
Un segno esterno, o una esterna pietra di paragone della verità, è il paragonare i nostri propri giudizi con gli altrui, perciocchè il subbiettivo non essendo della stessa maniera per tutti gli altri, si può con tal mezzo chiarire l'apparenza. Quindi il disaccordo degli altrui giudizi coi nostri è come un segno esterno di errore, e ci accenna a riguardare e ricercare il nostro procedimento nel giudizio, ma non già a rigettarlo per questo: perciocchè si può, non ostante il disaccordo, aver forse ragione nella cosa, e sol torto nella maniera, cioè nella esposizione.
Il senso comune degli uomini (sensus communis) è ancora in sé stesso una pietra di paragone per íscoprire l'errore nell'uso artificiale dell'intelletto; vale a dire, è raccapezzarsi8, mediante il senso comune, nel pensiero o nell'uso speculativo della ragione, quando esso si adopera come prova per giudicare la legittimità dell'intelletto speculativo.
Le regole generali e le condizioni per causare l'errore sono queste: pensare da sé, pensarsi nel luogo di un altro, e pensare sempre concordemente con sé stesso. La massima di pensare da sé si può appellare maniera chiara di pensare; l'altra di collocarsi, pensando, nel punto di vista altrui, maniera estesa; e quella di pensare sempre concordemente con sé stesso, maniera conseguente o stringente.
La conoscenza umana è, da parte dell'intelletto, discorsiva, cioè avviene per mezzo di rappresentazioni, le quali pongono a fondamento della conoscenza ciò che è comune a più cose, e però avviene per mezzo di note come tali. Noi non conosciamo (intellettivamente) le cose, se non per mezzo di note, e appellasi appunto cognoscere [Erkennen], ciò che deriva dal noscere [Kennen]. Nota [Merkmal] è ciò che in una cosa costituisce una parte della sua conoscenza; o, ciò che è lo stesso, una sua rappresentazione parziale, in quanto vien riguardata come fondamento di conoscenza dell'intera rappresentazione. Per ciò tutti i nostri concetti sono note, e tutto il pensiero non è altro che rappresentazione per mezzo di note.
Ciascuna di esse si può considerare sotto duplice aspetto: primamente, come rappresentazione in sè stessa; secondamente, come appartenente, qual concetto parziale, all'intera rappresentazione di una cosa, e però come fondamento della conoscenza di questa cosa stessa.
Tutte le note, riguardate come ragioni di conoscenza, sono di duplice uso, cioè interno o esterno. L'uso interno consiste nella derivazione, per conoscere la cosa istessa mediante note quali ragioni di sua conoscenza. L'uso esterno consiste nella comparazione, in quanto che noi possiamo paragonare, per mezzo delle note, una cosa con altre secondo le regole della identità e della diversità.
Egli ci ha fra le note differenze specifiche di più sorte, su le quali è fondata la seguente loro classificazione.
1. Note analitiche e note sintetiche. Quelle sono concetti parziali del mio reale concetto (che io vi penso già); queste, al contrario, sono concetti parziali dell'intero concetto meramente possibile, il quale perciò si deve prima formare mediante una sintesi di più parti. Le prime sono tutti concetti razionali, le seconde possono essere concetti di esperienza.
2. Coordinate e subordinate. Questa divisione delle note riguarda la loro diversa maniera di connessione. Sono coordinate, se ciascuna di esse vien rappresentata come nota immediata della cosa; subordinate poi, se una non è rappresentata nella cosa che per mezzo di un'altra. L'unione delle coordinate al tutto del concetto dicesi aggregato; quella delle subordinate, serie. La prima, cioè l'aggregazione delle note coordinate costituisce la totalità del concetto, la quale in riguardo ai concetti sintetici empirici non può essere mai perfetta, e somiglia ad una linea retta senza limiti. La serie delle note subordinate riesce a parte ante, o dalla parte dei principii, a concetti indivisibili che per la loro semplicità non si lasciano più disciogliere; a parte post, o in riguardo alle conseguenze, al contrario, ella è infinita, perciocchè noi abbiamo, a dir vero, il più alto genere, ma non alcuna specie infima. Con la sintesi d'ogni nuovo concetto nell'aggregazione delle note coordinate cresce la distinzione estensiva o larga; siccome con l'ulteriore analisi dei concetti nelle serie delle note subordinate, la distinzione intensiva, o profonda. Questa seconda maniera di distinzione, poichè serve necessariamente alla solidità e validità della conoscenza, è la cosa principale della filosofia, ed è spinta al più alto grado, specialmente nelle ricerche metafisiche.
3. Note affèrmative e note negative — Per quelle noi conosciamo ciò che la cosa è per queste ciò che non è Le note negative servono a tenerci lontani dagli errori. Quindi non sono necessarie là dove è impossibile errare, e sono necessarie e d'importanza solamente in quei casi, quando ci ritengono da grave errore in cui possiamo cadere. Così p. e. in riguardo al concetto di un essere come Dio, le note negative sono necessarissime e importantissime. Adunque, mediante le note affermative, vogliamo intendere qualche cosa; mediante le negative (alle quali si possono tutte ridurre), solo non vogliamo frantendere o errare, dovessimo pur non acquistarne notizia.
4. Note importanti e feconde, e note vuote e di niuna importanza.
Una nota è importante e feconda, se è ragione di conoscenza di grandi e numerose conseguenze, parte in riguardo al suo uso interno (uso di derivazione), in quanto è bastevole a conoscere per suo mezzo molto nella cosa stessa; parte rispetto al suo uso esterno (uso di comparazione), in quanto che serve a ben conoscere così la somiglianza di una cosa con molte altre, come la sua differenza. Del resto dobbiamo qui distinguere l'importanza e la fecondità logica dall'importanza e fecondità pratica (l'essere utile ed usabile).
5. Note sufficienti e necessarie o insufficienti e contingenti.
Una nota è sufficiente, se basta a distinguere sempre la cosa da ogni altra; in caso contrario è insufficiente, come p. e. la nota dell'abbaiar del cane. Se non che la sufficienza delle note ugualmente che la loro importanza si ha a determinare solamente in senso relativo, cioè in relazione ai fini che per mezzo di una conoscenza si ha di mira. Note necessarie sono, infine, quelle che debbono sempre ritrovarsi nella cosa rappresentata. Coteste si appellano ancora essenziali, e sono opposte alle non essenziali e contingenti che si possono disgiungere dal concetto della cosa. Fra le necessarie ci ha poi anche una differenza: Alcune di esse convengono alla cosa come ragione di altre note di una e medesima cosa; altre poi solo come conseguenze di altre note. Le prime sono primitive e costitutive (constitutiva, essentialia in sensu strictissimo); le altre appellansi attributi (consectaria rationata), e appartengono, a dir vero, all'essenza della cosa, ma solamente in quanto sono derivazioni delle sue parti essenziali, come p. e. i tre angoli, nel concetto di un triangolo, dai tre lati. Le non essenziali sono parimenti di due maniere; esse riguardano interne determinazioni di una cosa (modi), o sue esterne relazioni (relationes). Così p. e. la nota della dottrina segna una interna determinazione dell'uomo; esser padrone o servo, soltanto una sua relazione esterna.
L'insieme di tutte le parti essenziali di una cosa, o la sufficienza delle sue note secondo la coordinazione e la subordinazione, è la essenza (complexus notarum primitivarum, interne conceptui dato sufficientium, s. complexus notarum, conceptum aliquem primitive constituentium). In questa definizione non dobbiamo affatto pensare all'essenza reale o naturale delle cose, la quale non si può da noi, dove che sia, penetrare. Perciocchè la logica facendo astrazione da ogni contenuto della conoscenza, e conseguentemente dalla cosa stessa, non si può assolutamente far parola in tale scienza che della essenza logica; la quale è facile ad avvisare. Per fermo a questo non altro appartiene che la conoscenza di tutti i predicati, in riguardo ai quali un obbietto è determinato mediante il suo concetto; in vece che per l'essenza reale della cosa (Esse rei), richiedesi la conoscenza di quei predicati, dai quali, come ragioni determinanti, dipende tutto ciò che appartiene alla sua esistenza. Volendo p. e. determinare l'essenza logica del corpo, egli non ci è affatto uopo ricercare i dati nella natura; non dobbiamo che dirigere la nostra riflessione alle note che, come elementi essenziali (constitutiva, rationes), ne costituiscono primitivamente il concetto fondamentale. Perciocchè l'essenza logica non è certamente altro che il primo concetto fondamentale di tutte le note necessarie di una cosa (Esse conceptus).
Adunque il primo grado di perfezione della nostra conoscenza secondo la qualità è la sua chiarezza [Klarheit]. Un secondo grado, o un grado più alto della chiarezza, è la distinzione [Deutlichkeit], che dimora nella chiarezza delle note.
Dobbiamo qui anzi tutto far differenza tra la distinzione logica e la estetica. La logica consiste nella chiarezza obbiettiva delle note, la estetica nella loro chiarezza subbiettiva. Quella è una chiarezza per concetti, questa una chiarezza per intuizioni. La seconda maniera di distinzione consiste perciò in una semplice vivezza e intelligibilità, cioè in una semplice chiarezza, per via di esempi in concreto: perciocchè possono essere intelligibili molte cose che pur non sono distinte; e per contrario, possono essere distinte molte cose, che sono pur difficili a intendere, perché rimontano a note lontane, il cui nesso con l'intuizione non è possibile che per mezzo di una lunga serie.
La distinzione obbiettiva sovente cagiona l'oscurità, subbiettiva, e viceversa. Quindi la distinzione logica non di rado riesce a danno della distinzione estetica, e viceversa; spesso la distinzione estetica, per mezzo di esempi e di paragoni che non convengono esattamente ma sono presi soltanto per certa analogia, riesce di nocumento alla distinzione logica. Inoltre certi esempi in generale non sono note e non appartengono come parti al concetto, ma solamente come intuizioni all'uso del concetto. La distinzione per via d'esempi (la semplice intelligibilità) è perciò di tutt'altra maniera che la distinzione per concetti come note. Nell'unione di tutte e due, cioè della distinzione estetica o popolare con la scientifica o logica, consiste la perfetta lucidezza [Helligkeit]. Perciocchè mente lucida importa attitudine di esporre con tutta chiarezza e in maniera corrispondente alla capacità intellettiva del senso comune, conoscenze astratte e fondamentali.
Or per ciò che riguarda più da vicino la distinzione logica in ispezialità, è da appellare piena, se tutte le note, che insieme prese costituiscono l'intero concetto, sono pervenute alla chiarezza. Un concetto interamente o completamente distinto può esserlo di nuovo, o per riguardo alla totalità delle sue note coordinate, o per rispetto alla totalità delle sue note subordinate. Nella chiarezza totale delle note coordinate consiste la distinzione estensivamente completa o sufficiente di un concetto, la quale dicesi ancora ampiezza [Ausführlichkeit]. La chiarezza totale delle note subordinate costituisce la distinzione intensivamente intera o completa, la profondità. La prima maniera di distinzione logica può ancora venir appellata integrità [Vollständigkeit] esterna (completudo esterna) della chiarezza delle note, siccome l'altra, integrità interna (completudo interna). Quest'ultima non si può ottenere che dei puri concetti della ragione e degli arbitrari, ma non dei concetti empirici.
La grandezza estensiva della distinzione, in quanto non è abbondante, dicesi precisione [Abgemessenheit]. L'ampiezza o la distinzione estensivamente completa (completudo) e la precisione (praecisio) fanno insieme l'adeguazione [Angemessenheit] (cognitionem, quae rem adaequat), e la conoscenza adeguata intensivamenete nella profondità, insieme all'adeguata estensivamente nell'ampiezza e alla precisione, costituisce, secondo la qualilà, la piena perfezione di una conoscenza, consumata cognitionis perfectio.
Or, poiché il compito della logica è, come abbiamo notato, rendere distinti i concetti chiari, si dimanda: in quale maniera li rende tali?
I logici della scuola wolffiana ritengono che le conoscenze non si rendono distinte che per mezzo della loro analisi. Ma non ogni distinzione dimora nell'analisi di un concetto dato. Per tal mezzo ella nasce solamente rispetto alle note che già pensammo nel concetto, ma in niuna guisa rispetto alle note che primamente aggiungonsi al concetto, come parti dell'intero concetto possibile. Quella specie di distinzione, che nasce non per analisi, ma per sintesi delle note, è la distinzione sintetica. E però ci ha differenza essenziale tra le due proposizioni: far un concetto distinto e far distinto un concetto. Perciocchè facendo un concetto distinto io incomincio dalle parti e da queste procedo al tutto. Non ci sono ancora note; io le ottengo primamente per mezzo della sintesi. Da questo procedimento sintetico deriva la distinzione sintetica, la quale realmente aggrandisce secondo il contenuto il mio concetto, mediante ciò che come nota gli si aggiunge nella intuizione, pura o empirica. — Di cotesto procedimento sintetico nel rendere distinto un concetto si servono i matematici e ancora i naturalisti. Perciocchè tutta la chiarezza distinta della conoscenza matematica propriamente, siccome di ogni conoscenza sperimentale, consiste in cotale suo allargamento mediante la sintesi delle note. Che se poi io fo distinto un concetto, la mia conoscenza mediante questa semplice analisi non si accresce affatto rispetto al contenuto. Questo rimane lo stesso; solamente si muta la forma, perché io imparo solo a meglio distinguere o a conoscere con chiara coscienza quel che già era riposto nel concetto dato. Siccome per la semplice illuminazione di una carta niente altro le si aggiunge, così ancora per lo schiarimento di un concetto dato, mediante l'analisi delle sue note, questo concetto non si accresce punto.
Alla sintesi appartiene il far distinti gli oggetti, all'analisi il far distinti i concetti. Qui il tutto precede le parti, là le parti il tutto. — Il filosofo non fa che rendere distinti concetti dati. Talvolta si procede sinteticamente, ancorché il concetto, che a tal guisa si vuol fare distinto, sia già dato. Ciò ha luogo spesso nelle proposizioni sperimentali, dovechè non si è contento delle note già pensate in un concetto dato.
Il procedimento analitico produttivo della distinta chiarezza, della quale solamente può trattare la logica, è il primo e principalissimo requisito, quando vogliamo far distinta una nostra conoscenza: perciocchè quanto più distinta è la nostra conoscenza di una cosa, tanto più forte ed efficace può essere. Solamente non si deve spingere l'analisi tanto che l'oggetto in fine sparisca, a così dire.
Se noi avessimo consapevolezza di tutto ciò che sappiamo, rimarremmo attoniti pel gran numero delle nostre conoscenze.
In riguardo al valore intrinseco obbiettivo della nostra conoscenza si possono pensare i seguenti gradi, secondo i quali può essere elevata. Il primo grado della conoscenza è rappresentarsi [Vorstellen] qualche cosa; il secondo, rappresentarsi qualche cosa con coscienza o percepire [Wahrnehmen], percipere; il terzo, aver notizia [Kennen] di qualche cosa (noscere) o rappresentarsi una cosa nel paragone di altre, così per la medesimezza come per la diversità; il quarto, conoscere qualche cosa con coscienza, cognoscere [Erkennen]; gli animali han notizia degli oggetti, ma non li conoscono con coscienza; il quinto, intendere [Verstehen] una cosa, intelligere, cioè conoscere con l'intelletto per via di concetti, o concepire. Questo è differente non poco dal comprendere. Molte cose si possono concepire, sebbene non si possano comprendere; p. e. un moto perpetuo (perpetuum mobile) la cui impossibilità è dimostrata in meccanica; il sesto, conoscere una cosa mediante la ragione o conoscerla a dentro [Einsehen], perspicere. Sino a tal punto non perveniamo che in poche cose e le nostre conoscenze divengono sempre tanto minori poi numero, quanto più vogliamo perfezionarle pel valore intrinseco; il settimo finalmente è comprendere [Begreifen] una cosa, comprehendere, cioè conoscere mediante la ragione o a priori in tal grado che sia sufficiente al nostro fine. Perciocchè ogni nostro comprendere non è che relativo, cioè sufficiente ad un certo nostro fine, nulla affatto comprendiamo in modo assoluto. Nulla si può meglio comprendere di ciò che il matematico dimostra, p. e. che tutte le linee nel circolo sono proporzionali. E pure egli non comprende donde proceda che una figura si semplice abbia cotesta proprietà. Il campo dell'intendere o dell'intelletto spazia perciò in generale assai più largamente di quello del comprendere o della ragione.
Verità è proprietà obbiettiva della conoscenza; il giudizio, onde qualche cosa è rappresentata come vera (la relazione ad un intelletto e però ad un subbietto particolare) è subbiettivamente la credenza [Fürwahrhalten].
La credenza in generale è di due maniere: certa, e incerta. La credenza certa, o la certezza [Gewissheit] è unita con la coscienza della necessità; la incerta, al contrario, o la incertezza [Ungewissheit] con la coscienza della contingenza o possibilità dell'opposto. — La seconda è di nuovo o insufficiente obbiettivamente e subbiettivamente, ovvero obiettivamante insufficiente, e subbiettivamente sufficiente. Quella dicesi opinione, questa è da appellare fede. Egli ci ha perciò tre specie o modi di credenza; opinione [Meinen], fede [Glauben] e sapere [Wissen]. La opinione è un giudizio problematico, la fede, assertorio, e il sapere, apodittico. Perciocchè quel che io semplicemente opino, tengo nel giudizio con coscienza solo per problematicamente certo; quello di cui ho fede, per assertoriamente, ma di necessità non obbiettiva, bensì subbiettiva solamente (valevole solo per me); quello in fine che io so, tengo per apoditticamente certo, cioè per necessario in modo universale ed obbiettivo (valevole per tutti); posto anche che l'oggetto stesso, al quale questa credenza certa si riferisce, fosse verità semplicemente empirica. Perciocchè questa diversità di credenza, secondo i tre modi or ora nominati, riguarda solamente la facoltà giudicativa per rispetto ai criteri subbiettivi della sommissione di un giudizio a regole obbiettivo. Così sarebbe p. e. semplicemente problematica la nostra credenza dell'immortalità, operando come se fossimo immortali; assertoria, avendo fede di essere immortali; e apodittica, in fine, sapendo tutti che vi è un'altra vita dopo questa.
Tra opinione, fede e sapere ha luogo perciò differenza essenziale, che vogliamo qui ancora più esatta e distesamente dilucidare.
I. Opinione. — L'opinione, o il credere per una ragione di conoscenza, che non è sufficiente in alcun modo, vuoi obbiettivo, vuoi subbiettivo, si può riguardare come un giudizio provvisorio (sub conditione sospensiva ad interim), di cui non si può facilmente far senza. Egli è uopo che si opini, avanti di ammettere e di affermare, e in ciò si guardi pure dal tenere una opinione per qualche cosa di più che semplice opinione. Dall'opinare incominciamo per lo più in ogni nostro conoscere. Talvolta abbiamo un oscuro presentimento della verità; una cosa ci sembra di contenere note di verità; abbiamo già un presentimento della sua verità, prima ancora di conoscerla con determinata certezza.
Ma dove ha luogo propriamente la semplice opinione? — In nessuna scienza che contenga conoscenze a priori; perciò né nella matematica, nè nella metafisica, né nella morale, ma semplicemente nelle conoscenze empiriche: nella fisica, nella psicologia e altrettali. Perciocchè egli è in se stesso assurdo opinare a priori. Ancora, niuna cosa sarebbe nel fatto tanto ridicola, quanto p. e. opinare solamente in matematica. Quivi, come nella metafisica e nella morale, ci ha sapere o non sapere. Quindi le cose di opinione non possono essere, in ogni caso, che negli oggetti di conoscenza sperimentale che è possibile in sè, a dir vero, e solo per noi impossibile, a cagione de' limiti empirici e delle condizioni di nostra facoltà sperimentale e del suo grado da loro dipendente. Così p. e. l'etere dei fisici moderni è una semplice cosa di opinione9. Perciocchè di essa, siccome di ogni opinione in generale, quale che ella possa mai essere, io scorgo questo, che forse si potrebbe dimostrare l'opposto. La mia credenza è qui dunque insufficiente così obbiettivamente come subbiettivamente, sebbene, in sé considerata, possa essere completa.
2. Fede. — La fede o la credenza per ragione obbiettivamente insufficiente, ma subbiettivamente sufficiente, si riferisce agli obbietti, riguardo ai quali non solamente nulla si può sapere, ma ancora nulla opinare, anzi né pure pretendere una verisimiglianza; semplicemente può esser certo che non è contradittorio pensare simili oggetti a quel modo che si pensano. Il resto è qui libera credenza, la quale non è necessaria se non rispetto ad un fine pratico dato a priori; una credenza perciò di quel che io ammetto per ragioni morali e di maniera, per verità, che io sia certo che non si può dimostrare il contrario*1.
Cose di fede non possono dunque essere.
I. Gli oggetti della conoscenza empirica. Quindi la così detta fede storica non può appellarsi propriamente fede, ed essere, come tale, opposta al sapere, per la ragione che ancora può essere sapere. La credenza ad una testimonianza, né per grado, né per ispecie, differisce dalla credenza per esperienza propria.
II. Gli oggetti di conoscenza razionale (conoscenza a priori), né teoretica, come p. e. nella matematica e nella metafisica, né pratica, come nella morale.
Le verità razionali matematiche si possono, a dir vero, credere su la testimonianza, perché quivi l'errore, parte non è facile ad accadere, parte si può facilmente discoprire; ma ciò non per tanto esse non si possono in tal maniera sapere.
Le verità razionali filosofiche ancora non si lasciano mai tener per fede; è d'uopo che sieno assolutamente certe; perciocchè la filosofia non soffre in sé alcuna semplice opinione. E per ciò che riguarda in particolare gli oggetti della conoscenza razionale pratica nella morale, i diritti e i doveri, tanto meno può aver luogo una semplice fede. Si deve essere pienamente certi, se una cosa sia giusta o ingiusta, conforme al dovere o contra, lecita o illecita.
Su l'incertezza nulla si può arrischiare nelle cose morali, nulla risolvere sul rischio di mancare contro la legge. Così p. e. non è bastevole per un giudice aver fede semplicemente che l'accusato d'un delitto l'abbia realmente commesso: bisogna che lo sappia (giuridicamente), altrimenti egli giudica senza certezza.
III. Non sono cose di fede che quegli oggetti ne' quali la credenza è necessariamente libera, cioè non è determinata per via di ragioni obbiettivo della verità, indipendenti dalla natura e dall'interesse del subbietto. La fede dunque non porge, per le ragioni semplicemente subbiettive, alcuna convinzione che si possa partecipare e che comandi universale assentimento, come la convinzione che procede dal sapere. Io stesso non posso esser certo che del valore e immutabilità della mia fede pratica, e la mia fede nella verità di una proposizione, o nella realtà di una cosa è ciò che, rispetto a me, tiene luogo solamente di conoscenza, senza pur essserla.
Moralmente incredulo è colui che non ammette ciò che, per ver dire, è impossibile a sapere, ma che è moralmente necessario a supporre. Cotesta maniera d'incredulità proviene sempre da mancanza d'interesse morale. Quanto maggiore è il sentimento morale di un uomo, tanto più ferma è più viva sarà la sua fede in tutto ciò che per interesse morale sentesi obbligato ad ammettere e supporre in riguardo ad un fine praticamente necessario.
3. Sapere. — La credenza che proviene da ragione di conoscenza, sufficiente così obbiettivamente come subbiettivamente, ossia la certezza è empirica o razionale, secondo che ella si fonda su l'esperienza, vuoi propria, vuoi partecipata da altri, o su la ragione. Questa differenza si riferisce perciò alle due fonti, l'esperienza e la ragione, dalle quali deriva tutta la nostra conoscenza.
La certezza razionale è di nuovo matematica o filosofica: quella è intuitiva, questa è discorsiva.
La certezza matematica appellasi ancora evidenza, perciocchè una conoscenza intuitiva è più chiara di una discorsiva. Perciò, sebbene tutte e due, la conoscenza razionale matematica e la filosofica, sieno in se stesse ugualmente certe, pure si ha in loro a distinguere la maniera di certezza.
La certezza empirica è originaria (originarie empirica), se io son certo di qualche cosa per esperienza propria; derivata (derivative empirica), se lo sono per esperienza altrui. La seconda vuole appellarsi ancora certezza storica.
La certezza razionale differisce dall'empirica per la coscienza della necessità, che l'è unita; essa è perciò apodittica; l'empirica, al contrario, è meramente assertoria. Si è razionalmente certo di ciò che, senza alcuna esperienza, si conosce a priori. Perciò le nostre conoscenze possono riguardare oggetti di esperienza, e la loro certezza non per tanto essere del pari empirica e razionale, in quanto però conosciamo per prinncipii a priori una proposizione empiricamente certa. Non possiamo avere di ogni cosa certezza razionale; ma, potendosi avere, si ha da preferire all'empirica.
Ogni certezza è immediata, o mediata, cioè o abbisogna di prova, o non n'è capace e bisognevole. Quantunque moltissime nostre conoscenze non sien certe che mediatamente, cioè per prova, pure deve darsi qualche cosa indimostrabile o immediatamente certa, e tutta quanta la nostra conoscenza deve procedere da proposizioni immediatamente certe. Le prove, su le quali fondasi la certezza mediata di una conoscenza, sono indirette, apagogiche. — Quando io provo una verità per le sue ragioni, io porgo una prova diretta; quando poi dalla falsità del contrario conchiudo la verità di una proposizione, ne porgo una apagogica. Ma per aver valore quest'ultima, è uopo che le proposizioni sieno contradittorie, ossia diametralmente opposte. Perciocchè due proposizioni sol contrariamente opposte fra loro (contrarie opposita) possono essere tutte e due false. Una prova [Beweis] che è ragione di certezza, appellasi dimostrazione [Demostration]; e quella, che è ragione di certezza filosofica, dicesi acroamatica. Le parti essenziali di ogni prova sono la materia e la forma, o il fondamento della prova e la conseguenza.
Dal sapere viene la scienza, che vuol dire un insieme di conoscenza, come sistema. Ella è opposta alla conoscenza comune, cioè alla conoscenza come semplice aggregato. Il sistema consiste in una idea del tutto, il quale precede le parti; nella conoscenza comune, al contrario, o nel semplice aggregato di conoscenze, le parti vanno innanzi al tutto. Egli ci ha scienze storiche e scienze razionali. In una scienza spesso noi sappiamo conoscenze solamente, ma non le cose per esse rappresentate; onde si può dare scienza di ciò, la cui conoscenza non sia sapere.
Dalle precedenti osservazioni sopra la natura e le specie di credenza possiamo ora trarre questa conseguenza generale: che ogni nostra convinzione sia logica o pratica. Vale a dire, quando sappiamo che noi siamo liberi da ogni ragione subbiettiva, e che non pertanto la credenza è sufficiente, noi siamo convinti, e per verità convinti logicamente o per ragioni obbiettive, l'oggetto è certo. La completa credenza per ragioni subbiettive che, sotto l'aspetto pratico, valgono quanto le obbiettive, è ancora convinzione, non solamente logica, ma pratica (io son certo). E questa convinzione pratica o questa fede morale razionale è spesso più ferma d'ogni sapere. Nel sapere si può dare ascolto ancora alle ragioni contrarie, ma nella fede no; perciocchè quivi non si dipende da ragioni obbiettive, ma dall'interesse morale del subbietto*2.
Alla convinzione è opposta la persuasione, credenza per ragioni insufficienti, le quali non si sa se, sieno semplicemente subbiettive, ovvero anche obbiettive.
La persuasione [Überredung] spesso precede la convinzione [Überzeugung]. Di molte conoscenze noi siamo sol consapevoli di non poter giudicare, se le ragioni della nostra credenza sieno obbiettive. Quindi a ponter pervenire dalla semplice persuasione alla convinzione, ci è uopo anzitutto esaminare, cioè vedere, a quale facoltà conoscitiva una conoscenza si appartenga; e allora ricercare, cioè saggiare se le ragioni rispetto all'obbietto sieno sufficienti o insufficienti. In molte cose si rimane nella persuasione, in alcune si viene alla riflessione [Überlegung], in poche alla disamina [Üntersuchung]. Colui, che sa ciò che è certezza, non confonde facilmente persuasione e convinzione, né meno perciò si lascerà facilmente persuadere. — Egli ci ha un perché che determina al consentimento, il quale perché consta di ragioni obbiettive e di subbiettive, e la maggior parte degli uomini non distingue quest'azione mista.
Sebbene ogni persuasione rispetto alla forma (formaliter) sia falsa, in quanto cioè una conoscenza incerta apparisce di essere certa; pure, rispetto alla materia (materialiter), può esser vera. E così distinguesi ancora dalla opinione, che è conoscenza incerta, in quanto che si ritiene per incerta.
La sufficienza della credenza (nella fede) si può mettere a prova per mezzo di scommesse o di giuramenti. Alla prima è necessaria una sufficienza comparativa, alla seconda una sufficienza assoluta di ragioni obbiettive; in luogo delle quali, non essendovene, vale pure una credenza subbiettiva assolutamente sufficiente.
Si suole spesso usare le espressioni: acconsentire al suo giudizio, ritenere il suo giudizio, sospenderlo, o darlo. — Queste e simili maniere di dire pare diano ad intendere che nel nostro giudizio sia qualche cosa di arbitrario, tenendo per vera qualche cosa, perché tale la vogliamo tenere. Perciò si dimanda: la volontà esercita azione sul nostro giudizio?
La volontà non esercita un'azione immediata su la credenza; ciò sarebbe ancora più assurdo. Che se dicesi: noi volentieri aggiustiamo fede a quel che desideriamo, ciò mostra solamente i nostri benigni desideri, come p. e. quelli del padre pei suoi figliuoli. Se la volontà esercitasse una immediata azione su le nostre convinzioni intorno a ciò che desideriamo, noi ci faremmo una continua chimera di uno stato felice e la terremmo sempre per vera. Se non che la volontà non può lottare contro prove convincenti della verità, contrarie ai suoi desiderii, e alle sue inclinazioni. Ma in quanto la volontà eccita l'intelletto alla ricerca della verità, o ne lo distoglie, le si deve concedere un'azione su l'uso di esso e però mediatamente ancora su la stessa convinzione, dipendendo questa non poco dall'uso della facoltà anzidetta.
Per ciò che riguarda poi in particolare la sospensione [Aufschiebung] o ritenimento [Zurückhaltung] del nostro giudizio, diciamo che ella consiste nel proposito di fare che un giudizio semplicemente provvisorio non diventi definitivo. Giudizio provvisorio è un cotale giudizio onde io mi rappresento che ci ha, a dir vero, più ragioni pro che contra la verità di una cosa, ma che coteste ragioni ancora non bastano per un giudizio determinativo o definitivo, pel quale io mi decida a dirittura per la verità. Quindi il giudizio provvisorio è un giudizio semplicemente problematico con conscienza. La sospensione del giudizio può accadere per duplice fine; o per ricercare le ragioni del giudizio definitivo, o per non giudicare giammai. Nel primo caso dicesi critica (suspensio judicii indagatoria); nel secondo dicesi scettica (suspensio judicii sceptica). Perciocchè lo scettico rinunzia ad ogni giudizio; il vero filosofo, al contrario, lo sospende solamente, quando non ha ragioni bastevoli a tenere per vera qualche cosa.
A sospendere regolarmente il proprio giudizio si richiede una giudicativa esercitata, la quale non si acquista che con l'andar degli anni. In generale la sospensione del nostro consentimento è cosa assai difficile, parte perché il nostro intelletto è bramoso di estendersi per via di giudizi, e di arricchirsi di conoscenze, parte perché si è sempre propensi a certe cose più che ad altre. Ma chi ha dovuto spesso ritrarre il suo consentimento, e per questo è divenuto prudente e circospetto, non lo darà così prestamente, per tema che non dovesse in seguito ricredersi. Cotesta ritrattazione fa sempre pena ed è cagione di diffidare di tutte le altre conoscenze.
Notiamo ancora qui, come lasciare il giudizio in dubbio (in dubio) sia cosa diversa dal lasciarlo sospeso (in suspenso). In questo io ho sempre un interesse per la cosa: in quello poi non è sempre conforme al mio fine e al mio interesse il decidere, se la cosa sia vera o no.
I giudizi provvisorii sono assai necessari, anzi indispensabili per l'uso dell'intelletto in ogni meditazione e ricerca. Perciocchè essi servono a guidare l'intelletto nelle sue investigazioni e a porgergli all'uopo in mano diversi mezzi. Quando meditiamo sopra un oggetto, ci è uopo sempre di già provvisoriamente giudicare e aver quasi sentore della conoscenza che ci sarà data mediante la meditazione. E facendoci alle invenzioni o scoperte, è mestieri sempre formarci un piano provvisorio; altrimenti i pensieri vanno meramente a caso. Perciò sotto giudizi provvisorii si possono concepire norme per la ricerca di una cosa; le quali si potrebbero ancora appellare anticipazioni, perocché si anticipa il giudizio di una cosa, prima che se ne abbia il definitivo. Così fatti giudizi hanno perciò la loro utilità, e si possono anzi dare regole come dobbiamo provvisoriamente giudicare sopra un oggetto.
Dai giudizi provvisorii si hanno a distinguere i pregiudizi. I pregiudizi [Vorurtheile] sono giudizi provvisorii in quanto sono ammessi come principii. Ogni pregiudizio è da riguardare come un principio di giudizi erronei, e da pregiudizi non derivano pregiudizi, ma giudizi erronei. Quindi la falsa conoscenza che deriva dal pregiudizio, devesi distinguere dalla loro sorgente, cioè dal pregiudizio stesso. Così p. e. la significazione dei sogni non è in se stessa un giudizio, ma un errore, che deriva dalla regola generale ammessa: ciò che si avvera una volta, si avvera sempre o sempre è da ritenere per vero. E questo principio, sotto il quale la significazione de' sogni è compresa, è un pregiudizio.
Talvolta i pregiudizi sono veri giudizi provvisorii; solo non è ben fatto che essi ci valgano come principii o come giudizi definitivi. La causa di cotesta illusione è da ricercare in ciò, che ragioni subbiettive falsamente son tenute come obbiettive, per mancanza di riflessione necessaria ad ogni giudizio. Perciocchè, potendo pur ammettere parecchie conoscenze, p.e. le proposizioni immediatamente certe, senza ricercarle, ossia senza esaminare le condizioni di loro verità; non possiamo e non dobbiamo per questo sopra cosa alcuna giudicare, senza riflettere, cioè senza paragonare una conoscenza con la potenza conoscitiva, sensitiva o intellittiva, dalla quale deve derivare, Or, ammettendo giudizi senza questa riflessione che è necessaria pur là dove non ha luogo ricerca; ne nascono pregiudizi e principii di giudicare per cagioni subbiettive che falsamente si tengono come obbiettive.
Le fonti principali de' pregiudizi sono: imitazione [Nachahmung], abitudine [Gewohnheit] e inclinazione [Neigung].
La imitazione esercita un'azione generale sopra i nostri giudizi; perciocchè è un forte motivo di ritenere per vero ciò che altri ci ha dato per tale. Di qui il pregiudizio: ciò che tutto il mondo fa, è giusto. Per ciò che riguarda i pregiudizi derivati dall'abitudine, non si possono sradicare che con l'andar degli anni; poiché l'intelletto, a poco a poco, fermato e ritardato da ragioni contrarie nel giudicare, pian piano è condotto per tal mezzo ad una maniera opposta di pensare. Che se un pregiudizio di abitudine provenga ancora da imitazione, colui che n'è preso difficilmente se ne libera. Un pregiudizio d'imitanzione si può ancora appellare l'inclinazione all'uso passivo della ragione, o al meccanismo della ragione, in luogo di un esercizio spontaneo regolare.
La ragione è, a dir vero, un principio attivo che nulla dee accettare dalla semplice autorità altrui, e, quando il suo uso è puro, nulla mai ancora dall'esperienza. Se non che la pigrizia fa sì, che moltissimi uomini, anzi che usare le proprie forze intellettive, calchino più volentieri le pedate altrui. Tali uomini non possono divenire che copisti d'altri, e se tutti fossero così, il mondo non progredirebbe giammai. Egli è quindi sommamente necessario ed importante, che la gioventù non si fermi alla semplice imitazione, come ordinariamente accade.
Egli ci è di parecchie cose che cooperano ad avvezzarci alla massima della imitazione, e però a fare della ragione un suolo ferace di pregiudizi. A così fatti aiuti della imitazione appartengono:
1. Le formole [Formeln]. Queste sono regole la cui espressione serve a modello da imitare. Elle sono del resto sommamente utili allo agevolamento nelle proposizioni intrigate, e però le menti più illuminate cercano di trovare di simili formole.
2. I detti [Sprüche], la cui espressione è sì precisa e sì piena di significato, che pare non lo si possa comprendere con più pochi vocaboli. Tali espressioni (dicta), che debbono essere prese da coloro cui si attribuisce una certa infallibilità, servono, a cagione di questa autorità, di regola e di legge. — Le sentenze della Bibbia si appellano detti, xατεξοχην, per eccellenza.
3. Le sentenze [Sentenzen], cioè le proposizioni che si raccomandano e spesso conservano per secoli la loro autorità, come prodotti di una giudicativa matura per la energia dei pensieri che comprendono.
4. I canoni [Canones]. Questi sono sentenze generali che servono di fondamento alle scienze, e significano qualche cosa di elevato e di meditato. Si possono ancora esprimere in una maniera sentenziosa, perché maggiormente gradiscano.
5. I proverbi [Sprüchwörter] (proverbia). — Essi sono regole popolari del senso comune, o espressioni che ne significano il giudizio popolare. — Così fatte proporzioni semplicemente locali non servendo di sentenze e di canoni che al volgo non si trovano nelle persone più finamente educate.
Dalle tre fonti generali di pregiudizi dianzi indicate, e in particolare dalla imitazione, derivano molti pregiudizi particolari, tra i quali vogliamo qui accennare i seguenti, come i più ordinari:
1. Pregiudizi di autorità. — A cotesti è da annoverare:
a. Il pregiudizio della considerazione della persona. — Se nelle cose, che si fondano su l'esperienza e la testimonianza, appoggiamo le nostre conoscenze alla considerazione dell'altrui persona; non ci facciamo per questo colpevoli di pregiudizi; perciocchè nelle cose di tal fatta, non potendo tutto sperimentare da noi stessi e comprendere col nostro proprio intelletto, la considerazione anzidetta è uopo che sia il fondamento del nostro giudizio. Ma se noi la poniamo a fondamento della nostra credenza in riguardo alle conoscenze razionali; noi ammettiamo queste conoscenze per semplice pregiudizio. Perciocchè le verità di ragione hanno un valore impersonale; quivi non si dimanda: chi ha detto, ma che cosa ha detto? Nulla importa, se una conoscenza sia di nobile origine; ma non per tanto il pendio alla stima de' grandi uomini è assai comune, parte per la limitatezza della propria penetrazione, parte per desiderio d'imitare ciò che ci vien descritto come grande. Al che si aggiunge ancora che tale considerazione serve indirettamente a solleticare la nostra vanità. Vale a dire, come i sudditi di un potente despota van superbi di essere trattati da lui ugualmente, potendosi i plebei stimare uguali ai nobili, in quanto che gli uni e gli altri sono nulla innanzi alla potenza illimitata del loro sovrano; così pure i veneratori di un uomo grande si giudicano uguali, in quanto che le differenze che possono avere tra loro stessi, riguardate per rispetto al merito del grande uomo, sono da reputare come insignificanti.
Quindi gli uomini grandi celeberrimi favoriscono, più che ogni altro principio, l'inclinazione al pregiudizio della considerazione della persona.
b. Il pregiudizio della considerazione della moltitudine. —A cotesto pregiudizio è principalmente inclinato il popolo. Perciocchè non potendo giudicare del merito, della capacità e conoscenza della persona, volentieri si attiene al giudizio della moltitudine, nella supposizione che debba essere verissimo ciò che è detto da tutti. Non pertanto questo pregiudizio non riguarda che le cose storiche: nelle cose di religione, delle quali ha più interesse, si affida al giudizio de' dotti.
Egli è notevole in generale come l'ignorante abbia un pregiudizio pel sapere, e i sapienti, a loro volta, pel senso comune. Quando il sapiente, dopo d'aver sufficientemente percorso il cerchio delle scienze, non ottiene da tutte le sue fatiche la conveniente sodisfazione, cade in ultimo in diffidenza verso il sapere, specialmente in riguardo a quelle speculazioni, in cui i concetti non possono esser fatti sensibili, e i cui fondamenti sono barcollanti, come p. e. nella metafisica. Ma pure, pensando che la chiave della certezza di determinati oggetti si dovesse in alcun luogo ritrovare, si fa a ricercarla nel senso comune, dopo di averla sì lungamente cercata indarno nella via delle investigazioni scientifiche. Ma questa speranza è assai illusoria; perciocchè, se la facoltà razionale coltivata non riesce a niente per rispetto alla conoscenza di certe cose, tanto meno sicuramente vi riesce la incolta. Nella metafisica l'appello al giudizio del senso comune è del tutto inammissibile, perché in tale scienza niun caso si può esporre in concreto. Ma nella morale la bisogna è ben diversa. In essa non solo si possono tutte le regole dare in concreto, ma la ragion pratica mostrasi ancora in generale più chiara e più retta per l'organo dell'uso comune dell'intelletto, che per quello dell'uso speculativo. Quindi il senso comune sopra cose di moralità e di dovere spesso giudica più rettamente dell'intelletto speculativo.
c. Il pregiudizio della considerazione dell'età. Il pregiudizio dell'antichità è de' più considerevoli. Noi abbiamo, a dir vero, tutta la ragione di giudicare favorevolmente dell'antichità, ma non la è questa che ragione di moderato rispetto, i cui confini spesso oltrepassiamo, per ciò solo che facciamo gli antichi, tesorieri di conoscenza e di scienze, eleviamo il valore relativo de' loro scritti a valore assoluto, e ci affidiamo ciecamente alla loro scorta. Stimare così eccessivamente gli antichi, vale ricondurre l'intelletto all'età fanciullesca, e negligere l'uso del proprio ingegno. Parimenti assai c'inganneremmo, ritenendo per fermo, che tutti dell'antichità abbiano scritto così classicamente, come quelli le cui opere sono giunte sino a noi. Vale a dire, poiché il tempo tutto vaglia e non ritiene che ciò che ha intrinseco valore, noi possiamo ammettere, non senza ragione, che possediamo solamente le migliori opere degli antichi.
Ei ci ha parecchie cagioni che ingenerano e fomentano il pregiudizio dell'antichità. Se qualche cosa sorpassa l'aspettazione secondo una regola generale, si è tosto preso da maraviglia, la quale spesso si converte in ammirazione. Questo è il caso degli antichi, quando si trova presso loro qualche cosa che, avuto riguardo alla circostanza del tempo in che vivevano, non si cercava. — Un'altra cagione sta nella circostanza che la conoscenza degli antichi e dell'antichità dimostra una erudizione e una consumata lettura, che procaccia sempre stima, per comuni ed insignificanti che possano essere in se stesse le, cose ricavate dallo studio degli antichi. Una terza cagione è la gratitudine che dobbiamo agli antichi per averci aperta la via a molte conoscenze. Pare sia giusto testimoniar loro per questo un particolare rispetto, nel che noi spesso trasmodiamo. Una quarta cagione è in fine da ricercare in una certa invidia verso i contemporanei. Chi non può misurarsi con loro, magnifica a lor costo altamente gli antichi, affinché essi contemporanei non possano levarsi sopra di lui.
L'opposto dell'anzidetto pregiudizio è quello della novità. Talvolta cadde il rispetto dell'antichità e, il pregiudizio a suo favore; specialmente al principio di questo secolo (XVIII.° in cui fiorì Kant), quando il celebre Fontenelle si fe' dalla parte dei moderni. Trattandosi di conoscenze suscettibili di allargamento, egli è naturalissimo avere più fiducia nei moderni che negli antichi. Ma cotesto giudizio non ha ragione, che come un semplice giudizio provvisorio; come definitivo diviene pregiudizio.
2. Pregiudizi di amor proprio o di egoismo logico, secondo il quale l'accordo del proprio giudizio coi giudizi altrui si tiene per un superfluo criterio di verità. Sì fatti pregiudizi sono opposti a quelli di autorità, poiché si manifestano in una certa predilezione per tutto ciò che è prodotto del proprio intelletto, p. e. del proprio sistema.
È egli buono ed utile lasciar correre i pregiudizi, o anche favorirli? Fa maraviglia come nel nostro secolo si possa ancora proporre simili dimande, specialmente in riguardo al favorire i pregiudizi. Favorire un pregiudizio vale lo stesso che ingannare uno per un fine buono. Lasciare intatti alcuni pregiudizi, passi pure; perciocchè, chi mai può occuparsi a scoprire e disfare tutti i pregiudizi? Ma, sarebbe egli utile affaticarsi a tutto potere per isradicarli? La è questa un'altra dimanda. Difficil cosa è veramente il combattere antichi e inveterati pregiudizi, perciocchè essi stessi sono in certa maniera giudice e parte ad un tempo. Si cerca ancora giustificare il lasciar correre pregiudizi con ciò che deriverebbero danni dalla loro distruzione. Ma avvengano pure cotesti danni, ché in avvenire recheranno tanto maggior bene.
Alla dottrina della certezza della nostra conoscenza appartiene ancora quella della conoscenza del probabile, che è da riguardare come avvicinamento alla certezza.
Per probabilità [Warscheinlichkeit] è da intendere una credenza per ragioni Insufficienti, ma che hanno alle sufficienti maggiore attenenza che non le ragioni dell'opposto. — Per mezzo di questa definizione distinguiamo la probabilità (probabilitas) dalla semplice verisimiglianza [Scheinbarkeit] (verisimilitudo), credenza per ragioni insufficienti, in quanto che sono maggiori di quella parte opposta. Vale a dire, la ragione della credenza può essere obiettivamente e subbiettivamente maggiore di quella dell'opposto. Quale delle due sia, non si può scoprire che paragonando le ragioni della credenza con le sufficienti: perciocchè allora le ragioni della credenza sono maggiori di quelle che possono essere le ragioni dell'opposto. Nella probabilità perciò la ragione della credenza ha valore obbiettivo, nella semplice verisimiglianza, al contrario, un valore solamente subbiettivo. La verisimiglianza è semplicemente grandezza di persuasione, la probabilità è avvicinamento alla certezza. Nella probabilità deve esservi sempre una misura, secondo la quale io possa estimare. Tale misura è la certezza. Perciocchè, dovendo io paragonare le ragioni insufficienti con le sufficienti, ho da sapere tutto ciò che costituisce la certezza. Ma cotale misura manca nella semplice verisimiglianza; poiché quivi io paragono le ragioni insufficienti, non già con le sufficienti, ma solamente con le ragioni dell'opposto.
I momenti della probabilità possono essere omogenei o eterogenei. Se sono omogenei, come nella conoscenza matematica, si han da numerare; se sono eterogenei, come nella conoscenza filosofica, si han da pesare, cioè estimare secondo l'effetto, e questo poi secondo gli ostacoli superati nell'animo. Gli eterogenei non porgono alcuna ragione alla certezza, ma solamente una verisimiglianza ad altri. Di qui segue che solo il matematico può determinare il valore delle ragioni insufficienti rispetto alle sufficienti; il filosofo conviene che si contenti della verisimiglianza, credenza semplicemente subbiettiva e praticamente bastevole. Perciocchè nella conoscenza filosofica non si può calcolare la probabilità, essendo le ragioni eterogenee; quivi i pesi non sono tutti, a così dire, segnati. Della sola probabilità matematica si può perciò dire propriamente, che sia più che metà della certezza.
Si è molto parlato di una logica della probabilità (logica probabilium). Ma essa non è possibile; perciocchè, non potendosi calcolare matematicamente il rapporto delle ragioni insufficienti alle sufficienti, a nulla giovano tutte le regole. Ancora, non si può dare per tutto alcuna regola generale di probabilità fuor che questa, che l'errore non si trovi in una sola parte, ma che vi debba essere una ragione di accordo nell'oggetto; parimenti, che se dalle due parti si erra in egual numero e grado, la verità sia nel mezzo.
Dubbio [Zweifel] è una ragione contraria e un semplice ostacolo alla credenza, e può essere riguardato subbiettivamente ed obbiettivamente.— Subbiettivamente, quando è preso come uno stata di animo indeciso; obbiettivamente, come la conoscenza d'insufficienti ragioni di credenza. Nel secondo rispetto dicesi obbiezione [Einwurf], cioè ragione obbiettiva di tenere per falso una conoscenza stimata vera.
Scrupolo [Scrupel] è una ragione contraria di credenza, valevole solo subbiettivamente. Nello scrupolo non si sa, se l'ostacolo alla credenza sia obbiettivo, o solamente subbiettivo, p. e. fondato soltanto sull'inclinazione, sull'abitudine e cose simili. Si dubita, senza chiarire distinta e determinatamente la ragione del dubbio, e senza poter avvisare se questa ragione abbia luogo nell'obbietto stesso o solo nel subbietto. Or, a poter rimuovere cotali scrupoli, è uopo elevarci alla conoscenza distinta e determinata della obbiezione. Imperocchè mediante le obbiezioni il certo si rende completamente distinto, e niuno può esser certo di una cosa, ove non abbia ben rilevate le ragioni contrarie, onde può essere determinata, quanto ancora si sia lontano dalla certezza, e quanto le si sia vicino. Di più, egli non è bastevole che si risponda semplicemente a un dubbio; lo si deve ancora sciogliere, cioè far comprendere come sia nato lo scrupolo. Ciò facendosi, il dubbio è semplicemente rigettato, ma non levato; rimane ancora in tal caso il seme del dubbio. In molti casi non possiamo, per verità, sapere, se l'ostacolo alla credenza abbia in noi ragioni solamente subbiettive, o obbiettive, e però non leviamo lo scrupolo mediante lo scoprimento dell'apparenza; poiché non sempre possiamo paragonare le nostre conoscenze con l'oggetto, ma spesso tra loro stesse soltanto. È perciò discretezza non esporre le proprie obbiezioni che come dubbi.
Ci è un principio fondamentale di dubbio che consiste nella massima di trattare la conoscenza a questo modo; renderla, cioè, incerta e dimostrare l'impossibilità di pervenire alla certezza. Cotesto metodo di filosofia è la maniera scettica di pensare o lo scetticismo. Essa è opposta alla maniera dommatica, o dommatismo che è una cieca fiducia nella facoltà della ragione di allargarsi a priori senza critica per via di concetti puri, a solo fine di suo buon successo apparente. Tutti e due cotesti metodi sono difettosi, ove diventino generali. Perocché ci ha molte conoscenze, rispetto alle quali non possiamo procedere dommaticamente; e dall'altra parte lo scetticismo, in quella che rinunzia a tutte le conoscenze affermative, distrugge tutti gli sforzi che noi adoperiamo per giungere a possedere la conoscenza del certo.
Or, per quanto dannoso è questo scetticismo, per tanto utile e conveniente al fine è il metodo scettico, dove che s'intenda per esso non altro che la maniera di trattare qualche cosa come incerta e portarla alla più alta incertezza, sperando di trovare in questa via le tracce della verità. Cotesto metodo' è perciò propriamente una sospensione di giudizio. Esso è utilissimo al procedimento critico, intendendo per questo il metodo di filosofare, secondo il quale si cercano le sorgenti delle proprie affermazioni, e le ragioni sopra le quali si fondano; metodo che dà speranza di pervenire alla certezza.
Nella matematica e nella fisica non ha luogo lo scetticismo. Ha potuto farlo sorgere solamente quella conoscenza che non è matematica, né empirica; la pura filosofica. L'assoluto scetticismo spaccia tutto per apparenza. Esso dunque distingue apparenza da verità, e però gli è uopo avere un segno di distinzione, e quindi supporre una conoscenza della verità; col che si contradice.
Noi abbiamo testé osservato intorno alla probabilità come essa sia semplice avvicinamento alla certezza. Or tale è in ispecialità il caso ancora delle ipotesi; per le quali noi non possiamo mai pervenire, nella nostra conoscenza, ad una certezza apodittica, ma sempre ad un grado solamente maggiore o minore di probabilità.
Ipotesi è una credenza di giudizio intorno alla verità di un principio, a cagione di sufficienti conseguenze; o più brevemente: la credenza di una supposizione come principio. Adunque ogni credenza in ipotesi si fonda sopra ciò, che la supposizione, come principio, sia sufficiente a spiegare altre cognizioni come conseguenze. Perciocchè quivi non conchiudiamo dalla verità delle conseguenze la verità del principio. Ma, poiché cotesta maniera di conchiudere, siccome testé fu già notato, allora solamente porge un criterio sufficiente di verità e può condurre ad una certezza apodittica, quando sono vere tutte le conseguenze possibili dell'ammesso principio; è manifesto che, non potendo noi determinare tutte le conseguenze possibili, le ipotesi rimangono sempre ipotesi, cioè, supposizioni, alla cui piena certezza non possiamo mai pervenire. Ciò non ostante, la probabilità di una ipotesi può crescere ed elevarsi ad un analogo di certezza, allora cioè che tutte le conseguenze, fin ora presentate, si possano spiegare pel principio supposto. Perocché in tale caso non vi è ragione, per la quale non dovremmo ammettere, che tutte le conseguenze possibili possano essere per quella spiegate. In tal caso perciò noi ci rassegniamo all'ipotesi, come fosse pienamente certa, sebbene non la sia che per induzione.
Non per tanto egli è uopo che pur in ogni ipotesi sia qualche cosa di apoditticamente certo; vale a dire:
1. La possibilità della supposizione istessa. Quando p. e. a spiegare i tremuoti e i vulcani, noi ammettiamo un fuoco sotterraneo, è uopo che un tal fuoco sia pure possibile, se non come corpo fiammeggiante, almeno come corpo ardente. Ma per cagione di certi altri fenomeni, facendo la terra come un animale in cui la circolazione dei succhi interni produce il calore; ciò vale formare una semplice finzione e non una ipotesi: perciocchè le realtà si possono ben fingere, ma non le possibilità; queste debbono esser certe.
2. La conseguenza. Le conseguenze è uopo che derivino legittimamente dal principio ammesso; altrimenti da ipotesi diventa una semplice chimera.
3. L'unità. Requisito essenziale di una ipotesi è questo, che sia una, e a suo sostegno non abbia bisogno di alcuna ipotesi ausiliaria. Se per una ipotesi dobbiamo prendere molte altre in aiuto, ella perde per questo moltissimo della sua probabilità. In vero, quanto più conseguenze si possono derivare da una ipotesi, tanto maggiormente essa è probabile; come, quanto più poche, tanto meno probabile. Così p. e. la ipotesi di Ticone de Brahe non essendo sufficiente alla spiegazione di molti fenomeni, ammetteva perciò a compimento molte nuove ipotesi. Di qui la cagione di argomentare, la ipotesi ammessa non poter essere la vera ragione. Al contrario, il sistema copernicano è una ipotesi onde si può spiegare tutto ciò che devesi per essa spiegare, cioè quanto fin ora si è offerto ai nostri sguardi, senza che vi sia bisogno d'ipotesi sussidiarie (kypotheses subsidiariae).
Ci ha scienze che non permettono ipotesi; come p. e. la matematica e la metafisica. Ma nelle scienze fisiche esse sono utili ed indispensabili.
Una conoscenza si appella pratica in opposizione alla teoretica, e alla speculativa. Vale a dire, le conoscenze pratiche sono: 1. imperative, e in quanto a ciò sono opposte alle teoretiche; ovvero, contengono, 2. le ragioni d'imperativi possibili, e per questo riguardo sono opposte alle conoscenze speculative. Per imperativo in generale è da intendere ogni proposizione che esprime un'azione libera possibile, per la quale un certo fine debbasi realmente conseguire. Ogni conoscenza perciò che contiene imperativi, è pratica, ed è a dirsi pratica veramente in opposizione alla teoretica. Perché le conoscenze teoretiche sono tali, che esprimono, non ciò che deve essere, ma ciò che è; quindi hanno a loro obbietto, non l'operare, ma l'essere. Prendendo, al contrario, le conoscenze pratiche in opposizione alle speculative, elle possono essere ancora teoretiche, in guanto si può da loro solamente derivare imperativi. Allora, sotto questo rispetto considerate, sono pratiche secondo il valore (in potentia) o obbiettivamente. Per conoscenze speculative cioè intendiamo quelle da cui non si può derivare alcuna regola di condotta, o che non contengono ragioni d'imperativi possibili. Di tali proposizioni semplicemente speculative ce n'è in quantità p.e. nella Teologia. Cotali conoscenze speculative sono perciò sempre teoretiche; ma non viceversa, ogni conoscenza teoretica è speculativa: essa, riguardata sott'altro rispetto, può essere pratica.
Ogni conoscenza, infine, tende alla pratica; e in questa tendenza d'ogni teoria e d'ogni speculazione rispetto al loro uso dimora il valore pratico della nostra conoscenza. Ma questo valore non è che incondizionato, quando il fine, al quale l'uso pratico della conoscenza è rivolto, è incondizionato. L'unico fine incondizionato e supremo, al quale ogni uso pratico di nostra conoscenza in ultimo devesi riferire, è la moralità, che noi per questa ragione appelliamo il semplice o assoluto pratico. E quella parte della filosofia che ha per oggetto la moralità, dovrebbesi perciò appellare filosofia pratica xατ᾿ἐξοχήν per eccellenza; sebbene ogni altra parte della filosofia possa pur sempre avere la sua parte pratica, cioècontenere intorno a teorie esposte un insegnamento pel loro uso pratico a conseguimento di certi fini.
*1. La fede non è fonte particolare di conoscenza. È una maniera di credenza incompleta con coscienza, e, considerata come ristretta ad una particolare specie di oggetti (che non sono che di fede), differisce dalla opinione, non pel grado, ma per la relazione che, come conoscenza, ha all'operare. Così il negoziante p. e. ad imprendere un negozio, bisogna che non opini soltanto che in quello sarà per guadagnare, ma che ne abbia fede, cioè che la sua opinione su l'intrapresa, sebbene incerta, sia sufficiente. Or, avendo noi conoscenze teoretiche (del sensibile), in cui possiamo giungere alla certezza, e per rispetto a tutto ciò che possiamo appellare conoscenza umana, è uopo che questa sia possibile. Si fatte conoscenze certe appunto e, per verità, del tutto a priori noi abbiamo nelle leggi pratiche; se non che queste fondatisi in un principio soprassensibile (la libertà) e, per ver dire, in noi stessi, come principio della ragione pratica. Ma questa ragione pratica è ne causalità rispetto ad un oggetto parimenti soprassensibile, cioè al bene supremo, che nel mondo de' sensi non possiamo conseguire per via delle nostre facoltà. Nulla di meno la natura, come oggetto della nostra ragione teoretica, vi deve insieme accordare; perciocchè la conseguenza o l'effetto di questa idea dee ritrovarsi nel mondo sensibile. Dobbiamo dunque adoperarci a questo fine.
Troviamo nel mondo sensibile ancora tracce di sapienza artistica, e abbiamo fede che la causa del mondo agisca con morale sapienza pel bene supremo. La è questa una credenza sufficiente all'operare, vale a dire, è fede. Or noi non abbisogniamo di essa per operare secondo le leggi morali, perocchè queste son date solamente per mezzo della ragion pratica; ma ci è uopo ammettere una sapienza suprema per oggetto della nostra volontà morale, sul quale, oltre la semplice legittimità delle nostre azioni, non possiamo fare a meno di regolare i nostri fini. Sebbene ciò obbiettivamente non fosse una relazione necessaria al nostro arbitrio, il bene supremo è non pertanto l'obbietto subbiettivamente necessario di una buona volontà (anche umana), e la fede di poterlo conseguire vi è necessariamente supposta.
Fra lo acquistare una conoscenza per via dell'esperienza (a posteriori) e per via della ragione (a priori) egli non ci ha mezzo di sorta; ma tra la conoscenza di un obbietto e la semplice supposizione della sua possibilità, ci ha un mezzo; cioè una ragione empirica, o razionale di ammettere la seconda (la possibilità) in relazione ad un allargamento necessario del campo degli oggetti possibili, oltre quelli la cui conoscenza si può da noi conseguire. Questa necessità trova luogo solamente in riguardo a ciò, poiché l'oggetto è conosciuto come pratico e per mezzo della ragione come praticamente necessario; perciocchè ammettere qualche cosa a semplice allargamento della conoscenza teoretica è sempre accidentale. Cotesta supposizione praticamente necessaria di un oggetto è quella della possibilità del bene supremo come oggetto dell'arbitrio, e però della condizione ancora di tale possibilità (Dio, libertà e immortalità). Ciò è una necessità subbiettiva di ammettere la realtà dell'obbietto per la necessaria determinazione della volontà. Questo è il casus extraordinarius, senza il quale la ragione pratica non può sussistere in riguardo al suo fine necessario, e in cui le cade acconcio il favore delle necessità (favor necessitatis) nel suo proprio giudizio. Ella non può acquistare logicamente alcun obbietto, ma solamente opporsi a ciò che impedisce l'uso di questa idea che praticamente le appartiene.
Questa fede è la necessità di ammettere la realtà obbiettiva di un concetto (del bene supremo), cioè la possibilità del suo oggetto come oggetto necessario a priori dell'arbitrio. Se guardiamo solo alle azioni, non abbiamo necessariamente questa fede. Ma volendo per mezzo delle azioni estenderci al possesso del fine per loro possibile, ci è uopo ammettere che questo sia assolutamente possibile — Adunque io posso sol dire: mi veggo pel mio fine forzato, secondo le leggi della libertà, ad ammettere come possibile nel mondo il bene supremo, ma non posso costringere a questo alcun altro per via di ragioni (la fede è libera).
La fede razionale non può mai per ciò menare alla conoscenza teoretica; perciocchè, quando ci è credenza obbiettivamente insufficiente, non ci è che opinione. Essa è semplicemente una supposizione della ragione a fine pratico subbiettivo ma assolutamente necessario. Il sentimento secondo le leggi morali conduce ad un oggetto dell'arbitrio determinabile mediante la ragion pura. L'ammettere che cotesto oggetto si possa recare ad atto, e però la realtà ancora della causa da ciò, è una fede morale o una credenza libera e necessaria per lo scopo morale di effettuare i suoi fini.
Fides è propriamente fedeltà nel patto, o subbiettiva confidenza di uno nell'altro, che uno manterrà la sua promessa all'altro, fedeltà e fede. La prima, se il patto è conchiuso; la seconda, se si ha da conchiudere.
Secondo l'analogia la ragion pratica è in certa maniera il promettente; l'uomo, quegli a cui la promessa è fatta, promissarius; il bene atteso per l'opera, la cosa promessa, promissum. (Nota di Kant) ↩
*2. Questa convinzione pratica è perciò la fede morale razionale, la quale sola più propriamente bisogna appellar fede, e come tale opporre al sapere e ad ogni convinzione teoretica o logica in generale, perciocchè ella non può giammai elevarsi al sapere. La così detta fede storica, al contrario, non si può distinguere, come già si è notato, dal sapere, poiché essa, come una maniera di credenza teoretica o logica, può essere anche un sapere. Noi possiamo con la stessa certezza ammettere una verità empirica su la testimonianza altrui, che se vi fossimo pervenuti per mezzo di fatti di nostra esperienza. Se nella prima maniera di sapere empirico ci è qualche cosa d'ingannevole, ci è pure nella seconda. Il sapere empirico storico o mediato si fonda su questo, che la testimonianza è degna di fede. Requisiti di una testimonianza incorrotta sono autenticità e integrità. (Nota di Kant)↩
1. Per Kant Idee, idea, è ben altro che semplice concetto, Begriff; perciocchè il concetto può essere, come dice a suo luogo, empirico, Erfahrungsbegriff, puro o intellettuale, Notion, Verstandesbegriff, e razionale, Vernunftbegriff: quest'ultimo solamente ei chiama idea. Incominciando la logica dice: Begriff der Logik, concetto della logica. Nondimeno, nel porgere un tal concetto, parlando della possibilità che noi possiamo formarci della logica, come scienza meramente formale, usa la parola idea: Und wir können uns also eine Idee non der Möglichkeit einer solchen Wissenschaft machen, eccetera. Logik. Ediz. di Rosenkranz. S. 171. Poiché ogni idea è ancora nozione, secondo Kant, e ogni nozione è ancora concetto, e non per contrario: cioè non ogni concetto è nozione, e non ogni nozione è idea; quando si può adoperare idea, con più ragione si può adoperare nozione; e quando si può adoperare nozione, con più ragione concetto; come pure rappresentazione, Vorstellung, in luogo di concetto, essendo rappresentazione ogni concetto; ma non viceversa, cioè non ogni rappresentazione è concetto, per ciò che ci ha rappresentazioni che sono mere intuizioni, Anschauungen. Se non che noi, come in questo così in altri luoghi, ci atterremo fedelmente al modo onde l'A. esprime il suo pensiero, lasciando al lettore l'intendere, nei diversi luoghi, il significato generale o speciale della parola usata.
Trad. ↩
2. Kant, nel dire il modo onde le forze della natura operano, e le nostre potenze si esercitano, pare che usi indifferentemente, Regel, regola, e Gesetz, legge. L'una, in verità, non si può confondere con l'altra, valendo legge più che semplice regola. Se non che qui può aver luogo una considerazione simile a quella fatta nella nota precedente; perciocchè se una forza è soggetta a leggi, con più ragione può dirsi soggetta a regole. Intanto vogliamo si sappia, che anche dove pareva si fosse potuto usare l'una per l'altra, ci siamo conformati, nella traduzione, al linguaggio kantiano.
Trad.↩
3. Ogni nostra intuizione, dice K. non avviene che per mezzo de' sensi; l'intelletto nulla intuisce, ma solamente pensa, ossia riflette (denken, pensare, nel linguaggio kantiano, vale lo stesso che, reflektiren, riflettere, cioè il pensare è essenzialmente riflessivo o discorsivo): Alle unsere Anschauung geschieht aber nur vermittelst der Sinne; der Verstand schaut nichts an, soridern rejlektirt nur. Prolegomena zur Metaphysik. S. 45. Ediz. di Rosenkranz. Leipzig. 1838.
E altrove: l'intelletto non può intuire alcuna cosa e i sensi nulla pensare: Der Verstand vermag nichts anzuschauen und die Sinne nichts zu denken. Kritik der reinen Vernunft. S. 82. Ediz. di Hartenstein. Leipzig. 1867.
Pensi il lettore la lotta che dovettero destare cotali recise affermazioni kantiane, e come certe menti dovettero essere perciò indotte ad ammettere e propugnare calorosamente l'intuito intellettivo, l'intuito dell'assoluto; tanto più che, secondo Kant «tutto ciò, che ci deve esser dato come oggetto, è uopo che lo ci sia dato nella intuizione»: Alles, was uns als Gegenstand gegeben werden soli, muss uns in der Anschauung gegeben werden. Prolegomena zur Metaphysik. Luogo citato.
Trad.↩
4. A meglio intendere ciò, si legga il N.° V.
Trad.↩
5. Considerando l'abuso che oggi si fa della parola trascendentale, mi penso non sia inutile riformare il significato in che propriamente la prende Kant. Trascendentale non è a dire qualunque conoscenza che sorpassi i limiti del senso comune o dell'esperienza.
Io appello trascendentale, dice Kant, ogni conoscenza che in generale non si occupa degli oggetti, ma della nostra maniera di conoscerli, in quanto questa sia possibile a priori:
Ich nenne alle Erkenntniss transscendental, die sich nicht sowohl mit Gegenständen, sondern mit unserer Erkenntnissart von Gegenständen,, so fern diese a priori möglich sein soll, überhaupt beschäftigt.
Kritik der reinen Vernunft. S. 49. Ediz. di Hartenstein.
E a pag. 85. della stessa opera, fermandosi di proposito su l'uso di tale vocabolo, soggiunge:
che sia uopo non appellare trascendentale qualunque conoscenza a priori, ma solamente quella, per la quale conosciamo, che e come certe rappresentazioni (intuizioni o concetti) sono applicate o possibili semplicemente a priori (cioè la possibilità della conoscenza o il suo uso a priori):
dass nicht eine fede Erkenntniss a priori, sondern nur die, dadurch wir erkennen, dass und wie gewisse Vorstellungen (Anschauungen oder Begriffe) le diglich a priori angewandt werden oder möglich sind, transscendental (d. i. die Möglichkeit der Erkenntniss oder der Gebrauch derselben a priori) heissen müsse. ↩
6. Erkennen, conoscere con consapevolezza, ossia conoscere chiaro, che vale lo stesso per K, e di cui la logica, come testè ha detto, può occuparsi.
Trad.↩
7. Vedi la nota 3. Trad.↩
8. Kant in una sua dissertazione che ha per titolo: Was heisst: sich im Denken orientiren? che cosa vuol dire: raccapezzarsi nel pensiero? chiarendo questo stesso con maggior larghezza e generalità, dice essere
«un fermarsi nella credenza, essendovi insufficienti principii obbiettivi della ragione, per un principio subbiettivo di essa»:
Sich im Denken überhaupt orientiren, heisst also: sich, bei der Unzulänglichkeit der obiectiven Principien der Vernunft, im Fürwahrhalten nach einem subiectiven Princip derselben bestimmen.
Kant's sämmtliche Werke herausgegeben von G. Hartenstein, vierter Band, S. 342.
Trad.↩
9. Se non che oggi, dopo le grandi attenenze tra il calorico e la luce dimostrate specialmente per opera del chiarissimo Macedonio Melloni; dopo le scoperte di Fresnel in ispecialità e di Arago su la diffrazione, interferenza e polarizzazione della luce; dopo sparite, per opera de' migliori fisici delle diverse nazioni civili, le grandi differenze tra l'elettrico e il magnetico, e vedute le loro recipriche attenenze, e come l'elettrico raccolga in se i fenomeni propri, e quelli del magnetico, della luce e del calorico; dopo i felici risultamenti degli studii del Babinet, del Pouillet e di altri sopra il sistema delle vibrazioni e le proprietà dell'etere, e veduto chiaramente come con questo fluido sottilissimo ed elasticissimo sparso per tutta la natura, riesce assai facile la spiegazione dell'indefinita varietà de' fenomeni luminosi, calorifici, elettrici e magnetici; la sua esistenza è tale da non potersi, a mio avviso, dimostrare nel fatto il contrario, anzi essere quasi certezza.
Trad.↩
Ultima modifica 2021.06.29