Escerto riprodotto per ragioni di studio (learning purposes)
Dei fiumi di inchiostro versati dagli storici, dai filosofi, dai mitografi sul terreno evemeristico, non una goccia, possiamo ben dire, è stata spesa (da quanto almeno ci è pervenuto) per la biografia dello pseudo-filosofo titolare di uno dei più importanti sistemi teologici.
Dai suoi contemporanei ai nostri tempi a lungo si è discettato intorno al nome di Evemero e accanite contese si sono ingaggiate contro o al riparo di lui in un caotico alternarsi di accuse e di difese, di ampollose esaltazioni e di violenti anatemi; così i più disperati giudizi si sono incrociati sulla figura dell'antico scrittore, dai primi apologisti cristiani agli ultimi razionalisti moderni, che lo hanno volta a volta discusso e imitato, avversato e acclamato, mentre toccava la loro critica l'acme ora dell'entusiasmo ora della più amara acrimonia.
Per conseguenza a tutt'oggi anche la personalità dello artista e del pensatore si intravvede nebulosa ed incerta attraverso la sua opera mutila, corrotta, talvolta dolorosamente contraffatta e distorta. Quanto all'uomo, è andato addirittura disperso.
E allora, seguendo un procedimento più naturale e logico, converrebbe adesso ritornare all'Autore, concentrare l'indagine sulla sua figura, per sé stessa e, quel che più conta, in rapporto alla sua dottrina, che solamente così potrà gradualmente riportarsi su un giusto piano di valutazione, dal momento che, tramontata, si ripresenta all'interesse dello studioso moderno per la sua importanza esclusivamente storica, per la funzione adempiuta nella determinazione delle concezioni religiose, nella millenaria evoluzione del pensiero.
Le concezioni religiose, sia implicite nei miti e nel rituale, sia espresse dai poeti e dai filosofi, hanno in tutti i popoli presieduto allo sviluppo della etica, della politica, della civiltà; specialmente in Grecia, dove la religione ha presentato un grandissimo valore intrinseco ed ha influito in modo vitale sul pensiero religioso del mondo intero, comprese la teologia giudaica, quella cristiana e quella musulmana, le quali dipendono da essa in tale misura che la loro storia ha il suo punto di partenza esattamente nei capitoli in cui si discute la filosofia religiosa dei Greci.
Peraltro occorre fin d'ora anticipare che le teorie evemeristiche, basate sulla interpretazione prammatista della mitologia, per cui gli dei dell'Olimpo antropomorfico ellenico risultano in ultima analisi ex-personaggi storici elevati agli onori divini per la loro attività storica, sono in verità anteriori ad Evemero stesso; ma chi vi ha legato il proprio nome è stato colui che le ha vagliate, estese e codificate in sistema, evidenziandone il carattere storico-razionalistico, salvando in extremis la Divinità con le due categorie di dèi, e provvedendo con un felice espediente artistico-letterario alla diffusione del rivoluzionario sistema nel mondo ellenistico; dimodochè attraverso le letterature greca e latina si è poi tramandato fino ai tempi moderni.
“Pseudo-filosofo”, si è già detto. Lo hanno infatti ridotto alle proporzioni di un retore filosofeggiante, di un sofista indifferente e dissolvitore incurante della verità.
Purtuttavia le doti eccelse dello scrittore, l'arte fantasiosa del romanziere, l'originalità dell'inventore e la lunga teoria degli imitatori son tutti valori incontestabili nella loro realtà e universalità; come meno che mai erano contestati nella antichità, quando Evemero troneggiava tra i prìncipi del pensiero e dell'arte.
Oggi invece del nome di questo illustre scrittore italico dell'antica Messina si può trovare solo qualche fuggevole accenno nei manuali scolastici di storia letteraria greca. Non c'è stato un italiano che se ne sia mai occupato; non c'è una misera cantonata nell'abitato messinese che lo ricordi; come perlomeno si è fatto per il suo grande contemporaneo concittadino, il filosofo aristotelico Diocearco. E si, che si è trovato posto nella toponomastica locale per il “Peculio”, per le “Vettovaglie”, per l'“Acqua del Conte”, per il “Bufalo”, per la “Uccelliera”, per la “Munizione”, e persino per la “Legname Vecchia” e per quella “Nuova”....
C'entra dunque pure la carità di Patria ad ispirare i propositi nella stesura del presente modesto saggio, che vuol essere soltanto un invito per gli Studiosi ben più degni di impegnarsi in questo campo. E ad Essi sarò profondamente grato se mi vorranno essere benevoli e larghi di emendamenti.
Messina, 25 agosto 1960
P. S.
Aride sono le fonti, quelle poche scarsissime che si possono utilizzare per tracciare un profilo conciso, alla svelta, di Evemero. Nonostante si sia fatto tanto chiasso intorno al nome di lui, si è dato il caso curioso che l'interesse dei teologi, degli apologisti, dei critici, dei polemisti attraverso i secoli letterari è stato attratto unicamente dalla dottrina; a tal punto che si conoscono le alterne vicende dell'Evemerismo, ma si sconosce e si sconosceva fin dall'èra cristiana, oltrechè la biografia, persino il testo dell'opera letteraria di Evemero, senza tuttavia che ciò abbia impedito di giudicare e sentenziare decisamente sul conto dell'Autore stesso.
Si potrebbe indicare il motivo nel fatto che la dottrina ha una sua importanza e una sua vitalità per sè stante, e che il romanzo costituisce un espediente, uno strumento per la prima divulgazione della dottrina; uno strumento che, raggiunto lo scopo per cui è stato adoperato, si può tranquillamente accantonare.
Qualunque sia stata la causa di tale lacuna, tesaurizzando delle allusioni e dei fuggevoli accenni biografici contenuti nei frequenti giudizi degli antichi scrittori intorno alla dottrina e al movimento religioso degli evemeristi, che hanno esercitato una influenza profonda in tutti i tempi nel campo della teologia in ispecie, si possono tuttavia, integrando con opportune illazioni. fissare le linee fondamentali della personalità di Evemero e ricostruire le tappe dell'itinerario seguito nelle sue peregrinazioni.
Quanto al nome anzitutto possiamo esser certi che è assolutamente esclusivo: di omonimi infatti non se ne sono mai conosciuti per quante ricerche si siano compiute in ogni campo dell'attività umana. Non si è quindi autorizzati a sospettare, a proposito delle discordanze rilevate nei testi antichi sulla località di origine, che si possa trattare di riferimenti a più persone distinte.
“Euhèmeros”, secondo che si faccia derivare immediatamente da “hemèra”, ovvero da “hèmeros”, acquista una gamma di significati compresa tra “felice” e “mansueto”. E felice è pure la coincidenza tra il nome e l'indole del romanziere messinese, di questo fortunato cortigiano che a Cos, o nella reggia di Pena, o in quella di Alessandria, all'ombra della mecenatistica protezione di re Cassandro, o di Tolemeo I Sotero (306-285) o Filadelfo (283-247), si rifugiava con ariostesca giocondità, con scettico atteggiamento in un mondo fantastico di sogno, nella realtà del romanzo avidamente cercata dalla vita cortigiana.
Non si può disconoscere tra i molteplici aspetti della sua opera l'attuazione di un suo preciso ideale estetico, aderente ad una naturale tendenza che è il fattore determinante di un carattere quieto e tranquillo, bisognoso di evadere dalla amara realtà della vita quotidiana per trovare una sede adeguata nella pace e nella serena bellezza della natura; e di questa sua serenità spirituale, affatto intima e congeniale, noi possiamo facilmente vedere una chiara estrinsecazione in quel meraviglioso paesaggio immaginario dove egli localizzerà il suo originalissimo sistema teologico-sociale.
Mentre Evemero nasceva a Messina intorno al 330 a.C., la Città che gli dava i natali inaugurava, dopo un lungo periodo agitato, una parentesi di tranquillità e libertà, che purtroppo non sarebbe durata a lungo per il riaffiorare di non sopiti rancori e di ambizioni.
Erano secoli che la Sicilia gravitata nell'orbita ellenica, nelle arti e nella universale cultura dell'Ellade, di cui costituiva, con le contrade meridionali della penisola Italica, una emanazione diretta e quasi parte integrante: la Magna Grecia; per cui Evemero, nascendo a Messina, era cittadino e figlio benemerito di quella grande Madre di civiltà alla grandezza della quale avrebbe arrecato il suo contributo mercè l'opera di pensatore e scrittore.
Ma dalla Grecia coi costumi, con la religione, con l'idioma si erano propagginati nelle opposte rive anche in frazionamento in “polis”, la posizione egemonica siracusana i contrasti, le invidie, le rivalità con l'instabilità politica, con le buone e le cattive tirannidi, con l'anelito costante alla libertà.
Era stato tutto un ripullulare di guerre e guerricciole tra città egemone e confederate, tra polis e polis, tra stirpe dorica e stirpe jonica1, tra Greci e Fenici, tra colonie e metropoli; e non erano mancate nemmeno le reazioni xenofobe da parte dell'elemento indigeno, che aveva tentato a varie riprese di rimontare la superiorità degli oriundi greci: basti accennare al vasto movimento nazionalista capeggiato dal principe siculo Ducezio (†440), tendente a riconquistare la completa libertà dalla dominazione greco-siracusana rappresentata allora dalla tirannide di Gerone I. (478-467), erede della politica autocratica del padre Gelone (491-478).
Inevitabilmente tutti questi contrasti locali si sarebbero poi polarizzati per farsi assorbire in due blocchi, in un duello gigantesco fra due potenze straniere, delle quali una, la cartaginese, era già presente e incombente al tempo della nascita di Evemero, minacciando dalle solide posizioni commerciali della Sicilia occidentale e dalle piazzeforti di Selinunte e Segesta, dopo essere stata inutilmente battuta da Gelone nello scontro di Imera del 480, da Gerone a Cuma sei anni dopo e da Dionigi il Vecchio (405-368); mentre l'altro colosso, Roma, cominciava a delinearsi oltre i monti del Bruzio con le sue smodate mire espansionistiche, con la inesorabile decisione di contendere all'ultimo sangue la ricca e importante isola tricuspide ai Puni. Intanto dalla metropoli Corinto con una armata di compatrioti è venuto per liberare i siracusani da Dionisio il Giovane Timoleonte (415-337), il restauratore delle libertà costituzionali, l'uomo che ha disinfestato la Sicilia orientale dalla peste della tirannide, eliminando i vari Mamerco da Catana, Iceta da Leontinoi, Andromaco da Tauromenion ecc. e organizzando una lega politico-economico-militare sotto la guida di Siracusa, basata sull'assoluto rispetto delle autonomie interne e delle sovranità, col mantenimento delle locali monetazioni.
L'avvento di questo statista-guerriero, dipinto dagli storici come un onest'uomo, ha segnato il risollevamento dei Greci di Sicilia dalla più profonda decadenza ad una generale rifioritura, dal momento in cui egli ha fatto dono della libertà a popoli da lungo tempo asserviti2.
A Messina, già da lui soccorsa e liberata dalle incursioni dei Cartaginesi, tiranneggiava dispoticamente l'indigeno Ippone, appoggiato da Mamerco di Catana: invocato dai messinesi, Timoleonte lo ha affrontato, sbaragliato e giustiziato in pubblico teatro dinanzi al popolo (337). Nunc redit animus: cessa il terrore inibitore delle liberali manifestazioni civili; risorgono gli spiriti; si riprendono con ritmo crescente le varie attività nella vita pubblica e privata, nei campi, nei mercati, nelle officine, in tutti i settori della produzione, sotto l'egida della libertà costituzionale; si determina un clima di pace serena e prosperosa nella quale apre gli occhi alla luce Evemero, sotto il sole radioso del Peloro, sulle rive incantate del mitico Stretto, nello stesso luogo dove, qualche decennio prima, è nato e cresciuto un altro grande Figlio di Messina, che intanto si è trapiantato in Grecia, destinato a continuare l'opera aristotelica: Dicearco, uno degli ingegni più versatili che lascerà orme di sè in tutti i rami dello scibile, nella gegrafia, nella matematica, nella filosofia: un prisma con tutte le luci.
L'infanzia e la puerizia del futuro romanziere si svolgono adunque, in un incomparabile ameno paesaggio dal quale egli comincia ad attingere e imprimere nell'animo le immagini che dovranno rivivere in un altro mondo creato dalla sua fantasia. Il giovane va aggirandosi per i luoghi che fecero favoleggiare della cataclittica frattura operata da Nettuno, della falce di Cronos, del gigante Orione, della Fata Morgana, di Scilla e Cariddi, di Ulisse, eccitando e forbendo la fantasia; volge intorno gli occhi smagati sul tenero verde delle colline ubertose, si specchia ammaliato nelle acque marine dai magici effetti cromatici e aldilà vede allinearsi in imponente scenario le impervie giogaie aspromotane.
Ma è la cerchia dei “Colli” che lo seduce irresistibilmente; ed egli la raggiunge e la valica più e più volte per affacciarsi a contemplare laggiù, oltre il chersoneso di Myle, il misterioso arcipelago eolio, dove punta lo sguardo per intravvedere il favoloso castello-tempio di Eolo, i cupi fenomeni vulcanici; per soffermarsi a rimuginare sulle affascinanti storie di un popolo privilegiato trascorrente felice la vita in uno strano ordinamento comunistico, nel ricordo e nella venerazione di un re straordinario, saggio conoscitore e dominatore degli elementi meteorologici.
Nulla vieta di supporre che l'adolescente, avido di sapere, abbia attraversato il breve tratto di mare per osservare “de visu” le persone, i fatti e le cose che dalla infanzia accarezzavano la sua fantasia. Del resto erano sempre corsi intensi rapporti tra il litorale nord-orientale siculo e le isole che trafficavano vini, capperi, ossidiana, pietra pomice ecc.; e in special modo allora, quando le sempre possibili velleità imperialistiche di Siracusa avevano indotto Tyndaris e Agathyrnon a stringersi in lega con Lipari in un triangolo strategico.
Era pertanto accessibilissimo ad Evemero il porticciolo di Lipari, e le probabili visite ai luoghi caratteristici dovettero suggestionarlo al punto da rimanergli indelebili nella memoria per quando, giunto alla maturità intellettuale e artistica, lontano dalla terra natale, sarebbe ritornato indietro nel tempo per immergersi ancora, non senza un po' di tenerezza nostalgica, nello scenario meraviglioso dei giovanili ricordi.
Come non ci è dato ancora di conoscere il nome dei genitori di Evemero, nè alcunchè delle condizioni della famiglia, così “ne verbum quidem” intorno alla data e al movente del suo esodo dalla Sicilia.
Ma non poterono essere estranee le vicende politiche. Anche se non ci sono state tramandate dagli storici molte notizie relative al periodo che va dalla fine del governo di Dionisio il Giovane (345) a quella di Agatocle (†289), tuttavia sappiamo bene che quando Evemero si avvicinava ai vent'anni nel suo paese la situazione era mutata.
L'aura libertaria spirata dalla terra ellenica non aveva potuto sopravvivere, perchè gli ordinamenti istituiti da Timoleonte dopo il rovesciamento delle piccole tirannidi in Sicilia, erano legati al suo prestigio, alla sua autorità, alle sue sorti; infatti alcuni anni dopo che il grande alfiere della libertà era morto (337) erano cominciate ad addensarsi le nubi delle contese e delle guerre nel cielo di Messina. Al governo di Siracusa, la città egemone, era succeduto Agatocle (317-289), complessa e contraversa figura di tiranno, ostinato antagonista dei Cartaginesi, che ripetè il tentativo di Dionisio il Vecchio di unificare l'Isola stroncando le velleità restauratrici dei tirannelli e sopraffacendo le rivali Gela e Akragas mediante una equivoca politica tra Puni e Greci. Fu allora, nell'ultimo decennio del secolo, che l'estremo territorio nord-orientale della Sicilia e le isole antistanti si estraniarono dalle vicende collettive: le città comprese tra il promontorio perlorio e il fiume Himera (Myle, Tyndaris, Agathyrnon, Alontion, Kephlaloidion, Lipara, e nell'interno Abakainon, Petra ecc.), separate dal resto dell'Isola dalle catene peloritane e nebrodiche, con la minaccia punica dilà dal fiume, si coalizzarono attorno a eli Ando un nuovo nucleo di resistenza contro i Cartaginesi e contro Agatocle: questi non esitò a dirigere i colpi nel i noie della resisienza.
La sorte di Messina era segnata: investita nel 315, seppe tener testa al nemico, assistendo impotente alla caduta della consorella Myle (315), finchè essa stessa non cedette. Dopo esser riuscita a mantenersi libera dalla schiavitù di Dionisio il Vecchio, crollò rovinosamente nel 312 per la mala fede di Agatocle che penetrò in città e si abbandonò ai più crudeli eccessi infierendo contro i miseri Messeni e Tauromeni.
Nella generale dispersione provocata dalla guerra e dalla invasione è logico inserire l'allontanamento dalla città natia del giovane Evemero, che emigra, seguendo l'esempio del grande concittadino Dicearco. Dove?
Il De Block3 suppone che Agrigento, Tegea in Arcadia e l'isola di Cos, erroneamente indicate come luoghi di origine del Nostro, non siano altro che le tappe del suo itinerario.
E non è improbabile in tal caso che durante il soggiorno in Cos egli si sia formata la sua cultura astrologica traendo profitto dalla scuola astrologico-filosofica locale di Beròso, uno dei tanti babilonesi e persiani ai quali va ascritto il merito di aver destato nei paesi occidentali l'interesse per quella scienza che pochi anni prima dell'avvento di Alessandro era ancora coltivata da ristrette cerchie di studiosi nei paesi del vicino Oriente.
Che Evemero fosse versato in tali dottrine ce lo fa capire Sesto Empirico il quale in un'opera che tratta fra l'altro di astrologia (Pros Mathematicoùs) molto probabilmente attinge all'originale evemerico4.
Ma Evemero, già maturo nel pensiero e nella coscienza di artista, come tutti gli artisti protesi alla realizzazione dei loro progetti, aveva bisogno di protezioni che mettessero in luce e valorizzassero il suo talento; e in nessun altro luogo meglio che presso la corte macedone avrebbe potuto trovare in quella congiuntura politica un ambiente consono alle proprie aspirazioni.
Lo splendore della apoteosi di Alessandro, non ancora spento, si riverberava sui successori che, legittimamente o meno, sedevano sul trono di Filippo; e quel trono esercitava un fascino irresistibile sullo scrittore oriundo dalla Sicilia, cui negli anni della infanzia era pervenuta l'eco delle leggendarie imprese del grande Conquistatore assurto alla sfera dell'immortalità e della grandiosità storica, irraggiamento supremo del genio umano. All'ombra di quel trono, scomparso lui, si era lottato all'ultimo sangue tra diadochi e chiliarchi per assicurarsi la grande eredità; le potenti falangi si erano ammutinate; la dinastia di Aminta si spegneva violentemente; era l'impero che si andava sfasciando, uno dei più giganteschi sistemi politici della storia, conglobante tutti i popoli dell'Asia compresi tra il Nilo da una parte e l'Indo e lo Jassarte5 ad oriente.
Pure, se l'impero non aveva potuto essere organizzato e consolidato, ciononostante una nuova vita sociale era stata edificata e ad un eccelso livello era stata portata l'economia del paese, dopoché vi erano affluiti da Susa, da Pasagarda, da Persepoli e dalle altre terre conquistate dell'Asia le incalcolabili masse di metallo prezioso, di porpore, di gioielli che avevano fatto raggiungere alla Macedonia il ruolo di massima potenza capitalista, con industrie sviluppatissime e con una salda economia monetaria, per cui veniva soppiantata nel mondo ellenico l'Atene della Confederazione Delia.
Tutto considerato, Evemero si dirigeva verso la Macedonia ed entrava a far parte di quella fastosa corte regale dove avevano brillato non molto tempo addietro valorosi ipparchi e potenti dinasti, che avevano riempito il mondo dei loro nomi; dove allora regnava Cassandro il quale, pur essendo impegnato nelle guerre contro i rivali Poliperconte, Antigono e il figlio di questi Demetrio Poliorcete, si compiaceva cionondimeno di assumere atteggiamenti mecenatistici verso scienziati e navigatori6, sull'esempio del grande predecessore e assecondato da un popolo che, attivamente partecipe della vita dello stato, si era rapidamente evoluto in uno sforzo prodigioso da quella informe massa di rustici bifolchi messi un tempo in berlina dai beffardi oratori attici. Mentre gli Elleni erano rimasti fossilizzati nelle memorie delle glorie passate, il popolo macedone, un popolo di circa quattro milioni di abitanti, era rinato forgiandosi nella esaltazione della potenza, nella glorificazione della forza, nella esuberanza delle passioni, nella ebbrezza delle vittorie, nella coscienza della propria superiorità.
In mezzo a questo popolo che viveva, da tempo le vicissitudini spirituali e culturali della Grecia, cominciò dunque Evemero a vivere le esperienze più interessanti della sua carriera, al tempo in cui, il mondo eurasiatico si dibatteva nella crisi provocata dal passaggio e dalla scomparsa di Alessandro, e le lotte dei successori, i colpi di stato, i rovesciamenti politici determinavano un generale disorientamente politico e religioso che costituiva un terreno favorevole per la divulgazione di nuove credenze. Egli non dovette faticare molto per pervenire agli alti incarichi e per guadagnarsi il cuore del sovrano,come si legge in Diodoro: (v. Append., n. 1).
Era “amico” del re; trattava con lui con una dimestichezza che gli era valsa la stima, la fiducia e il conferimento del comando di varie spedizioni di scienziati ed esploratori (e fra queste anche di quella che gli fornì lo spunto per la cornice del suo romanzo-trattato) e che purtroppo nel medesimo tempo lo avrebbe compromesso agli occhi di Demetrio Poliorcete, rivale e successore di Cassandro, nonché degli altri Antigonidi. Morto infatti il protettore di Evemero nel 298, il trono passava ai figli; ma per breve tempo, perchè dopo appena cinque anni era loro usurpato per sempre da Demetrio, e il trapasso dei poteri provocava naturalmente un rinnovamento dei quadri della burocrazia e dell'esercito.
Così Evemero doveva abbandonare la corte e il paese in quel torno di tempo, in cerca di nuova residenza.
Da un frammento di Ateneo (v. Append., n. 2) si desume che il viaggiatore messenio abbia avuto dei rapporti diretti coi Fenici, e in particolare cogli abitanti di Bidone, delle cui tradizioni avrebbe fatto cenno nel terzo libro del suo romanzo; e ciò s'accorda con quanto riferisce Flavio Giuseppe (v. Append., n. 3), quando annovera Evemero fra gli scrittori che trattarono diffusamente e con cognizione di causa del popolo ebraico. Orbene, è dubbio se il Nostro abbia costeggiato e visitato la Fenicia e la Palestina durante qualcuno dei viaggi eseguiti per conto di re Cassandro, o se si sia recato in tali paesi nel corso delle peregrinazioni che dalla corte dei Mecedoni lo condussero laggiù in Egitto, ad Alessandria, dove finalmente verso il 270 Callimaco ce lo fa ritrovare già vecchio, dimorante “nel tempio davanti alle mura” (v. Append., n. 4) cioè nelle vicinanze del Terapeo di Parmenione, sede di famosa biblioteca, dentro o fuori che fosse della cinta urbana7), intento a stendere la Hierà Anagraphè, a riversare in un'opera geniale il frutto delle sue speculazioni e delle sue esperienze.
Come la Macedonia era stata ottima base per le sue avventure, così Alessandria, la roccaforte dell'Ellenismo, era la sede ideale per i suoi studi tranquilli, per la meditazione e la rielaborazione delle molteplici esperienze acquisite. La città del Faro era già celebrata in quel tempo, sotto lo scettro di Tolemeo Il Filadelfo (283-247), quale centro di erudizione mondiale, fucina di dotti filologi e bibliofili, con la sua biblioteca di 800.000 volumi (come si diceva) e il Museo fondati dal Sotero, e con gli impianti attrezzatissimi per i più svariati studi, botanici e matematici, zoologici e meccanici, anatomici e geografici.
Al periodo egiziano della vita di Evemero si riferisce anche la notizia di Plinio che gli attribuisce competenza in materia di “egittologia”, in quanto il messenio avrebbe anche trattato delle piramidi8.
Avrà anche fatto una puntata, durante la permanenza sul delta nilotico, nella città di Cirene? Non lo si può affermare; non basta, per far supporre ciò, la contiguità del territorio; non vi è in proposito alcuna antica testimonianza che autorizzi coloro dei moderni — e son parecchi9 — che fanno di Evemero un filosofo cirenaico, un seguace di Aristippo e di Teodoro l'Ateo.
Trascorsa l'operosa vecchiaia in Alessandria, lì stesso probabilmente morì intorno all'anno 250; e intanto la sua Patria lontana, che aveva da tempo salutato la fine della dominazione di Agatocle, era caduta nelle avide mani delle squadre mercenarie mamertine, altri odiosi padroni: costoro, congedati dal tiranno siracusano quando questi prossimo a morire (289) aveva restituito le democrazie alle città siceliote, si erano insediati in Messina; quindi, alleandosi e invitando successivamente Cartaginesi e Romani, aveva provocato l'inevitabile scoppio della prima Guerra Punica (264-241), e le rovine e le stragi erano infuriate principalmente sulla misera città, pomo della discordia e teatro dell'immane conflitto.
Così, mentre cessava a Siracusa l'esodo di scienziati ed artisti e anzi il governo di Jerone II favoriva il rientro di Timeo e Teocrito, al vecchio Evemero era negato il ritorno dalle infelici vicende nelle quali si dibatteva in quegli anni la sua Terra natale.
Nessuno ancora può, se non molto approssimativamente, fissare l'anno di nascità di Evemero. Per non congetturare infondatamente possiamo solo indicare un periodo, perchè non si dispone nè della data di morte nè di esatte notizie cronologiche attinenti alla stesura della Hierà Anagraphè.
Giova notare che Evemero si compiace di parlare del suo strano viaggio come di una missione di fiducia conferitagli da re Cassandro di Macedonia10. Orbene, al padre Antipatro, morto nel 319 a.C., Cassandro successe nella reggenza della Macedonia (cui era annessa la riottosa Greca) non prima del 316, perchè il padre stesso aveva preferito nella designazione il generale Poliperconte; successivamente, nel 305, assunse il titolo regio dopo la soppressione di tutti i membri della famiglia macedone degli argeadi; alla nuova spartizione del 301, dopo la battaglia di Ipso, fu riconfermato re di Macedonia e di Grecia. Morì il 298 sul trono che ai suoi figli cinque anni dopo sarebbe stato strappato con la violenza da Demetrio Poliorcete.
Indubbiamente la storia di Evemero dovette essere o coeva o posteriore vuoi alla reggenza vuoi al regno di Cassandro, cioè all'ultimo decennio del IV secolo, quando ovviamente l'Autore doveva aver raggiunto una, certa maturità; perchè, prescindendo dal dubbio sulla realtà effettiva dei vantati rapporti diretti fra il monarca macedone ed Evemero, questi, ammesso che pubblicò o compose l'opera dopo molto tempo dalla scomparsa del protettore e dei figli di lui, è logico, che intese impostare la narrazione innestandola nella parte proemiale su delle premesse reali (o verosimili, perlomeno) relative a determinate circostanze locali e temporali. La inesattezza dei dati cronologici sarebbe stata senz'altro eccepita dai suoi contemporanei; e ciò avrebbe tolto ogni verisimiglianza alle premesse stesse.
Perciò, seppure dobbiamo accettare la tesi scettica di Jacoby e di Herter, che riducono a una semplice finzione il mandato del re Cassandro e il viaggio relativo, ciononostante non si può mettere in dubbio che intorno al 300, cioè negli ultimi anni del regno del suo protettore (per maggior sicurezza), lo scrittore messenio doveva già avere una età non inferiore comunque ai venti anni, concedendogli tutta la precocità possibile. In altre parole: per collocare la data di nascita dobbiamo fissare un assoluto “terminus ante quem” nell'anno 320.
Ma c'è un'altra testimonianza di un contemporaneo di Evemero: Callimaco (310?-240?), che al riguardo presenta una importanza non trascurabile. Noi oggi disponiamo di un passo del primo dei suoi Giambi (vv. 9-11), venuto alla luce recentemente in un rinvenimento papirologico con altri frammenti callimachei, e già tramandato testualmente dallo Ps. Plutarco: (v. Append., n. 5). Cioè: “...nel tempio davanti alle mura, qui dove il vecchio impostore che ha inventato un antico Zeus di Pancaia va grattando i suoi empi libelli...”
Quando scriveva Callimaco questi versi?
Sostiene il De Block, seguendo il Bernhardy, che l'attività letteraria del Battiade “ne fut pas, selon toute probabilitè, antèrieure à l'an 250”. Se potessimo contentarci di quanto egli afferma, concluderemmo senz'altro con lui che Evemero dopo il (e non molto tempo dopo, giacchè era certamente nato prima del 320) scrisse la sua storia.... proprio in fin di vita. Ma non mi capisce bene come arrivi il De Block a tale asserzione. Non si può restringere la feconda produzione di Callimaco (gli Aitia, i Giambi, i 120 libri dei Pinakes, le Elegie, gli Inni, gli Epigrammi, lo Ibis, la Hecale...) in uno spazio di meno di dieci anni (Callimaco morì molto probabilmente il 240). E oltretutto si tratta in gran parte di poesia di occasione cortigiana, encomiastica devoto omaggio ai dinasti tolemaici, legata a particolari solennità o ricorrenze, a contingenze storiche o cronachistiche; come la morte della regina Arsinoe (270), esaltata con onori divini per volontà del vedovo Tolomeo II Filadelfo; il conferimento della direzione della biblioteca al suo discepolo e rivale Apollonio, non ancora Rodio (270); il fidanzamento (258) e le nozze (247) di Berenice con Tolemeo III futuro Evergete, erede al trono; la morte del Filadelfo e l'assunzione dell'Evergete (247); la partenza di questo per la guerra contro la Siria (245).... E di tale produzione possediamo molte date riscontrate esatte decorrenti dai primi anni di regno del Filadelfo, assunto al trono il 283, quando Callimaco faceva il suo ingresso a corte per detenervi ininterrottamente un ruolo preminente di poeta aulico ufficiale (la più sicura fra le antiche date è quella dell'Inno a Delo: 274), fino al 245, la data più tarda pervenutaci, relativa alla “Chioma di Berenice”11, cui deve essere posteriore l'Inno ad Apollo, contenente una allegorica allusione alla destituzione di Apollonio dall'ufficio di “prostàtes tes biblothèkes”.
Quanto ai Giambi, confessiamo che non ne è facile la datazione. Dal tono e dalle allusioni tuttavia si evince che si tratta di composizione giovanile. Inoltre si può facilmente riscontrare nelle ultime pagine degli Aitia (Fr. 112, 8-10) il proposito palese di iniziare la stesura dei Giambi, che sarebbero seguiti a quelli non molto dopo; e gli Aitia sono tra le primissime opere del poeta di corte (beninteso la prima edizione; perchè della seconda fanno parte carmi della senilità compresa la tardiva “Chioma”, come si è dimostrato in seguito ai recenti ritrovamenti pubblicati in Italia nel 1934): i Giambi di conseguenza non sarebbero stati composti dopo del 270.
Oltre però alla testimonianza dei Giambi in questione, possediamo un'altra evidente allusione ad Evemero dello stesso Callimaco, il quale purtuttavia evita di proferire il nome esplicitamente Sono i vv. 9-10 dell'Inno a Zeus: (v. Append., n. 6).
C'e la solita taccia di impostura, con particolare riferimento ad alcuni caratteristici dettagli evemerici della vita mortale di Zeus,12 la cui tomba appunto fu da Evemero localizzata a Creta, luogo di origine della dinastia divinizzata.
Quanto alla data di composizione dell'Inno a Zeus, occorre a maggior ragione collocarla poco dopo il 283, cioè ai primi anni del regno del Filadelfo, perchè non vi si fa cenno delle imprese successive del re e degli avvenimenti storici che seguirono al 270; anzi si può facilmente desumere che vi è trattata la celebrazione delle prime imprese di lui. Insomma, non può esser datata aldiquà del 270.
Se poi vogliamo stabilire un confronto fra i due passi, dobbiamo concedere la priorità al giambo del ghèron alazòn”, nel quale si parla — è Ipponatte che vi si fa parlare — di Evemero in tono sprezzante (“psèchei”) con interessanti indicazioni di luoghi, mentre intende a “grattare” i suoi libelli, anzi le sue imposture; invece negli esametri dei “Krètes pseùstai” si accenna a un particolare di autentico evemerismo di Evemero stesso, come se la sua dottrina fosse già diffusa e risaputa. Sicché è legittima l'illazione che verso il 270 Evemero aveva già scritto la Hierà Anagraphè, e, quel che più ci riguarda, era già da qualche tempo entrato nella seniscenza.
E allora, utilizzando le due testimonianze callimachee, troviamo confermato “a majori”, quanto alla nascita, il limite superiore che abbiamo sopra fissato al 320; anzi con un abbondante margine, poichè negli scazonti callimachei del I giambo è rappresentato un “ghèron” allusivo a Evemero appunto: e non può esser nato dopo del 320 chi prima del 270 è già vecchio.
Per cui, tirando le somme, si può spostare approssimativamente la data di nascita al 330 e quella di morte intorno al 250.
La frammentarietà della “Hierà anagraphè” non impedisce di ricostruire e riorganare il contenuto dell'opera colla quale Evemero ha legato il suo nome ad una dottrina che ben a ragione da Diodoro definita originale (v. Append., n. 7), già da tempo tuttavia pullulava nel mondo ellenico ed ellenistico, e che egli con una felice contaminazione discriminò, compose, sviluppò e diffuse con l'arte consumata del romanziere, col crisma quasi della verità assoluta.
Egli dunque con perfetta verisimiglianza narra che, facendo parte di una spedizione esplorativa verso i mari del Sud promossa da re Cassandro, e fatto scalo nella Arabia Felice, salpò di qui per raggiungere un arcipelago antistante nell'Oceano Indiano e potè così visitare una prima isola cosiddetta “Sacra”; popolazione, governata da una vecchia monarchia, disponeva di un territorio brullo e arido, largo circa 200 stadi (- 38 Km.c.), che, privo di coltivazioni arboree, produceva incenso e mirra destinati alla esportazione in tutto il mondo. Una seconda isoletta dell'arcipelago, a circa 7 stadi (- Km. 1,4 c.). era solo adibita a cimitero.
Ma dal lato orientale della Isola Sacra a 30 stadi circa (- Km. 5,7 c.) si estende una isola di eccezionale importanza, vastissima (dal lembo estremo si intravvede l'India), fertilissima, abitata dai Panchei (popolo autoctono diffuso in tutto il territorio delle due isole principali e rappresentante l'elemento etnico base) e da altri gruppi immigrati, localizzatisi nelle varie regioni di quest'ultima isola Oceaniti, Indiani; Sciti, Cretesi e Doiesi.
È questa l'isola di “Pancaia”13, che conta parecchie città, tra cui primeggiano Hyracia, Dalis, Oceanis e, la più importante di tutte, Panara, dotata di speciali privilegi costituzionali. In questa terra, ricca della flora più svariata e di miniere d'oro, d'argento ecc., gli abitanti, divisi in tre ordini sociali, vivono in uno strano ordinamento politico teocratico, in un temperato comunismo realizzato mediante la collettivizzazione dei prodotti dell'agricoltura, del sottosuolo e dell'allevamento; e conducono un tenore di vita elevatissimo, tra cibi raffinati, molli abbigliamenti e monili preziosi; mentre le scolte armate vegliano a turni permanenti sulla sicurezza delle isole, insidiate da pirati e banditi.
Caratteristica è l'orografia dell'isola per una grande montagna consacrata ad Urano (detta per l'appunto “Seggio di Urano” perchè guaste prima di essere annoverato fra gli dèi qui aveva installato il suo osservatorio astronomico) che sovrasta a una vastissima pianura di circa 200 stadi, irrigata da ameni corsi d'aqua potabile dalle particolari qualità terapeutiche, densa di lussureggianti coltivazioni, di vigneti, di giardini risonànti del canto di uccelli meravigliosi.
Proprio nel centro geometrico di questa pianura deliziosa è il centro politico-religioso dell'arcipelago intero: il tempio antico e fastoso di Zeus Trifilio14, fondato “personalmente” da lui a circa 60 stadi dalla capitale quando era un semplice re di Pancaia. L'istituzione è ora affidata a dei sacerdoti ornati di paludamenti e di mitrie d'oro, che dalle alte sedi del recinto sacro amministran la giustizia, il patrimonio agricolo e zootecnico... e le acque; essi inoltre detengono la direzione degli affari pubblici, esercitando i supremi poteri dello stato legittimati con una presunta discendenza dagli antichi sacerdoti provenienti da Creta al seguito di Zeus e da lui stesso investiti della sovranità; e probabilmente essi risiedono nella capitale Panara che, per i particolari privilegi e per essere soprannominati i cittadini “hikètai tou Diòs tou Triphylìou”, dovrebbe far parte dela zona sacra.
Ed ecco il clou del romanzo. Nell'interno del tempio, tra colonne marmoree e imponenti toreumi, nel barbàglio dell'oro, dell'argento, dell'avorio profusi in ogni dove, c'è una grande Colonna d'Oro eretta sul letto del dio, recante le gesta di Urano, di Cronos, di Zeus, e di altri personaggi divini ed eroici, incise da Zeus e da Hermes. In questa “Iscrizione” è contenuta la dottrina evemerica.
Quella prestigiosa e autentica Stele d'oro rinvenuta nel tempio pancheo di Zeus, incisa in caratteri forse geroglifici per mano di Zeus stesso, squarcia il velo all'avventurato scopritore su una fantasiosa vicenda cosmo-teogonica e su un duplice mondo divino e gli documenta le origini degli dèi terrestri. Questi ultimi, Urano, Crono, Zeus stesso, Dioniso ecc., già personaggi umani, eminenti (la maggior parte) per dignità e virtù, compresi di fede e venerazione negli dèi eterni, distinguendosi nella scienza astronomica, ben usando dei poteri regali, profondendo favori e benefici ai sudditi e procurandosi quindi la loro grata venerazione o la loro supina acquiescenza, furono divinizzati — o si fecero divinizzare — conseguendo gloria immortale e costituendo poi un Olimpo ben distinto dal mondo dei primi dèi, per essere quasi mediatori fra questi e gli uomini comuni.
Bisogna però onestamente rilevare in certe espressioni che le superlative virtù e i singolari benefici di questi titani dell'intelletto, di questi giganti della virtù, sembrano talvolta ostentazioni, intese a carpire la buona fede dei sudditi per arrogarsi Onori divini. Sesto Empirico si riferisce agli dèi evemerici mentre afferma che “quando le nazioni vivevano ancora nella barbarie, gli uomini che emergevano abbastanza sugli altri in forza e intelligenza, per obbligare tutti a vivere secondo le leggi stabilite da essi desiderando godere d'una ammirazione più grande e di maggior dignità, si attribuirono ima potenza sovrumana e divina, ciò che li fece riguardare dalla folla come dèi”15.
Urano: è il primo grande pioniere della civiltà; oriundo da Creta, getta le basi della monarchia in Pancaia, organizza lo stato, fonda lo studio della astronomia e istituisce la religione dei celesti. Morto lui16, il figlio e successore Crono continua nelle filantropiche opere; e così pure Zeus, terzo re di Pancaia, il quale, dopo essersi intronizzato scacciando il padre, si dà a viaggiare da un paese all'altro della terra per intrecciare relazioni, per imporre alleanze e protettorati, per guadagnarsi immortali onori divini, erigendo vari santuari addirittura a sè stesso dedicati. In uno di questi viaggi soggiorna a Pancaia, vi innalza un altare all'avo Urano in cima all'Olimpo e li elegge il suo domicilio, inaugurandovi un'èra di benessere e di felicità, dedicandosi all'amministrazione della giustizia, a dettar leggi, a imporre costumi di vita civile, a diradare le tenebre della barbarie. Ritornando a Creta, culla della dinastia, e trascorsavi l'estrema vecchiaia, morì e fu seppellito a Cnosso, dove fino ai tempi di Evemero sarebbe esistita la tomba con l'epitaffio: ma nel tempio innalzatosi in Pancaia aveva intanto lasciato un ricordo indelebiele ed eloquente, un testamento olografo, un monumento autentico: la “Hierà Anagraphè”, opera delle sue mani.
Questo documento sarebbe stato poi aggiornato da Hermes con la esposizione dei fasti dei discendenti di Giove e degli Eroi principali.
Il titolo dell'originale evemerico ci è pervenuto attraverso frequenti e concordi citazioni (v. Append., nn. 7, 11, 12).
Abbiamo una sola discordanza, in Diogeniano (v. Append., n. 13); e non v'è dubbio che si tratti della “Hierà Anagraphè”.
Ma il dubbio sorge a proposito del significato da accordare alla seconda delle due parole, prestandosi il soggetto dell'opera a due sensi di interpretazione: “descrizione” e “iscrizione”.
La prima interpretazione ci indurrebbe alla versione “sacra scrittura”, se questa espressione non fosse già consacrata esclusivamente nell'uso dei cristiani con un significato preciso; oppure “storia divina”; o meglio “sacra storia”: e in quest'ultima convengono quasi tutti i critici moderni. Senonchè il De Block17 mette in campo delle argomentazioni convincenti a favore della seconda interpretazione. Egli infatti fa una diligente ricognizione di tutti i titoli reperibili nei quali figura il vocabolo in questione, e in tutti gli risultano accezioni affini al significato generico di “iscrizione”, come in certe opere di Menodoto, di Stesiclide, di Callixeno ecc. (v. Append., n. 14).
Senz'ombra di equivoco siamo in presenza di cataloghi, di elenchi specialmente quando “anagraphè” è accostata, quasi per endiade, a “pìnax” (v. Append., n. 15).
Prescindendo poi dalla titolistica, il De Block conclude affermando di non conoscere addirittura un solo passo in cui “anagràphein” significhi “narrare”; per cui “anagraphè” non avrebbe in Evemero un significato estensibile a tutta l'opera narrativa, ma avrebbe attinenza con “epigrafia” e si riferirebbe direttamente all'iscrizione che Zeus in massima parte incise (seguito poi da Ermes) e collocò nel tempio in Pancaia (v. Append., n. 16 e 17).
L'asserzione del De Block forse pecca di eccessivo assolutismo, percè Diodoro stesso sembra contraddirlo quando parla di “tre isole degne di storia, degne di essere descritte scientificamente” (v. Append., n. 41).
Comunque, possiamo dire che solitamente gli storici, quando han voluto inequivocabilmente precisare il concetto di “descrizione, esposizione, storia”, han fatto ricorso al termine “sungraphè”. Per esempio, la “Sikeliotis sungraphè” di Antioco.
Il passo di Plutarco che accenna alle “empietà” evemeriche non fa che confermare chiaramente la nostra opinione, laddove dice: (v. Append., n. 18). Evidentemente, nell'ultima frase si parla di “nomi... scritti, incisi a caratteri d'oro”; e si allude proprio alla “iscrizione” in questione.
Le superiori affermazioni non hanno, è vero, un valore assoluto, ma sono avvalorate dal fatto incontestabile che la stele aurea del tempio pancheo, vero archivio del paganesimo, rappresenta in effetti lo spunto, la base, l'espediente principe che condiziona la teologia evemerica, e che questa a sua volta costituisce il nucleo centrale del massimo interesse della “Hierà Anagraphè”; come del resto anche i dogmi delle religioni orientali dei Babilonesi, dei Fenici, degli Egiziani trovavano fondamento nei registri dei loro antichissimi templi.
Potrebbe dunque pienamente giustificarsi il titolo nel senso di “Sacra Iscrizione”, cioè lista, registro, catalogo, elenco.
Alla tesi del De Block si associano il Max Müller18 e il Bottiger19.
Primo interrogativo: — Postochè la presunta versione enniana non ci è pervenuta di prima mano, le testimonianze e le escerpzioni che citano il titolo latino lo attribuiscono esplicitamente a Ennio?
Secondo: — Ammesso, per ipotesi, che Ennio abbia tradotto “ad litteram” il romanzo di Evemero, si potrebbe dire lo stesso per il titolo?
Purtroppo dobbiamo cominciare con una pregiudiziale: Ennio (239-169), nonostante la vicinanza nel tempo a Evemero, dovette trovare indubbiamente le medesime difficoltà ermeneutiche; e non ci risulta che disponesse di mezzi particolari per poter meglio scrutare le intenzioni dell'Autore dell'originale.
Ma cerchiamo di rispondere al primo dubbio.
Chi ha frequente occasione di citare in merito Ennio è Lattanzio, per il quale conosciamo la versione latina di Evemero, o probabilmente un rifacimento della prima versione enniana; e si è avuta l'impressione che Lattanzio credesse nel titolo enniano “Sacra Historia”20: Ennius in Sacra Historia... (op. cit., I, 11, 45); in Sacra Historia sic Ennius tradit... (1,11,63); — Sacra vero Historia... testatur... (1, 11, 65); — Nunc quoniam ab iis quae rettuli aliquantum Sacra Historia dissentit... (1, 14, 1).
Dall'autorità di Lattanzio quindi è derivata la opinione dei critici moderni che preferiscon tradurre “anagraphè” con “Storia”. Tra costoro sono Egger, Maury, Kan, Constant, Chassang, Jacoby, ecc.
Occorre pure dire però che non è improbabile l'ipotesi che Lattanzio intenda citare l'opera del traduttore con un'ovvia espressione comune e generica, con una “storia sacra” o con un altro sinonimo, in mancanza della versione autentica latina e del rispettivo titolo, andati perduti dopo un millennio. E non è vero che l'apologista cristiano adoperi sempre la stessa denominazione; tutt'altro. Si leggano i seguenti passi: Quamquam scriptum sit in Historia Sacra... (op. cit., 1, 13, 2); — Ut in Historia Sacra continetur... (1, 17, 10); — Historia vero Sacra testatur... (1, 22, 21).
Ecco che a “Sacra Historia” troviamo alternata “Historia Sacra”. Ebbene, non si può ammettere che si possa citare testualmente un titolo ponendo indifferentemente le parole in un ordine o in un altro. Possiamo dire “nel Poema sacro” come “nel sacro Poema”; ma non diremo “Commedia Divina” invece di “Divina Commedia”, se non raramente e per un motivo particolarissimo.
Ora nella fattispecie il rapporto di quattro a tre non ci deve indurre a credere in un titolo piuttostochè in un altro. Lattanzio stesso sembra che confessi di usare “historia” come un nome comune, quando sopprime “sacra”: Docet eadem Historia, quae dicit... (ibid. 1, 11, 35). Ma v'è di più: In lume modum nobis ex Sacra Scriptione traditum est. (op. cit., 1, 14, 6).
Come si vede, egli è passato all'interpretazione opposta, non deliberatamente a quanto sembra, ma perché non avrà avuto un sicuro titolo latino sottomano; e forse, per aver avuto sentore di quello greco, l'ambiguo “Hierà Anagraphè”, sarà stato travagliato dal nostro stesso dilemma.
— Ma qui indica la “stele vera e propria” — ci ripenserà e si ricrederà il Jacoby21. È sempre un'opinione; lui stesso era stato di opinione contraria22.
Resterebbe un'espressione di S. Agostino: “ut ea docet historia quam vestri etiam sacram vocant” (Ep. 17), che sembra indicativa; ma in realtà non afferma che si tratti del titolo; fa solo capire la consuetudine di una “sacra storia”, per il ricordo e per l'influsso del titolo greco.
Alcuni cominciammo con l'ipotizzare un tono diverso tra la opera originale e la versione enniana, per il diverso atteggiamento psicologico dei rispettivi autori, poichè il romanziere greco ostenta con arte raffinata una viva impressione per la misteriosa e autentica scoperta da cui si partono le fila della composizione; mentre il poeta rudiese considera tutto ciò a freddo, innalzandosi a una visione organica, piatta e sistematica della materia, che alcuni opinano sia stata rimaneggiata e versificata. I diversi punti di vista avrebbero fatto spostare il centro di interesse, per cui Ennio avrà creduto bene di accantonare il “Hierà Anagraphè”, checché significasse, procedendo a una altra intitolazione più adeguata alla sua trattazione e alle sue finalità. D'altronde nessuno degli scrittori latini per nominare quest'opera enniana fa come Lattanzio. M. Terenzio Varrone, ad esempio, lo scrittore più erudito e più diligente di tutta la storia letteraria latina, 350 anni prima ancora di Lattanzio si esprimeva in questi termini: “In Euhemeri libris versis...”23. Perciò il De Block avanza la congettura che il titolo “Sacra Historia” sia stato apposto a qualche riduzione o rifacimento più recente in prosa della versione enniana, e che questa s'intitolasse appunto “EUHEMERUS”, e richiama anche un passo (che nulla ha di probante) di Lattanzio; “Ennius quidem in Euhemero”... (op. cit., 1, 13, 14).
Semmai a sostegno di questa tesi varrebbe dippiù, diremmo, il criterio analogico con l'altra opera filosofica enniana “Epicharmus”, con la quale l'“Euhemerus” fa il paio24.
Comunque, data la limitatissima casistica, non essendosi ancora chiusa la questione, noi, lungi dal volerla risolvere, indicheremo l'opera greca limitandoci al titolo originario “Hierà Anagraphè”, senza arbitrarie interpretazioni preconcette; e quella latina con un comune “sacra storia”25, assolutamente agnostico e imparziale.
Altrove abbiamo parlato della probabile data approssimativa di composizione della “Hierà Anagraphè” (prima del 270) e della località che, basandoci su allusioni di Callimaco, possiamo fissare nella città dí Alessandria, senza escludere l'ipotesi di una precedente stesura a Coo, o meglio alla corte macedone di re Cassandro.
Meno ancora si può dire dello sviluppo, dell'estensione, dell'economia, del testo dell'opera, poichè non ci è pervenuto niente che si possa provatamente autenticare. Noi abbiamo una conoscenza parziale — e non si sa quanta parte sia — del libro di Evemero fino ad oggi, e la dobbiamo a Diodoro Siculo; anzitutto per un prezioso estratto della descrizione evemerica dell'isola di Pancaia pervenutoci direttamente dai V. libro della “Bibliothèke” (41-46); in secondo luogo per una sua sintesi dell'originale andata perduta con tutto il VI. libro che la conteneva, e fortunatamente riportata da Eusebio di Cesarea nel II. capitolo (52-62) della “Evanghelikè Proparaskeuè”, e questa sarebbe una abbastanza fedele esposizione della dottrina evemerica, con una parte introduttiva di Diodoro stesso.
Abbiamo ancora importanti passi dell'originale parafrasati liberamente in latino nell'“Euhemerus sive Sacra Historia” (?) di Ennio e da qui riportati per opera di Lattanzio nel I. libro del Divinae Institutiones (XI, 34-35, 45-46, 63, 65; XIII, 2, 14; XIV, 1-7, 10-12; XVII, 10; XXII, 21-27 ecc.). Altri piccoli frammenti integrativi dei precedenti e notizie attinenti ci hanno tramandato vari autori greci e latini: Ateneo ("Deypnosophistaì”, XIV, 658, E-F); Igino (Poet. Astr., H, 12, 13, 42); Pomponio Festo (310 M); Agostino (Epist., 17); Columella (De re rust., IX, 2); Plinio (Nat. Hist., VII, 197; X, 4) ecc.
Questi ultimi sono di scarsissima importanza o perchè di autenticità estremamente dubbia, oppure perché relativi a passi già compresi nei frammenti maggiori di Diodoro e di Lattanzio.
Conviene ribadire però che non si tratta di veri e propri frammenti più o meno originali, ma più esattamente di testimonianze; perchè dobbiamo ammettere che il testo evemerico per pervenire agli autori surriferiti ha sofferto interpolazioni, espunzioni, traduzioni, parafrasi, rifacimenti, sintesi ecc; e una conferma di ciò è data dal confronto fra Diodoro ed Ennio, e persino tra il V. di Diodoro ed il VI. del medesimo, stralciato da Eusebio, concernenti talvolta gli stessi argomenti. Una parvenza di autenticità si trova nella narrazione del viaggio e nelle descrizioni fisiche, biologiche e antropiche del mondo evemerico, lasciate dette dalla bocca di Evemero stesso in prima persona, quasi fosse una trascrizione “katà lèxin” della “Hierà Anagraphè”, nel V. libro (41); invece l'esposizione della parte dottrinale è condotta direttamente da Diodoro e così lasciata da Eusebio: (v. Append., n. 19).
Da quel che si è detto si può arguire quanto sia difficile il lavoro di reintegrazione, di ricomposizione del materiale frammentario.
Anticamente si è parlato in proposito di un trattato vastissimo che abbracciava “tutti” gli dèi. Oggi, stando alle reliquie del testo e alle veridiche testimonianze disponibili, possiamo fondatamente dimostrare la triplice struttura dell'opera, che risulta di una parte narrativa introduttiva, e della trattazione di una utopia comunistica e di un sistema teologico; e quanto ai personaggi, che siano stati trattati direttamente da Evemero, possiamo elencare: Urano, Crono, Zeus, Era, Atena, Apollo, Artemide, Afrodite, Ermes, Ammone, Demetra, Dioniso, Cadmo, Armonia.
Cicerone — e da lui Minucio Felice (pag. 54, nota) — vorebbe trovarci pure la Cerere eleusina e l'Iside egiziana; ma pare che queste ed altre divinità siano comprese solo nelle opere dei continuatori di Evemero.
Non si comprende bene di quali seri elementi il Bottiger26 sia in possesso per supporre che l'opera di Evemero consti di quattro libri. È un convincimento soggettivamente fondato, privo della base di obiettivi riscontri, perchè fra gli antichi autori troviamo tutt'alpiù un accenno ad un terzo libro: “Euhèmeros en tô trìto tês Hieràs Anagraphès...”27. E la materia di questo terzo libro sembra che si riferisse alle imprese degli eroi, con cui l'opera doveva avviarsi all'epilogo, dopo la trattazione di tutto un sistema gerarchico teologico comprendente gli dèi celesti, i principali dèi terreni, i figli di questi, e concludentesi nella eroicizzazione e nell'apoteosi delle divinità minori.
Meno credito possono trovare poi le congetture di Baehr28 e di altri che vorrebbero addirittura nove libri.
In mancanza di altri dati più probabili, si può stabilire — con qualche riserva — che i libri erano tre: il primo comprendeva la parte preliminare, i viaggi e la geografia panchea, le storie di Urano, di Crono, di Zeus e dei collaterali; il secondo quelle dei figli di Zeus: Apollo, Artemide (scritte queste da Hermes), Atena, Afrodite, e delle altre divinità del paganesimo ellenico; nel terzo si parlava di Dadino e forse anche di dèi stranieri: Zeus Kasios di Siria, il dio dei Giudei, Baal di Babilonia, Ammone di Libia ecc.29.
Questi ultimi, non compresi nella iscrizione di Panchea, potevano inserirsi nell'argomento per uno dei tanti accorgimenti della tecnica narrativa di Evemero: ne sono un esempio i cinque viaggi di Zeus attraverso la terra, per cui viene a contatto con le varie istituzioni religiose locali.
Quasi tutti i frammenti e le citazioni reperiate appartengono al primo libro, ad eccezione di qualche accenno a Minerva, a Venere, a Ega (libro secondo), a Cadmo e ad Ammone.
Si deve inoltre credere che altre questioni dovette Evemero trattare, come dimostrano i seguenti passi di vari autori, allusivi ad argomenti di vario interesse:
“Euhèmeros... ou parèrgos hemòn (scil. di noi Giudei) emnemoneùkasin” (gius. Flav., C. Ap., I, 216);
— “Qui de iis (scil. delle piramidi) scripserint sunt Herodotus, Euhemerus...” (Plinio, N.H., XXXVI, 79);
— “Auri metalla et flaturam Cadmus Phoenix ad Pangaeum montem; ut alii Thoas aut Aeacus in Panchaia” (id., VII, 197);
— “Euhemerus autem Venerem primam ait sidera constituisse et Mercurio demonstrasse” (Igino, Poet. Astr., II, 42)
— “«Sus Minervam» in proverbio est, ubi quis id docet alterum, cuius ipse inscius est. Quam rem in medio, quod aiunt, positani Varro et Euhemerus ineptis mythis involvere maluerunt, quam simpliciter referre” (Sesto Pompeo Pesto 310 M); (v. Append., nn. 20 e 21).
La “Hierà Anagraphè” penetrò nella veste latina tra i Romani all'inizio del secondo secolo a.C., e si diffuse celermente nei decenni successivi, quando il genio latino, pratico e positivo, accogliendo e assimilando la filosofia greca, orientava decisamente il pensiero alla soluzione dei problemi etici e religiosi.
Non è dato tuttavia di sapere esattamente a quali e quanti vada il merito di tale volgarizzazione del pensiero evemerico. Cicerone doveva conoscerne parecchie di tradizioni latine ricavate più o meno direttamente dal greco di Evemero, come si deduce dal noto passo del “De natura Deorum”: “Quae ratio maxime ab Euhemero est, quem noster et interpretatus et secutus est praeter ceteros Ennius” (I, XLII).
Per la verità a noi non ne è pervenuta alcuna di interpretazioni o versioni, all'infuori di quelle di Ennio e di Lattanzio; non solo, ma non ci è stato tramandato alcun nome di traduttore latino. D'altra parte il “praeter ceteros” ciceroniano non possiamo ritenerlo casuale, perchè è fuori discussione la serietà dell'eccelso scrittore, la sua cultura, il suo continuo aggiornamento.
E poi non si trattava di un'opera qualsiasi, sulla quale si potessero spacciare gratuite e incontrollabili affermazioni. Era un'opera che per certi aspetti (specialmente negli ambienti scolastici) doveva essere per importanza a Roma non molto lontana dalla Odissea: questa infatti rappresentava — e rappresenta — la prima opera di poesia greca tradotta in latino (“Odysìa”), così come la “Hierà Anagraphè” fu la prima opera in prosa. Autore della versione del poema omerico, nell'italico metro saturnio fu L. Andronico (280-200 c.a.C.), il più antico poeta e didatta latino; del romanzo evemerico si volle invece occupare Q. Ennio (239-169 a.C.) di Rudie, l'Omero romano, il precursore di Virgilio, il “pater” della letteratura latina, come era considerato universalmente fino ai tempi di Orazio e Properzio30. Pertanto non poteva Cicerone errare in questioni bibliografiche in cui ci fosse interessato il “padre” Ennio; e non poteva ignorare se la felice prova di Ennio avesse avuto, o meno, seguito negli imitatori, più che mai possibili, vuoi perchè il rude arcaismo della sua lingua nella età cesariana poteva suggerire di trovare una veste più moderna a una opera di indiscutibile valore artistico che era ormai di fondamentale interesse in quel tempo in cui era già in atto la crisi della religione politeistica romana, vuoi perchè una personalità poderosa del calibro di Ennio fa sempre “scuola”.
Tuttavia, tre secoli dopo, dei traduttori conosciuti da Cicerone non doveva rimanere alcuna traccia, almeno per Lattanzio; tanto che questi, necessitandogli l'avallo di Cicerone per stabilire la immediattezza del rapporto Evemerico-Ennio e non trovando di meglio che riportare quasi “ad litteram” il giudizio del sommo oratore, si fece lecito di espungere ipso facto il “praeter ceteros” dal passo surriferito: “Hanc historiam et interpretatus est Ennius et secutus”31; non certo con l'intendimento di apportare un emendamento, bensì un riadattamento del testo ai nuovi tempi e alle nuove risultanze bibliografiche.
Già a proposito delle intitolazioni dell'originale greco e della versione di Ennio si è accennato che nemmeno quest'ultima ci è pervenuta direttamente, se non tramite Lattanzio. È nata quindi la questione intorno alla autenticità dei passi enniani riportati dall'apologista cristiano.
Anche qui i pareri sono discordi. Il Krahner in special modo32 oppone un reciso giudizio negativo, pur senza giustificare plausibilmente la sua posizione.
Indubbiamente Lattanzio aveva tutto l'interesse di mantenersi il più vicino possibile all'originale (e quindi perlomeno ad Ennio) per valorizzare le sue argomentazioni apologetiche; ed effettivamente tiene spesso ad affermare che “...haec Ennii verba sunt”33 . Quanto alla derivazione da Diodoro (sostenuta dal Krahner), dobbiamo escluderla per il semplice motivo che Diodoro ignora molti episodi e particolari forniti dal Divinae Institutiones.
Ma bastano semplici considerazioni linguistiche e stilistiche per accertare che Lattanzio non solo non ebbe la possibilità di attingere alla “Hierà Anagraphè” di Evemero, ma non ebbe in mano neppure la “sacra storia” di Ennio; perchè, nonostante qualche residua traccia di frasari enniani, il latino elegante e forbito del raffinato maestro di eloquenza è molto lontano dalla lingua arcaica del rudiese. Se pensiamo che già ai tempi di Augusto le teorie razionalistiche andavano in voga e il sistema di interpretazione evemerico, così bene applicabile all'antropomorfismo del paganesimo romano e così opportuno, aveva la massima notorietà che comportava il volgarizzamento dell'opera letteraria in traduzioni, riduzioni, rifacimenti parziali, parafrasi, adattamenti ecc., derivanti tutti dalla versione-principe di Ennio, probabilmente per il tramite di Terenzio Varrone, non possiamo che pervenire alla stessa conclusione del DE Block e del Némethy34: che Lattanzio non ebbe altro a disposizione che qualcuno di questi opuscoli; e che forse merita gli si accordi la attenuante della buona fede quando insiste sulla autenticità dei brani riportati; buona fede fondata sulla convinzione (per non far torto alla sua capacità critica) che disponesse di qualche fedele versione in prosa di una presunta “sacra storia” in versi enniani. Epperciò sussiste una certa riserva mentale.
Non si deve perdere di vista quello che era lo scopo di Lattanzio inteso a dimostrare tesi teologiche in lotta contro il paganesimo si deve ritenere quindi che i passi enniani autentici — o di seconda mano — concernenti la storia degli dèi, cioè la parte essenziale dell'opera evemerica, sono utilizzati al massimo; mentre il resto, che non serve all'assunto dell'apologista cristiano, è riassunto o addirittura trascurato e saltato, con interpretazioni spesso soggettive e con commessure non sempre perfettamente combacianti, come provano le ripetizioni stucchevoli nel passo riportato a pag. 76.
La inesistenza di un immediato rapporto Lattanzio-Ennio, con grave pregiudizio della fedeltà testuale, è preclusiva naturalmente di ulteriori raffronti fra Ennio e Lattanzio. Possiamo benissimo dire — in base al contenuto del “Div. Instit” — che Ennio, in ispecie nella parte più strettamente teogonica e teologica, integra Diodoro (o viceversa, se abbiamo riguardo alla anteriorità di Ennio); Diodoro infatti ha tracciato solo un breve compendio della storia degli dèi e una genealogia schematica.
Possiamo affermare che Ennio integra addirittura Evemero, laddove accenna ad antichi numi indigeti laziali o a deità olimpiche adottate e adattate a Roma oppure a eroi delle saghe eroiche risalenti all'età antelucana della storia romana. Vedansi in proposito le figure di Crono, italicizzato in Saturno, di Opi e di Plutone35, e l'inserimento del personaggio di Enea36.
Tali differenze sostanziali siamo in grado di stabilirle; ma non possiamo stabilire altro con certezza: nemmeno se Ennio ci ha reso la “Hierà Anagraphè” in prosa oppure in versi. Hanno un bel dire i vari Valile, Nèmethy, Ten Brink... di essere riusciti a rintracciare e ricomporre molti versi della ipotetica traduzione versificata di Ennio. Essi hanno esperito le loro lambiccate ricerche sul testo di Lattanzio, derivato a sua volta da rifacimenti o riduzioni di Ennio non senza personali intromissioni, sia pure involontarie37; senza contare che si contraddicono tutti coi più diversi ritmi che pretendono di aver identificato: chi il dattilico, chi il giambico trocaico, chi i settenari...
Non è nemmeno sicuro il criterio analogico di quelli (Vahlen ecc.) che classificano la “sacra storia” tra le opere poetiche unicamente perchè tutte poetiche sarebbero le altre opere enniane.
Innanzitutto le “Saturae” per l'antica natura stessa e per definizione etimologica (miscellanea) comprendono poesie e prose; non sono infatti intese ancora, come poi da Lucilio e da Orazio, quali poesie satiriche. E seppure la “sacra storia” si dovesse considerare non appartenente alla raccolta, resterebbe ugualmente il precedente di opere enniane in prosa, sia pure parzialmente.
Non potremmo autorizzarci a generalizzare neppure se si assodasse la inesistenza di prose enniane a noi pervenute, perchè non si può a priori escludere che vengano alla luce altre opere della letteratura latina; non si può misconoscere che prosatori di tutte le letterature antiche e moderne hanno lasciato un'opera poetica, e che poeti tutti, si può dire — si sono cimentati — in un'opera in prosa.
Se volessimo procedere per analogie, dovremmo allora concludere nel modo seguente: come è in versi l'“Epicharmus”. che tratta la dottrina e traduce squarci poetico-filosofici di un poeta (l'omonimo poeta siceliota); come è in versi l'“Hedyphagetica”, modellato anch'esso su un originale in versi (un poema in esametri); come è in versi il “Soia”, derivato pure da un poeta... così deve essere in prosa la “sacra storia” perchè il suo originale è in prosa.
È comune la traduzione in prosa di un originale in versi; ma non lo è altrettanto il caso inverso.
Continuando con tale procedimento, dobbiamo ammettere che, se tutte le altre opere minori sono molto liberamente e personalisticamente parafrasate, altrettanto deve essere la “sacra storia”; le infedeltà di questa infatti nei confronti dell'originale sono provate dalle interpolazioni a base di elementi mitologici laziali oltre che dalle discrepanze con Diodoro, laddove, s'intende, è più attendibile la fedeltà di quest'ultimo.
In Ennio dobbiamo poi esaminare il criterio del traduttore alla luce delle finalità perseguite. Livio Andronico, nonostante le insormontabili difficoltà create dall'incompatibilità tra l'agile esametro dattilico e l'impacciato saturnio, tra l'armoniosa lingua greca e l'inadeguata espressività del suo latino arcaico, pure cercò di seguire passo passo il testo odisseico di Omero; appunto perchè egli si prefiggeva di iniziare i discepoli e i concittadini all'incanto della poesia omerica; e non poteva quindi apportare atetesi, interpolazioni, interpretazioni soggettive.
In Ennio invece c'è una esigenza culturale filellenica, filosofico-religiosa.
Egli è l'iniziatore della letteratura latina38, nel senso che per la sua mediazione tra l'Ellenismo e Roma, sua patria adottiva, s'iniziò quel processo di sintesi in cuì il genio romano, nonostante l'avversione equilibratrice del nazionalismo misoneista del Censore e dei numerosi “laudatores temporis atti”, ebbe la sua più gloriosa espressione nella estrinsecazione della suprema virtù di conquista: la conquista degli spiriti.
Perché in realtà Roma — contrariamente a quanto vuol significare l'oraziano “Graecia capta ferum victorem cepit” — conquista prima la terra, quindi i prodotti intellettuali della speculazione ellenica col loro spirito universale, per assimilarli omogeneizzandoli nella unità dell'Impero. Il Rudiese stèsso è stato illustre preda di tanto dominio spirituale.
Il “pater” Ennius non è però solamente l'epico celebratore della nascita di Roma, quale appare negli Annali. Oriundo dalla bassa penisola italica, e perciò imbevuto dello spirito orfico e pitagorico, è portato ad interpretare una inquietudine generale, una incontenibile ansia di evadere dalla vacuità della tradizionale religione romana. Così, senza dare il suo assenso ad alcun sistema religioso, egli, nel più impassibile scetticismo verso tutti i vieti anacronistici politeismi, inizia i lettori della Tragedie e delle Storie al misticismo naturalistico empedocleo e pitagoreo39; e nelle opere minori, ispirate dalla produzione ellenistica italiota e siceliota, allinea spregiudicatamente le varie teorie interpretative dei miti, da quelli allegorico-cosmici, desunti dalle commedie pitagoreggianti del mordace Epicarmo40, a quelli illuministici espressi sistematicamente dal più cospicuo rappresentante del romanzo ellenistico: Evemero.
Nelle letterature antiche — in ispecie nella greca e nella romana — ricorrono assai frequenti e familiari gli accenni alla favolosa Pancaia. Poeti e annalisti, storiografi e filosofi trovano spontaneo riferirsi quasi proverbialmente alla lontana e misteriosa isola, al regno della felicità, al paese della fertilità incantata, confondendone spesso il nome, o sostituendolo, con quello della famosa Arabia, come nella nota celebrazione virgiliana della Terra italica, nel II. delle Georgiche, dove con felici sineddochi si allude ai più fortunati paesi del mondo
“Sed neque Medorum silvae ditissima terra,
nec pulcher Ganges atque curo turbidus Hermus
laudibus Italiae certent, non Bactra neque Indi
totaque turiferis PANCHAIA pinguis harenis...”
(Georg. II, 136-139)
In ciò si può vedere la prova del successo che registrò immediatamente la “Hierà Anagraphè” che, diffusasi in tutto il mondo ellenistico, orientale e occidentale, non mancò di suscitare una pletorica schiera di imitatori e di rendere celeberrimo il nome dell'Autore. Ma l'Autore, come suole accadere agli uomini eminenti, diventò immediatamente facile bersaglio delle aggressioni e delle denigrazioni dei vari Callimaco, Eratostene, Polibio, Strabone, Plutarco ecc.
Fu un successo artistico-letterario? Fu un successo personale o della dottrina stessa che trovava piena rispondenza nella maturità dei tempi?
Quel che ci è pervenuto del testo è sufficiente per farci apprezzare i notevoli pregi artistici. Peraltro nell'opera di Evemero tutta l'azione converge alla famosa stele, alla nuova scoperta teologica; e la diffusione dell'Evemerismo, che non si estese al volgo (cui non era generalmente accessibile il testo), si verificò innanzitutto nella cerchia dei mitologi, dei sofisti. Costoro nello spregiudicato sistema evemerico di ermeneutica intravvidero il manifesto della moderna teoria teologica e ne usarono per accentuare il sovvertimento, già in atto, di tradizioni antichissime; per annullare nella gelida indagine razionalistica l'opera secolare dello spirito creatore, del mitopoetico genio divinatore degli artisti ellenici.
Eccolo finalmente il colpo di grazia da inferire alla tradizionale cosmo-teogonia, per travolgere la religione del popolo già scossa e scardinata dalla miscredenza e dal malcostume!
Fu così che nell'ondata di generale irreligiosità e di scetticismo i più fedeli devoti delle varie divinità, gli ostinati corifei del conservatorismo dogmatico vollero individuare tra i più pericolosi nemici di tutte le religioni l'Evemerismo, ingaggiando contro di esso una lotta senza quartiere.
Le innocue favole di Teopompo, di Ecateo, di Abdera, di Jambulo, e le fantasticherie di Platone avevano lasciato tutti indifferenti; ma non si poterono sottovalutare le sottili dottrine del romanziere messenio, che realmente andava rivelandosi promotore di una vastissima corrente umanizzatrice dell'antico Olimpo politeistico antropomorfico dei Greci e andava irradiando in modo determinante la sua influenza sull'antico mondo dei miti e delle religioni del quale tuttavia lasciava immune e confermava una altissima sfera di divinità pribigenie misteriose ed eterne.
Così si giustificava lo stato d'animo di Callimaco, mentre insultava Evemero già coinvolto fra i più famigerati “atei” di tutti i tempi (v. Append., n. 22).
Da notare che Diagora di Melos e Teodoro di Cirene avevano scandalizzato gli antichi per aver appena attaccato qualche lato formale della religione pagana, per cui ciascuno dei due era stato riconosciuto e consegnato alla Storia col soprannome “l'Ateo”. Non diversa sorte poteva toccare al Nostro nel severo giudizio di quei tempi. Si leggano, ad esempio, Eliano, Clemente Alessandro e Sesto Empirico (v. Append., nn. 23, 24 e 25).
Anzi, dall'ordine con cui. gli “atei” sono in essi citati, si deduce facilmente che Evemero è divenuto il capolista dei sovvertitori della religione, superlativamente “ateo”: come lo definì S. Teofilo di Antiochia (v. Append., n. 26).
Non mancarono, com'era prevedibile, coloro che diedero l'allarme tentando di opporsi a quella che appariva una abominevole dottrina rivoluzionaria: e il romanzo esplosivo fu coperto di insulti di schermo, di ridicolo, nell'assurdo tentativo di bloccare un processo inevitabile; proprio quando esso aveva ricevuto il formidabile impulso di Alessandro, il nuovo uomo-divinizzato, ai piedi del quale in rigorosa proschinesi avevano prestato atto di latria tutti i popoli.
Non era da poco tempo che il mondo religioso andava progressivamente depauperandosi dei suoi divini personaggi, accolti mano a mano indiscriminatamente dalla Storia: questa di conseguenza ne usciva sempre più manomessa ed inquinata nelle sue origini. L'Evemerismo pertanto era seminato ed allignava in un terreno favorevolissimo, preceduto e preannunciato quasi da spregiudicati filosofi che in un certo senso possono essere considerati precursori di Evemero; beninteso, con molta approssimazione, inquantochè i vari Diagora (v. Append., n. 27), Ecateo di Mileto, Erodoto, Teodoro41 e lo storico Eforo (tutti, eccetto l'ultimo, del V. secolo) o gettavano il discredito sulle varie forme culturali e sugli apparati liturgici42, oppure, se si spingevano a manifestare la loro discredenza dogmatica, si limitavano nelle umanizzazioni solo agli eroi secondari dei miti religiosi, analogamente alle posteriori interpretazioni storiche dell'eclettismo stoico che avallerà l'ipotesi di Bacco, di Ercole ecc., quali ex uomini straordinari. Del, resto, gli dèi principali, Zeus, Hera, Afrodite, Atena, dai quali è precipuamente costituito l'Olimpo, non sono compromessi per gli speculatori razionalisti, restando provvisoriamente illesi nella loro misteriosa e ancora indiscussa supremazia divina.
È in questo che possiamo considerare originale la teoria evemerica, come sistema che nega il carattere soprannaturale e il principio divino all'Olimpo ellenico, completando “ab imis” la demolizione di tutta l'impalcatura della teologia antropomorfica, travolgendo i corrosi pilastri dei più venerabili e invulnerabili numi con una audace intuizione espressa e messa in atto attraverso un ritrovato artistico già in voga, mediante una forma letteraria che meglio d'ogni altra armonizzava spontaneamente coi gusti dei lettori contemporanei: il romanzo.
Prescindendo dalle imitazioni letterarie, riscontriiamo un seguito numerosissimo di mitografi e teologi che prendono dal Nostro in prestito il sistema interpretativo e lo applicano alle più disparate deità, anche a quèlle esotiche, ravvicinate intanto da Alessandro e acclimatatesi nell'accomodante sincretismo della religione ellenica. Per citare i principali, diremo di Denys, che scrisse “Argonautika”, comprendente probabilmente tre narrazioni tra cui una “Argonautica” propriamente detta e una “Storia delle Amazzoni di Libia”, tutte attribuitegli da Diodoro43. Dell'umanizzazione di Dioniso si occuparono i romanzi di Dinarco e Cefalione. Altro romanzo d'Ignoto, di cui ci dà notizie e brani testuali Diodoro, narra la storia di uomini deificati di Creta: Crono, Iperione, Poseidone, Ade, Demetra ecc.
Il sistema concepito e volgarizzato da Evemero, parimenti adoperato da Leone di Pella per gli dèi d'Egitto, rivelati quali ex-re e principi44, e da Filone di Biblos per ammodernare la sua religione fenicia (questi adoperò pure l'artifizio del ritrovamento della stele), varcò i confini dei popoli semitici e si estese persino nella lontana India dove il mito fu rimpiazzato dal fatto storico.
Non poteva finalmente Roma, “rendez vous” di tutte le dottrine e di tutte le sette, andar esente dagli influssi evemeristici che invadevano l'oriente e l'occidente.
La religione di Roma originariamente trovava la sua ragion d'essere nell'appagamento dei bisogni di un popolo dedito all'agricoltura il cui lavoro è condizionato dalle potenze esteriori, atmosferiche e telluriche. Si era costituita, pertanto fondata su un inconsistente substrato di carattere animistico e successivamente naturistico, per cui nella prima ideazione si erano personificate Forze preposte ai singoli atti della vita (Lucina, Saturno, Messor, Termino ecc.) e gli aspetti della natura, identificati in grossolane divinità astrali, agresti e pastorali (Juppiter, Marte, Diana, Nettuno, Vesta, Vulcano ecc.) oriunde dalle terre degli Etruschi e ancor più dei Latini, alle quali mano a mano si erano sovrapposti i “novensides” (o “novensiles”), cioè gli eroi divinizzati; finchè, preceduta ai tempi della dinastia etrusca dalla introduzione di Apollo cumano, di Ermete (496) e della triade Demetra-Dioniso-Core (496) latinizzati in Cerere-Libero-Libera, non si era effettuata dopo le guerre puniche l'adozione in massa degli dèi ellenici destinati per contaminazione letteraria ad essere assimilati e assorbiti tutti nei numi indigeti con la complicità talvolta di pseudo-etimologie.
Questi stessi dèi ellenici però nelle terre originarie avevano già offerto facile bersaglio al razionalismo evemerico, e venendo a rifugiarsi a Roma dovevano andar soggetti alla medesima sorte, coinvolgendovi gli indigeti.
Il clima infatti nella Capitale si andava rapidamente mutando a loro sfavore dopo la conquista di tutta la Magna Graecia, mano a mano che maturava il completamento storico della Romanità, mentre la sintesi ivi realizzantesi delle espressioni della vita mediterranea si caratterizzava dallo spirito critico, dalla scepsi, dal dogmatismo negativo del tardo platonismo della cosiddetta Nuova Accademia, per cui inevitabilmente gli elementi primitivi della religione divenivano privi di significato, e l'antropomorfismo sviluppantesi sotto l'influsso dell'arte plastica grecizzante, era abbandonato alla mercè dell'Evemerismo che non aveva tardato ad arrivare in Italia. Il libro di Evemero infatti aveva fatto dignitosamente il suo ingresso a Roma tradotto e introdotto da Ennio, e valorizzato dal nome autorevole di questi; e i teologi evemeristi già si ambientavano e si diffondevano agevolmente, impegnando i massimi esponenti della cultura, Varrone, Cicerone, Cornelio Nepote, Cassio Severo ecc., ad occuparsi con estremo interesse della loro dottrina.
Il “De Natura Deorum” basta da solo per puntualizzare fedelmente il momento critico del pensiero religioso negli ultimi decenni della repubblica. Nei tre libri dell'opera vi è attentamente esaminata la soluzione teologica degli storici, che attraverso la perfezione degli esseri dell'universo pervengono all'esistenza degli dèi identificati nelle intelligenze motrici dell'universo stesso; vi sono ascoltati gli epicurei, che prosciolgono gli uomini dalle preoccupazioni e dal vano terrore della “religio”45 verso incerte divinità, lontane e insensibili: e sullo sfondo Cicerone, interprete degli spiriti più intransigenti che credono nel valore supremo della legge morale, della virtù, della provvidenza divina, dell'immortalità dell'anima, appare perplesso ed allarmato per il generale scadimento del sentimento religioso, per il dilagare del materialismo epicureo, che con Lucrezio cancella ogni residua credenza nella esistenza degli dèi raggiunti e vinti dalla ragione umana46; per il diffondersii dei riti e dei culti più strani nell'Urbe. Ed è una apprensione la sua che nasce più che nell'uomo nel patriota e che Machiavelli quindici secoli dopo parafraserà con le seguenti parole: “Quelli principi e quelle repubbliche le quali si vogliono mantenere incorrotte hanno, sopra ogni altra cosa, a mantenere incorrotte le cerimonie della religione e tenerle sempre nella loro venerazione”47.
D'altra parte il filosofo-oratore non può dissimulare l'insanabile contrasto tra l'antica fede dei padri, da lui accettata, e le sue convinzioni filosofiche; tra i riti tradizionali e la razionale esigenza giustificatrice; a tal punto che nei pubblici discorsi fa rigorose professioni di fede negli dèi ufficiali, mentre nelle opere filosofiche si mostra imbarazzato quando ricorre a vaghe e inconsistenti definizioni48, e arriva a stigmatizzare, per bocca del pontefice C. Aurelio Cotta49, l'eccessivo sovraffollamento dell'Olimpo tradizionale50, trovandone spiegazioni razionalistiche a base naturalistica o addirittura tratte dall'Evemerismo.
Non si deve tuttavia credere che l'eclettico filosofo condivida l'Evemerismo nelle sue estreme conseguenze. Egli combatte soltanto la superstizione51 (“superstitio” — ciò che è aldisopra dei doveri verso dio), e a condizione che, eliminata questa, non ci si inoltri a distruggere la religione popolare. È questa religione che si deve interiorizzare e spiritualizzare; è con l'introduzione del nuovo spirito religoso che si deve superare la purificazione rituale per giungere a quella morale. E questa era una esigenza sentita nelle classi più colte, dagli intelletti più elevati, cui ripugnava aderire a costumanze e riti terribilmente assurdi e irrazionali. Cicerone stesso indovinava sotto la ieratica imperturbabilità dei sacerdoti di Roma che essi dovevano trattenere a stento le risa nell'esercizio delle tradizionali funzioni: Mirabile videtur quod non rideat haruspex cum haruspicem viderit52.
Perdendo credito, non poteva non demitizzarsi la religione, sebbene fosse estremamente povera di sviluppi mitologici e di teologia, perchè, essendo originariamente agreste, senza l'impulso della fantasia coloritrice propria di gente trafficante e girovaga, non poteva arrichirsi di forme figurative, amenochè queste non fossero importate dalla mitologia greca. La religione romana sostanzialmente più che dottrinale è — e tende ad esserlo sempre più — cultuale e sociale, ricca cioè di precisazioni etico-giuridiche regolatrici dei rapporti tra uomo e uomo e tra uomo e dio. Non possiede un patrimonio dogmatico, nè un contenuto cosmogonico o leggendario preesistente all'apparizione dello Stato romano; lo “jus divinum” è inteso e si esaurisce nell'adempimento di un freddo rituale, di un esteriore cerimoniale, e col passar del tempo si scopre che della religione non è rimasto che un espediente politico, un inganno patrocinato dallo statio. Perciò quando si cominciarono ad avvertire fin dai tempi di Ennio i primi sintomi della decadenza religiosa si tentò di dare, iniziativa specialmente del Rudiese, un nuovo substrato alla moralità romana ricorrendo al misticismo pitagorico e ateo evemeristico.
Allora i nuovi atteggiamenti culturali delle classi colte, caratterizzati dalle teorie evemeristiche, stoiche e neopitagoriche che, e i culti orientali, cui si volge il popolo53, generano nella vecchia religione una caotica anarchia col conseguente abbandono dei templi, cui poi Augusto cercherà di porre riparo con un complesso programma rinnovatore inserito nel quadro della restaurazione generale dell'Impero.
Tra i collaboratori dell'imperatore in quest'opera rigeneratrice Virgilio occupa un posto preminente. E proprio in Virgilio possiamo vedere quanto l'Evemerismo avesse imbevuto e corroso la misera teologia dei Latini. Tra le figure più notevoli prendiamo quella di Saturno — Cronos, divinità meramente animistica, trasformata nel vecchio re detronizzato dal figlio Giove e costretto a trasmigrare nel Lazio per diventare capostipite della stirpe latina:
Primus ab aetherio venit Saturnus Olympo
arma Jovis fugiens et regnis exul ademptis.
Is genus indocile ac dispersurn montibus altis
composuit legesque dedit, Latiumque vocari
maluit, his quoniam latuisset tutus in oris.
(Aen., VIII, 319-323)
Per ravvisare il rapporto di derivazione, si confronti Evemero attraverso Ennio: “Post haec deinde Saturno sortem datam, ut caveret ne filius eum regno expelleret; illum elevandae sortis atque effugiendi periculi gratia insidiatum Jovi, ut eum necaret; Jovem cognitis insidiis regnum sibi denuo vindicasse ac fugasse Saturnum. (12) Qui cum iactatus esset per omnes terras persequentibus armatis, quos ad eum comprehendendum vel ne-eandum Juppiter míserat, vix in Italia locum in quo lateret invenit” (Latt., op. cit., I, 14, 11-12).
Virgilio cerca di autenticare la sua versione con una falsa etimologia, accreditata anche da Ovidio: “Dieta quo qua est Latium terra latente deo” (Fasti, I, 238). Molto probabilmente invece “Latium” deriva da “platium” - pianura. (cfr. il greco "platùs").
E ancora:
Rex cerva Latinus et urbes
jam senior longa placidas in pace regebat.
Hunc Fauno et Nympha genitum Laurente Marica
accipimus; Fauna Picus patir; isque parentem
te, Saturne, refert; te sanguinis ultimus auctor.
(Ibid., VII, 45-49).
Nella discendenza di Saturno, attraverso Picus, entra a far parte, come si è visto, l'antichissimo dio pastorale laziale Faunus Lupercus. Inoltre il dio Janus, anch'esso originariamente animistico, è restituito come monarca regnante sul Gianicolo (eponimia) e ospite di Saturno profugo. Quirino ancora, già dio sabino, è identificato con Romolo, assurto dopo morte in cielo... E così via; le divinità indigeti e le personificazioni mitiche andarono acquistando caratteri umani assimilando nel contempo le qualità stesse peculiari della razza romana.
Si doveva rivelare però un processo perfettamente reversibile, inquantochè riportando un dio all'umanità si stabiliva un precedente per restituire un uomo alla divinità54.
Ed ecco che in tempi storici, nel momento del trapasso dalla repubblica all'impero, il vincitore di Farsalo, il “divus Julius”, inizia tra i Romani la nuova serie degli uomini divinizzati: “Caesarem, qui primus divinos honores meruit et divus appellatus est”55; con Augusto56 l'apoteosi dell'imperatore (consecratio) diventa di prammatica. nell'occidente: egli, deificato ancora vivente, entra dopo la morte a far parte del consesso degli dèi, ed a lui son dedicati immediatamente templi e collegi sacerdotali a Roma, nella Penisola e nelle più lontane provincie: “Decrevere Asiae urbes templum Tiberio matrigne eius”57; e si finisce poi col degenerare nello abuso: “Templa... etiam proconsulibus decerni solere”58.
È naturale che la deificazione con la successiva apoteosi degli imperatori romani, sia un fatto complesso, concorrendo a determinarlo sinergeticamente parecchi fattori storici. Si potrebbe richiamare il culto dei morti, considerati quasi divini (“Di Manes”), e ancor più quello prestato al Genio del Paterfamilias, collocato nel Lararium tra le divinità tutelari della Gens; si può ascrivere il fenomeno anche ai contatti con l'Egitto, dove alla base della sovranità era la credenza nella discendenza divina; con l'Oriente ellenistico e con la Grecia, dove Alessandro Magno, che aveva introdotto la proschinesi, aveva esteso l'adorazione del sovrano59; non si esclude nemmeno il motivo di opportunismo politico.
Tuttavia non si può misconoscere tra le componenti la preponderanza della forza del movimento evemeristico, perchè non si può attribuire ad altra dottrina se non a quella che derivava gli dèi antropomorfici da ex-uomini eminenti per regalità o per virtù l'impulso all'attuazione del medesimo opposto processo nei riguardi del monarca romano assurto nell'epoca imperiale all'apice della potenza e della gloria, in analoga posizione coi sovrani della “Hierà Anagraphe”.
L'interesse e l'attualità dell'Evemerismo ritornavano vigorosamente in concomitanza con la diffusione del Cristianesimo fra i popoli pagani. Il nascente fervore dei primi proseliti cristiani, i primi precetti religiosi, le prime esegesi bibliche e dogmatiche erano oggetto delle opere catechetiche, pastorali, omiletiche dei Padri Apostolici del II secolo (Clemente Romano, Ignazio di Antiochia ecc.). Ma nello scorcio del secolo si avviava decisamente una nuova letteratura al servizio della giovane religione; una letteratura dal carattere polemico, aggressivo, dall'intento spiccatamente apologetico, che, rinfocolata dapprima nelle varie scuole teologiche ellenistiche di Antiochia e di Alessandria, migrava quindi verso l'Africa proconsolare romana e direttamente nell'Urbe, nel cuore dell'Impero; in modo che, mentre andava illanguidendo e smorzandosi la vecchia gloriosa letteratura latina, quella la soppiantava trionfalmente.
Gli apologisti (Teofilo, Clemente Alessandrino, Arnobio, Lattanzio son quelli nei quali ci siamo imbattuti) prima di iniziare la lotta sul fronte delle sette gnostiche o manichee, dovettero smantellare gli ultimi pregiudizi delle religioni politeistiche e le ultime resistenze delle filosofie pagane, per confutare le menzogne degli increduli e rintuzzare gli attacchi dei persecutori. Ora sul fronte delle religioni antropomorfiche (in ispecial modo contro gli dèi dell'impero) una delle armi sfoderate dagli apologisti fu appunto l'Evemerismo.
Evemero, che era stato imputato della rovina della religione nazionale, divenne il più grande alleato degli scrittori cristiani, dal quale fu considerato il filosofo che più d'ogni altro comprese la falsità di quelle credenze superstiziose e che arrivò quasi ad intuire la verità, come si spinse a dire Clemente Alessandrino (v. Append., n. 24).
Era ovvio che Clemente, Arnobio, Lattanzio e Agostino sfruttassero la dottrina di Evemero che faceva loro assai comodo; questi aveva già infirmato la logica degli antichi mitologemi, aveva tolto la maschera agli dèi spogliandoli della divinità, e facilitava enormemente il compito agli ecclesiastici che dovevano farsi largo nel mondo pagano.
Non sapevano però essi di propinare un potente veleno che non avrebbe mancato di far sentiré la sua virulenza anche su chi inconsicamente l'aveva manipolato. Infatti, cessato il mordente delle polemiche degli apologisti cristiani, non tramontò l'evemerismo; ma, lasciato in ombra nei tempi del misticismo dommatico medioevale e del naturalismo paganeggiante rinascimentale, venne rilanciato dai razionalisti e dagli illuministi del diciassettesimo e diciottesimo secolo, quando fu organizzata e ingaggiata contro la religione cristiana una delle lotte più accanite che ricordi la storia. Il vento del nuovo libero pensiero era spirato dall'Inghilterra e dalla Germania e andava impazzando per le contrade della Francia, senza risparmiare l'Italia. I canoni metodici dell'empirismo baconiano e il dubbio critico di Cartesio avevan fatto intravvedere una nuova strada alle correnti del pensiero che, maturando lentamente attraverso il materialismo di Hobbes e l'idealismo di Berkeley, dovevano sboccare inevitabilmente in un universale scetticismo che prese posizione contro il cristianesimo, nel momento in cui gli illuministi cominciavano a sottoporre a revisione critica ogni vecchio apriorismo. Nuovi principi rivoluzionari dilagavano nella filosofia, nell'etica, nella esegesi e nella teologia; l'avversione contro la religione, manifestatasi in precedenza contro questo o quel dogma, degenerava ora per l'Europa in un irremediabile odio, sistematico e integrale, che negava e distruggeva violentemente tutto intero il soprannaturale.
È così che in Inghilterra il Toland diffonde il suo deismo; Woolston chiama “allegorie” i fatti taumaturgici dello Evangelo; mentre in Francia, favorita dalla rilassatezza dei costumi, dietro esempio della immoralità scandalosa della corte, sorge e si diffonde la moderna incredulità che, sotto l'impulso del suo più grande banditore il beffardo Voltaire, brucia le tappe e raggiunge il parossimo tra gli orrori della grande Rivoluzione con la obbrobbriosa esaltazione di una meretrice denudata sulla sommità dell'altare di Nôtre Dame: la dea Ragione.
Orbene, l'Evemerismo anche in tale congiuntura è riesumato, reintegrato nella antica autorità, consolidato nella forma e nella struttura di una vera scuola, e gettato nella mischia tra le armi più micidiali. La dottrina che aveva stroncato alla base il politeismo dei Greci, poteva servire benissimo a demolire la religione cristiana, una religione fondata sul dogma dell'Uomo - Dio, di un Dio che storicamente era esistito nella natura di uomo straordinario, sommo benefattore dei contemporanei. Ecco il rischio che avevano corso i Padri della Chiesa e gli apologisti stringendo alleanza cogli evemeristi: essi si erano adoperati, per averne maggior aiuto, a far acquistare credito e autorità ad una dottrina che nascondeva un'arma insidiosa anche contro di loro: s'erano allevato l'eschileo “serpe di Clitennestra”, perché l'Uomo Gesù, il rabbi che aveva percorso la Palestina ammaestrando, strando, dispensando favori e accattivandsi la riconoscenza dei beneficati, il Gesù che era “morto” e successivamente era stato assunto in cielo, presentava, per chi non guardasse tanto per il sottile tra le pieghe degli altissimi misteri cristiani, una vaga somiglianza con l'evemerico Giove; e non dovevano spendere troppi cavilli i moderni razionalisti per fare tutto un fascio della Storia Sacra e della “sacra storia” panchea, specialmente dopo che il Woolston aveva spogliato del carattere trascendentale gli strepitosi miracoli di Gesù. Infatti non tardarono il Vossius, il Bochart e altri ad attaccare il Vecchio Testamento ebraico-cristiano, ingegnandosi di provare un rapporto di identità fra il vecchio Crono con la triade Giove-Nettuno-Plutone da una parte e il patriarca Noè coi tre figli Sem-Cam-Jafet dall'altra60.
Nella seconda metà del decimottavo secolo, quand'ebbero attraversata la corrente illuministica, gli evemeristi, resi più numerosi dall'affluenza dei nuovi adepti, estesero il campo di applicazione della loro teoria coinvolgendo indistintamente tutte le religioni, delle quali riconobbero il fondamento nella deificazione e nella apoteosi di uomini vissuti durante le epoche preistoriche e la preistoria appunto tentarono di ricostruire, attingendo abbondantemente al mondo fantasioso dei miti e delle favole classiche, il Bannier in Francia, l'Hüellmann, il Böttiger, il Kannegiesser e lo Hoeck in Germania.
Il lavoro di ricostruzione però muoveva da posizioni affatto congetturali e ipotetiche, e non poteva avere la pretesa di raggiungere obiettivi scientifici. Invece si andava perpetrando ancora un vero inquinamento della preistoria e della storia che, infarcite di arbitrarie interpolazioni mitiche e leggendarie, non riposanti su monumenti di sorta, si rendevano ancor più impenetrabili alle ricerche degli storici moderni vieppiù impegnati a sceverare il vero dal falso.
Ma non erano che gli ultimi guizzi di una secolare vitalità destinata a spegnersi per sempre. Era già sorto e trascorso il genio vichiano (1668-1744) ed era già stato seminato il nuovo verbo storicistico; i suoi “Principi di una scienza nuova” andavano lentamente diffondendosi, apportando una profonda rivoluzione nei sistemi ermeneutici per la quale si sarebbe fatto giustizia sommaria dell'Evemerismo.
Applicando un nuovo rigoroso procedimento psicologico e filosofico alla storia del mondo antico, nella ricerca delle origini della civiltà, il Vico ritrova la ragione e la natura delle società delle leggi, dei miti, ponendo alla base della sua teoria le corrispondenti fasi a ritmo triadico “sorgimento-progresso-decadenza”, “ferino-barbaro-civile”, “senso-fantasia-intelletto”, “dèi-eroi-uomini”61.
Gli dèi vichiani non possono essere gli individui storici ben definiti da Evemero, i potenti monarchi, gli uomini straordinari, i saggi benefattori; purtuttavia i mitologemi che si riferiscono alle età remote di quelli, lungi dallo scadere al livello di puerili e sciocche fiabe, sono rivelati nei profondi significati poetici naturalistici ed esoterici dalle geniali “regole di interpretazione” di chi ebbe la prima vera intuizione dell'antico processo di mitizzazione. Il mondo degli dèi, intuito dalle sue originali “degnità”, s'identifica in un mondo primitivo62, in una lontana èra geologica nella quale l'uomo vagante per le orride lande terrestri, inseguito dagli ululati dei venti, esterrefatto dai fragori delle folgori o dalle eruzioni dei vulcani, rasserenato dallo spettacolare risorgere del sole, aggredito dagli immani dinosauri antidiluviani, sentiva inconsciamente la presenza misteriosa di potenze intellettuali superiori, benigne o maligne.
Da questa umanità infante nascono gli Eroi simboli poetici della umanità stessa reagente al primo atteggiamento passivo, rappresentanti di collettività che, in lotta, con la selvaggia natura, per assicurarsi le prime condizioni di vita debbono spiegare le intatte forze nel superamento della inclemenza degli agenti atmosferici dei mostri post-glaciali, dell'ancora inospitale terra sempre in agguato con diluvi, con mareggiate, con cataclittiche bufere; in una parola: che inaugurano il progresso civile e dànno corso alla Storia.
È in questo secondo stadio che la rozza ignoranza, l'ingenuo terrore per le arcane manifestazioni naturali, trascendenti la ancora limitata accessibilità umana, creano la folla degli dèi, tributando loro un culto assoluto, una dedizione servile, e concependo immaginose teogonie ora che, superata la fase primitiva del primo “corso” della civiltà (la fase sorgimentale della selva), gli uomini, i quali “prima sentivano senza avvertire”, si volgono al mondo oscuro e pauroso attraversato inconsciamente allo stato ferino, e lo “avvertiscono con animo perturbato e commosso”63, con la vergine fantasia della fanciullezza.
I tardi continuatori del Vico, il Morgan, lo Heyne, il Müller e numerosi altri delle scuole contemporanee, applicando recenti metodi psico-filologici comparativi sulle mitologie greca, italica, iranica, vedica, brahmanica, buddista, nonchè su quelle finniche e scandinave, hanno condotto alle estreme conseguenze l'opera di esegesi naturalistica; ma sollevando il velo plurimillenario sui significati cosmici, tellurici, atmosferici, per strappare il senso più recondito alle poetiche trasfigurazioni della vita umana primordiale, essi hanno cancellato totalmente ogni residua credenza nell'Evemerismo, il quale, se ha perduto ogni importanza attuale, si è tuttavia riservato uno dei posti più eminenti nella storia delle religioni, dei miti, del pensiero, della civiltà dopochè, cessate col suo tramonto le passioni di parte, esso si è potuto ridimensionare obiettivamente nel suo valore filosofico-religioso.
Si è molto speculato e sofisticato attraverso i secoli sulle teorie evemeristiche in continue polemiche che hanno sfruttato e deformato il pensiero e hanno coinvolto anche la personalità dello Scrittore, talchè ora riesce estremamente difficile il compito di farne rientrare la figura umana ed artistica nelle sue reali dimensioni.
Per citare i primissimi critici, a lui vicini, ricorderemo che Callimaco, Eratostene, Polibio e Plutarco, scandalizzati nella fede tradizionale, lo condannano per direttissima al pubblico disprezzo, addebitandogli calunniose imposture e non risparmiandogli nemmeno dello sciocco e del puerile (v. Append., 5, 6, 28, 29, 30 e 31).
Gli scrittori ecclesiastici (interessati...) tengono a magnificare esageratamente la correttezza scrupolosa di Evemero64, che poi dovrà fare il loro giuoco.
Notevole è fino ad oggi l'atteggiamento di una larga corrente di pensiero per cui Evemero è visto nella fisionomia di un freddo e beffardo razionalista che ha voluto irridere a tutta una tradizione religiosa e patriottica: un predecessore di Voltaire, uno scettico inventore di esiziali sistemi che ha messo alla gogna con l'ironia e la satira più impudente le istituzioni nazionali, insozzando e disperdendo un patrimonio sacro, cui si sono ispirati i massimi geni per toccare le vette dello spirito ad altri inaccessibili; oppure quanto meno, un abile retore colpevole di aver provocato confusione e disorientamento nella indagine storica e preistorica, per ciò che concerne la genesi del politeismo antropomorfico, pomorfico, arrecando un incalcolabile danno alla scienza. Da altri, al contrario, si vuole attribuire all'Evemerismo una funzione positiva, ricostruttiva, in quanto la religione, scaduta nella considerazione degli uomini di allora al livello di un espediente politico, quindi irrimediabilmente spogliata di ogni contenuto divino, è dalla concezione evemerica sublimata e riportata nella sfera dei più eccelsi valori umani, perchè ricollegata alla nascita della giustizia e della civiltà65.
Ma vediamo un pò di poter discernere serenamente selezionando tra le opinioni più attendibili espresse sul conto del Nostro; di cui, anzitutto, si deve stabilire se era geografo o storico, filosofo-teologo o poeta, romanziere o scienziato.
Si è generalmente d'accordo nello scartare subito la “Hierà Anagraphè” dalle opere di storia, perchè nonostante parecchi accenni a situazioni storiche, nonostante che nella trattazione, piena di ispirito moderno, vi si rispecchino vicende contemporanee, tuttavia la narrazione parte da presupposti assolutamente inventati, con una esposizione soggettiva e artifiziosa, senza concretezza di contenuto.
Nello storico, che sia tale, è ammissibile il sentimento, la passione; è tollerabile l'enfasi, la commozione sincera, l'intento morale o politico. L'insincerità, viceversa, è alla base della narrazione di Evemero, che mentre cerca di avallare la veridicità con la presunta autenticità di un fantomatico monumento archeologico-epigrafico, denunzia chiaramente l'assenza di qualunque investigazione, e prescinde da qualsiasi discernimento critico di fonti documentarie.
Diodoro (v. Append., n. 7) si concede una sottigliezza quando vuole distinguere i “mitologhi” Omero ed Esiodo dallo “storico” Evemero; ma il conferimento da parte di Diodoro della dignità di “storico” è da accettarsi al solito col beneficio di inventario e non ci autorizza minimamente a tentar di rivalutare sul piano storico l'opera evemerica.
— Evemero geografo?
Possiamo senz'altro affermare che né rientrava nei suoi intendimenti di far della geografia, né alla sua opera si può comunque annettere il minimo valore scientifico-geografico alla luce delle cogniziioni attuali. Che lo scrittore messenio non si atteggiasse a geografo è dimostrato dal fatto che non volle nemmeno utilizzare le scoperte dei navigatori e dei geografi dell'entourage di Alessandro e di Cassandro, preferendo iniziare da un punto geografico noto per perdersi poi in paesaggi della sua fantasia ribulicante di reminiscenze infantili; sicchè la sua geografia è una ricostruzione ideale abilmente camuffata di dati reali.
Siamo in possesso di una citazione di Moderato Columella66 che definisce Evemero “poeta”. Il passo è da tutti ritenuto corrotto e alla lezione “Euhemerus” si preferiscono gli emendamenti “Homerus”, “Euenus” o “Eumelus”, giustificandosi tali tesi con l'effermazione che nella produzione evemerica non si incontrano luoghi o circostanze che possano avere attinenza con questioni di apicultura (chè questo appunto è il soggetto di Columella).
Il passo in questione sarà corrotto, e magari una delle voci proposte sarà quella esatta; ma non certo per il cennato motivo... Ammesso che fra i frammenti riconosciuti della “Hierà Anagraphè”, più o meno facilmente ricomposti a ricostruire il filo logico, non si possa inserire la materia di cui si occupa Columella; pur escludendo “a priori” l'esistenza di altre composizioni di Evemero in prosa o in versi; tuttavia dobbiamo sempre ammettere che non abbiamo ancora conoscenza di tutto il testo — o perlomeno di tutte le materie — della “Hierà Anagraphè”, e non si può escludere che nel III libro (o altrove) tra le altre varie questioni non sia stata trattata anche quella in oggetto; come saranno state trattate questioni etimologiche, astrologiche; come si anche delle Piramidi di Egitto67.
Sarebbe più logico pensare che negli ambienti dotti romani era diffusa probabilmente una versione poetica enniana; e non era difficile, per chi non fosse interessato ad accertare la cosa, che si pensasse a un originale della “sacra storia” in versi.
Columella — pare assodato — non ebbe degli scritti evemerici che infedeli trascrizioni di Igino.
Nello stesso equivoco sarà incorso S. Agostino, presso il quale troviamo un altro rarissimo “Euhemerus poëta”68.
Evemero dunque non fu poeta, nell'accezione comune del termine, anche se altamente poetico è da considerarsi l'alone divino da lui circonfuso nella storia della civiltà dell'uomo; e lo conferma Lattanzio, dicendo: “Hoc certe non poetae tradunt, sed antiquarum rerum scriptores”.69.
— Sarà stato allora un filosofo, un teologo?
Facile crederlo, e facilissimo leggerlo presso autori non molto antichi, che trovavano il nome di Evernero citato accanto — o addirittura a capolista — a quello di celebri filosofi. Anzi per averlo letto assieme al nome di Teodoro, lo hanno identificato in un filosofo cirenaico, senza naturalmente contare che lo si trova associato anche a filosofi di scuole diverse da quella di Aristippo, come Diogene Frigio, Ippone, Diagora, Epicuro, Pitagora ecc. (v. Append., nn. 22, 23, 24, 25, 32 e 33).
In realtà non sussistono punti di contatto tra la filosofia cirenaica e l'Evemerismo, e tanto meno doveva ingenerarsi l'equivoco da un presunto comune carattere ateo delle due dottrine (già affermato da molti); perchè di scuole altrettanto atee se ne contavano non poche e, come si vedrà appresso, proprio l'evemerismo non era sostanzialmente ateo, nonostante le reiterate accuse.
Probabilmente avrà contribuito ulteriormente a diffondere tale erronea convinzione una svista — ammesso che il testo usato fosse esatto — commessa dall'Amyot nella traduzione francese di un passo di Plutarco (v. Append., n. 22), la cui seconda parte egli traduce: “...Et quant à Evhémère Cyrenien, Callimachus le donne ouvertement à entendre...”, riferendo ad Evemero l'appellativo di Callimaco.70.
Non pertanto, seppure nella “Hierà Anagraphè” non c'è la quintessenza della filosofia perchè l'Autore, proponendosi di risolvere il problema metafisico, non tende ad illuminare e penetrare la realtà nei suoi rapporti di causa ed effetto con sincerità, con convinzione, ma si vale di espedienti e di ritrovati sottili; tuttavia, se vorremo caratterizzare il suo pensiero filosofico (o pseudofilosofico), saremo senz'altro indotti a ravvisare nella spiccata attitudine all'eristica, nel suo atteggiamento scettico-razionalista i precetti della scuola sofistica emergenti in tutti e due i momenti (politico-sociale e teologico) della parte trattatistica.
È sofista quando con una punta di saccenteria si atteggia a maestro di vita sociale, appoggiando le sue costruzioni ideali su macchinose invenzioni; come quando, conformemente al “panton chremàton mètron ànthropon einai” di Protagora reagisce alla secolare acquiescenza verso assolutistici pregiudizi di religione e di diritto; è sofistica la naturale legge del più forte, rappresentata dal personaggio di Zeus (v. Append., n. 34), che è il presupposto necessario per la fondazione della pacifica e armonica convivenza panchea; è sofistica la rara abilità retorica rivelatasi strumento efficacissimo per la diffusione della dottrina; è sofistico, in una parola, tutto il sistema, nella concezione e nella attuazione: perché esso non significa altro che l'esaltazione della potenza del genio umano.
Ridimensionato in qualche modo il valore di Evemero filosofo, possiam pure dare con lo Chassang allo strano e discussissimo libro la definizione di “romanzo filosofico”; una formula allora di gran successo, in quanto era la forma letteraria cui si doveva ricorrere per volgarizzare filosofemi etico-teologici o dottrine politiche.
Il nostro romanzo-filosofico è in effetti una poliedrica composizione letteraria dalla quale emana alcunchè di misterioso, anche se, dai frammenti si è abbastanza ricostruito. Vi è la cromatica varietà del romanzo, la concettosità dell'utopia politica, la precisione dettagliata del trattato geografico, la grandiosità arcana e suggestiva della celebrazione teogonica; tutti elementi che, pur fondendosi idealmente in una mirabile unità artistica, si susseguono nella stesura in tre momenti distinti, ché imprimono all'opera tre caratteri diversi: prima di romanzo, quindi di trattato politico-costituzionale, e infine — il più eminente — di trattato mitologico.
È adunque anzitutto un'opera d'arte alla quale, come tale, è stato concordemente concesso dalla critica filologica ed estetica il giudizio lusinghiero riservato ai capolavori, con la riprova se non bastasse quanto è rimasto dell'opera — fornita dalla risonanza e dal successo raggiunto in breve tempo, come si rileva dalle innumerevoli testimonianze.
Una importante questione si deve superare per stabilire in qual senso intercorra un rapporto di subordinazione tra l'elemento romanzesco e quello trattatistico cioè: è quello in funzione di questo, o viceversa? È la materia un pretesto per dilettare, o la narrazione vuole essere un mezzo facile per diffondere una idea?
Alcuni — lo Schwarz fra i più autorevoli — si limitano a trovarci solo un libro di lettura amena, una narrazione buona a divertire il lettore satireggiando sulla antica religione. Perciò l'Autore non sarebbe che un irreligioso, un insolente, volto semmai a conseguire finalità prettamente artistico-letterarie. L'opinione corrente invece (pressochè unanime) vuole che Evemero abbia inteso esporre un sistema filosofico rielaborato su delle teorie che “in nuce” preesistevano a lui. Il suo viene quindi considerato perlopiù un libro a tesi, di profonda speculazione scientifica il quale codificando e ricostruendo organicamente embrionali intuizioni, si avvale, per la diffusione, di un espediente psicologico che, se non è assolutamente originale nella didascalica dei tempi, rivela però una fantasia espressa nelle più pure forme artistiche e una ricca genialità inventiva:
“...Così a l'egro fanciul porgiam aspersi
di soavi licor gli orli del vaso...”71.
Senonchè non si è ancora raggiunta una base d'intesa dai vari critici filologici per la interpretazione e valutazione del pensiero che Evemero ha realmente voluto esporre nel suo sistema.
— Che caldeggiasse un nuovo ordinamento politico, additandolo ai prìncipi del tempo perchè lo realizzassero? In tal caso avrebbe assegnato una parte preminente alla esposizione del sistema di governo pancheo; preminenza che indubbiamente nella economia dell'opera va riconosciuta all'elemento religioso. E al contrario, in chiave satirica, si sia prefisso di demolire l'opera allora è di religione che Evemero ha trattato; sia che abbia voluto esaltare e consolidare la divinizzazione di Alessandro, le cui imprese (come vorrebbero alcuni) sarebbero simboleggiate in quelle di Zeus; sia che abbia voluto — lui, suddito devoto a Cassandro — appianare la strada alla deificazione del suo re, se questi era ancora vivente al tempo della stesura dell'opera; sia che al contrario, in chiave satirica, si sia prefisso di demolire l'opera autodivinizzatrice dei diadochi, particolarmente di quelli (i Tolemei) nemici di Cassandro; sia che abbia satireggiato addirittura (scartando l'ipotesi dell'amicizia con Cassandro) il suo re stesso, che nessuna grande impresa aveva effettuato e nessuna grande città aveva fondato.
A questo punto intervengono i più audaci denigratori di Evemero accusandolo di occuparsi di religione da empio e antireligioso. E diciamo subito che è una calunnia lanciata con eccessiva superficialità.
Se realmente ci fosse alla base dell'opera una programmatica antireligiosità, si dovrebbe ammettere che essa è stata male perseguita e che in pratica è stata perfettamente innocua, perchè le più apprezzabili punte satiriche allusive a tradizioni e dogmi religiosi (come le insinuazioni su Cadmo, su Afrodite, sugli intrighi delle altre dèe) non si rivelerebbero che maramaldeschi assalti a personaggi mitologici già superati e cadenti, quando l'azione scardinatrice dell'Olimpo pagano era già in fase avanzata.
Chi mosse l'accusa infondata di irreligiosità e empietà non tenne conto delle mistificazioni cui andò soggetto l'originale evemerico; non badò al fatto che alcuni frammenti denunziano una paternità sospetta, giacché esistono solamente nelle citazioni degli scrittori cristiani, interessati ad allearsi il vecchio iconoclasta dell'antropomorfismo, nemico potenziale del politeismo.
Infatti i personaggi divini che ai tempi evemerici, perse le tradizionali fisionomie dei poemi di Omero, già traballavano e ruzzolavano dagli aurei piedistalli, imborghesendosi fino al livello di comuni mortali, nei brani sospetti della “Hierà Anagraphè” sono spogliati dei caratteri ieratici e angusti e, presi di mira in quelle che erano le mende loro connaturali nell'antropomorfismo classico, sono vergognosamente denigrati e insozzati. Valga per tutte la laida figura di Afrodite, la prima prostituta, dipinta in Lattanzio con tratti così ributtanti72 che non cercò altro di peggio Dante per la sua Semiramis:
“A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libico fè licito in sua legge,
per torre il biasmo, in che era condotta.”
(Inf. V, 55-57).
Non si dimentichi d'altronde che Evemero è in fondo un razionalista, e il razionalismo è per sua natura nemico dichiarato di ogni dogmatismo religioso. Pertanto l'empietà che può trapelare dal testo autentico di Evemero, più che a lui personalmente si dovrebbe ascrivere alla corrente razionalista allora diffusa.
In Evemero la religione popolare trovava una spiegazione: era inevitabile che essa sacrificasse il residuo prestigio. Ma se moriva una fede già condannata a inesorabile morte, tuttavia il vecchio filosofo-romanziere ne risuscitava un'altra: la fede nella emanazione divina della giustizia e della civiltà.
Una opinione che presso gli antichi — e anche presso i moderni — si è andata facilmente divulgando, vorrebbe Evemero ateo. Si tratta di un importante aspetto della personalità evemerica che possiamo discutere senz'altro in base ad espliciti atteggiamenti del suo pensiero desumibili dall'opera stessa.
Leggiamo: (v. Append., n. 35).
C'è chi vuole dubitare anzitutto se la fondamentale teoria si debba attribuire a Evemero o a Diodoro. In Eusebio di solito Diodoro parla direttamente; ma è logico che questi, riferendo “ex professo” la teologia evemerica, non può inserire nella parte più essenziale elementi estranei al sistema teologico in parola senza perlomeno avvertire il lettore. Ad ogni modo, se vogliamo prescindere da questa considerazione, abbiamo una formale dicharazione introduttiva di Eusebio, laddove dice: (v. Append., n. 19).
Anche ammettendo che il “katà léxin” di Eusebio abbia un valore relativo, a noi occorre accertare in sostanza che è Evemero che accetta e fa propria la teoria dualistica degli dèi, detta da lui antichissima e costituente nella sua opera il fulcro di tutta la sua teogonia.
Entrando adunque nel merito, dobbiamo preliminarmente distinguere due ordini di dèi divisi da una sostanziale differenza che investe la natura stessa delle persone; da una parte esistono — meglio: preesistono — numi eterni e immutabili: gli dèi celesti; l'altra categoria posteriore nel tempo e di gran lunga inferiore per dignità, è rappresentata dalle tradizionali divinità e semidivinità del paganesimo politeistico antropomorfico proprio della Grecia e delle terre dove si espanse l'influenza della Grecia: e sono contrassegnate dal significativo appellativo di “terrestri”.
A questi appunto si rivolgono gli strali razionalistici di Evemero, che rivela — per modo di dire, perchè egli non è il primo — la loro origine umana, pur dotandoli tuttavia dei più nobili attributi umani valevoli per far assurgere la loro umanità straordinaria ad uno stato naturale intermedio confinante con la divinità; mentre invece i primi sono intuiti quali dèi veri e propri, eterni per origine e per durata, lontani e incombenti, vaghi e misteriosi, identificabili con gli astri e con le forze della natura.
Dinanzi a tali deità in certo qual modo naturalistiche (ma tuttavia dissimili dalle personificazioni dei fenomeni naturali date dalla interpretazione fisica dei pitagorici), che non sono minimamente sfiorate dal dubbio ateo, Evemero si tiene a rispettosa distanza: essi sono intravisti attraverso la pietà religiosa e i sacrifici degli dèi terrestri; e niente hanno di umano, anzi sono contrapposti agli altri dèi di origine umana.
L'atto di devozione e di omaggio che Zeus presta ai Celesti e a Urano, e che prima Urano stesso aveva prestato ai Celesti, mentre stabilisce una certa continuità gerarchica, dimostra però che la divinizzazione in Evemero non identifica cogli dèi eterni, e che nella gerarchia le due classi sono nettamente distaccate da un grado ben diverso di divinità. Urano stesso, il capostipite degli dèi “epìgheioi”, i quali nel suo nome trovano un anello di congiunzione cogli dèi “ourànioi”73, non arriva ad identificarsi con questi, perchè resta sempre colui che “per primo onorò di sacrifici gli dèi celesti, per cui fu anche lui detto Urano”; e l'assegnazione del divino nome astrale appare sempre espressione — non disinteressata — della venerazione e dell'ammirazione verso il primo grande re di Pancaia, nonchè primo grande astronomo, da parte di un nipote che tuttavia non può dissimulare l'intento di spianarsi la strada all'autodivinizzazione.
La invenzione evemerica, ripetiamo, non è originale in tutti i suoi elementi. Un fenomeno analogo si riscontrerebbe — a detta di Diodoro (I, 13, 1) nella storia della prima dinastia dello antico Egitto, il cui capostipite avrebbe ricevuto il nome di Helios dall'astro omonimo; e, come questo, altri dèi terreni avrebbero assunto nomi già appartenenti a divinità astrali.
Si tratta evidentemente di una vera e propria forma di Evemerismo, anche se anteriore ad Evemero stesso; ed è il vero [†] [in]tegra la fisionomia trascendentale. Il processo di divinizzazione in Evemerismo; quello che, pure umanizzando attraverso il concetto della divinizzazione alcuni personaggi della mitologia classica, preserva nel contempo la divinità di altri, restituendone in altri termini, è condizionato dall'esistenza degli eterni e intangibili dèi: infatti Urano e Zeus sono deificati per la fede e la pietà religiosa verso di quelli.
Il che non coincide col falso corollario cui pervengono alcuni, secondo i quali si vorrebbe salvare la divinità degli dèi terrestri ancorandola a quella dei celesti. Purtroppo, è inutile tentativo la riabilitazione degli ex-dèi irrevocabilmente compromessi dalla rivelazione delle origini e della natura umana.
In conclusione, l'Evemerismo non infirma l'esistenza di qualsivoglia altra divinità, quando nega i tradizionali dèi popolari; anzi (e in ciò si potrebbe vedere un certo influsso della dottrina epicurea che distacca nettamente l'uomo dalla divinità predicata cogli attributi dell'impassibilità e dell'immortalità) gli altri dèi superstiti ne escono esaltati e rinvigoriti, mentre il concetto stesso della divinità è reso più puro e più sublime, espurgato da equivoci inquinamenti antropomorfici e aureolato di santità e di immensità.
Evemero è “figlio del suo tempo”; egli s'inserisce felicemente in quel tempo che reca inconfondibile il sigillo del grande Alessandro e che è caratterizzato dal più originale cosmopolitismo, risultante dalla amalgamazione etnica greco-macedone, dal lento processo di interpenetrazione eurasiatica, dal sincretistico connubio del pensiero greco e della tradizione orientale, fondentisi nel crogiuolo della dominazione macedone.
La complessa realizzazione della unificazione mondiale — che alla morte del Grande fallì sul piano politico, ma proseguì in quello civile e culturale — era stato il sogno titanico di lui; egli aveva posto mano alla opera riformatrice con sovrumana energia, rendendosi conto degli immensi ostacoli da superare, incrollabilmente sicuro che la sua scomparsa — purtroppo immatura e improvvisa — non avrebbe minato le fondamenta del nuovo universale edificio.
Orbene, Evemero si trova attratto nella di lui scia; vive della nuova, fresca, prorompente vitalità; e la teoria cui egli lega il suo nome si rivela come la più genuina espressione dello spirito dell'epoca densa di rivolgimenti e capovolgimenti sociali, campo adatto all'affermazione di uomini geniali.
È l'epoca matura per accogliere e professare la nuova fede religiosa, respirandosi un'atmosfera impregnata di razionalismo e di autonomia democratica, elementi essenziali della civiltà ellenistica, la quale ha già assimilato le conoscenze astronomiche dei Babilonesi, quelle meccaniche e anatomiche degli Egiziani, le esperienze mediche degl'Indiani, ed ha raggiunto la consapevolezza e l'emancipazione intellettuale che di solito comportano anche tare deleterie.
Infatti alle antiche virtù, sulle quali s'era costruita la grandezza della Grecia, è subentrato un generale scadimento morale in cui son stati coinvolti i culti degl'ideali della Patria, della Nazione, e quindi della secolare religione. La diffusa corrente razionalistica va distruggendo l'antica primitiva fede religiosa; mentre, a cominciare dalle classi colte, allontana gli spiriti dal rispetto verso la potenza divina, non lasciando sussistere che una arida e formale interpretazione dei culti e delle cerimonie.
Il modernismo sofistico e scettico e il superficialismo, ripudiando concetti e sistemi filosofici, abolendo le vecchie espressioni di quello che è sempre il presentimento del Sovrannaturale, dell'Assoluto, esigono forme più palpabili, più accessibili., ancora più umane per i personaggi divini; e il materialismo invade le coscienze e i costumi, dettando norme ispirate al desiderio di lucro, all'avidità del possesso, alla frivolezza.
Senonchè tale aspetto negativo nell'orientamento religioso si viene a combinare con la tendenza, importata dall'Oriente su iniziativa di Alessandro, a divinizzare grandi guerrieri, fondatori di città, legislatori, capostipiti di dinastie e sovrani. Aveva intuito il grande conquistatore e unificatore monarca fondatore di tante città, che attribuendo il carattere divino alla monarchia soddisfaceva ad una esigenza politica e militare di prim'ordine, com'era quella di rafforzare l'unità dei vasti domini; e sapeva bene che nei territori orientali ed in Egitto l'effetto sarebbe stato più facile ed immediato, appunto perchè in quei paesi l'abbinamento del concetto della regalità a quello della divinità era già comune e connaturale, così come in Grecia perlomeno era diffusissimo quello del fondatore-eroe.
Su tali premesse egli concepisce l'autodivinizzazione, iniziando a delineare la storia della sua origine divina.
Quando si trova in presenza del sacerdote del tempio di Zeus-Ammon, che interroga sulla sorte degli uccisori di “suo padre”, egli si sente rispondere che “CHI” lo ha generato non può essere ferito da verun mortale74. Dunque egli è figlio di Dio: “Dio è il padre comune di tutti gli uomini, ma per una misteriosa predilezione egli sceglie i migliori per farli suoi figli”: così egli stesso ribatte al sacerdote Psammon, che ha affermato essere divina ogni manifestazione di potenza nell'uomo. Ecco che nel grandioso apparato dei scintillanti costumi orientali, nel fasto dei paludamenti persiani, Alessandro, vivente incarnazione dell'antropomorfismo ellenico, istituisce la proschinesi, imponendola a tutti i mortali che si presentino al suo cospetto.
Fra quanti pensatori e artisti del mondo ellenistico vissero sotto l'influenza del grande dominatore, Evemero, lungi dal sottrarsi alla di lui vasta ombra incombente, è di lui il più intelligente collaboratore, con l'ideazione della sua monarchia saggia e illuminata, elevata agli onori divini. Egli raccoglie e mette a frutto una vecchia eredità, il processo prammatista umanizzatore della divinità, che fin dai tempi omerici ed esiodei, ed ancor più per l'impulso dell'arte drammatica e di quella figurativa, aveva ravvicinati gli dèi agli uomini in molteplici rapporti, via via sempre più definiti e circostanziati, dapprima nell'ambito della preistoria e successivamente in piena storia, con precisi riferimenti a nascite, morti, regni, sepolture; e aveva audacemente identificati gli iddii negli eroi, nei legislatori, nei fondatori ecc. finchè non aveva portato la eroicizzazione, la deificazione, l'auto-divinizzazione dei contemporanei.
Allorchè l'intelligenza ha il pieno sopravvento sulla pietà ed inevitabilmente tale processo perviene alle sue estreme conseguenze, il romanziere messinese assume il ruolo di guida, stando il più vicino ad Alessandro nel sentire il nuovo atteggiamento spirituale, la nuova ansia religiosa del popolo, disposto all'adorazione del sovrano sulla base del principio razionalistico secondo cui la potestà regia è in funzione della possibilità di promuovere una continua elevazione del tenore di vita, incrementando i fattori del benessere economico, migliorando il costume con la graduale eliminazione di tristi e ancestali sedimenti nelle coscienze dei popoli spesso in intollerabile stato di arretratezza male accordantesi con l'etica di nazioni già allora civilissime.
E se Evemero tempera nella “Hierà Anagraphe” il suo collettivismo più che con la casa ed il giardino o con le assegnazioni speciali incoraggianti lo spirito di libera iniziativa, con l'origine monarchica della vigente teocrazia (e nell'isola “Hierà” la vecchia monarchia sopravvive ancora) è appunto perché ai tempi di Alessandro e dei successori è in decadenza il tipo di monarchia antica, assente, isolata, inerte e parassitaria, cui è sottentrata la monarchia giustificata dall'intelligenza, dall'operosità, dal merito di uomini eccellenti.
Anche il genere letterario scelto dal Nostro, il romanzo-filosofico, è un portato di quel tempo; perchè il genio di Alessandro non si era limitato ad occupare militarmente e a soggiogare i popoli, ma aveva promosso spedizioni esplorative nelle terre più remote, specialmente nell'Oceano Indiano e nelle Indie, e le scoperte avevano accesa la fantasia degli scrittori che si spingevano molto più in là degli esploratori. Così la geografia si arricchiva improvvisamente di nuovi paesi, di popoli inesistenti; il gusto della massa dei lettori si adattava alle più assurde stranezze, e l'esotismo diventava di moda.
Pertanto i filosofi che volevano divulgare le loro complicate e ostiche teorie, non trovavano di meglio che sfruttare il fertile terreno dell'ansia, dell'avidità dell'esotico, del meraviglioso: e fu combinata la formula del romanzo-filosofico.
La città natale di Evemero è stata tra le più discusse e disputate, spesso abusivamente, mentre la maggioranza qualificata delle testimonianze e delle opinioni la ha sempre riconosciuta nella città di Messina. È la sorte toccata ai Grandi dell'antichità, a Omero primo fra tutti, al quale ben undici città dell'Egeo e dell'Asia Minore si contesero il privilegio di aver dato i natali.
Ma Omero è da collocarsi verso il nono o decimo secolo a.C., ai primordi della storia greca nel decadente oscurantismo del medio evo greco, quando si usciva dall'età eroica in una evanescente fioritura di miti e leggende nei quali si perde egli stesso con la sua opera, la sua personalità e la sua esistenza storica.
I tempi di Evemero al contrario si svolgono nella piena luce della storia, e le vicende della sua vita — purtroppo a noi ignote — furono scandite da importanti avvenimenti politici documentati in una vasta letteratura di cui oggi noi siamo in possesso. Cosicchè sembra strano che di quest'uomo, il quale indubbiamente prese parte alla vita pubblica, ebbe rapporti diretti coi noti sovrani e cogli scrittori coevi, lui stesso tra i massimi esponenti della cultura e oggetto di animose polemiche, di quest'uomo si sia lasciato che venissro insinuati dubbi sull'origine per opera di tardi scrittori, lasciandosi campo a secolari contestazioni.
Tra gli antichi che non riconoscono Evemero “messenio”, alcuni (Plutarco, Galeno, Eusebio e Teodoreto) concordano nell'assegnargli come patria la città arcadica di Tegea.
Claudio Galeno di Pergamo è il più antico di essi; tuttavia la sua produzione letteraria risale allo scorcio del II. secolo d.C., quando erano trascorsi quasi cinque secoli dal regno di Cassandro, il presunto mecenate di Evemero; e la distanza di cinque secoli è più che sufficiente (la recenziorità implica naturalmente la deteriorità) per togliere ogni credito all'asserzione non documentata nè avallata di quell'erudito, il quale, d'altronde, era il meno qualificato per arrogarsi l'autorità di confutare e soppiantare tutta una tradizione ben diversa, trattandosi di un medico che, pur interessandosi per la versatilità del suo ingegno agli studi di grammatica, di filosofia ecc, era sempre medico, anzi medico di corte a Roma; e mentre era impegnato nel servizio di Marco Aurelio, di Lucio Vero, di Commodo, oltre che nella produzione di numerosissime opere di medicina che lo consacrano il più grande medico dell'antichità, dopo Ippocrate, non poteva attendere, ovviamente a serie ricerche storico-filologiche.
Ma molto probabilmente quell'innocuo “Tegheàtes”75 buttato giù dal fecondo poligrafo così, senza alcuna velleità antitetica, in perfetta buona fede, non pretende neppure di essere tenuto in gran conto.
Eusebio, della prima metà del secolo IV, accenna, sì, ad un Evemero tegeate in un passo della “Euanghelikè proparaskeuè”76, dove è citato lo Ps. Plutarco (v. pag. 55); senonchè altrove chiama “messenio” lo stesso Evemero, richiamandosi all'autorità di Diodoro77.
L'“Erodoto” della storia ecclesiastica avrebbe contribuito non poco alla soluzione del problema solo che avesse voluto proporselo mettendo a profitto la sua diligenza nella ricerca delle fonti ed eliminando la involontaria contraddizione. Intanto va giocoforza escluso dalla questione.
Quanto al vescovo Teodoreto (393c.-458?), autore di lettere, di omelie e di vari scritti apologetici ed esegetici, siamo costretti, a fortiori, a leggerlo con somma cautela per ciò che ci concerne, sia per le medesime considerazioni che valevano più sopra per Galleno, ed ancor più per Eusebio “mutatis mutandis”; sia perché di Eusebio è, nel campo storico, un imitatore e un continuatore, di valore nettamente inferiore.
È estremamente improbabile che nella stesura della sua “Hellenikòn therapeutikè pathematon”, con la quale si prefiggeva tutt'altro scopo che quello del biografo, egli volesse approfondire un'indagine trascurata dal suo Modello, il quale, nel momento in cui egli integrava i passi in questione (v. Append., nn. 31 e 33) di un elemento puramente accessorio per il suo assunto, costituiva una fonte sufficiente, anche se di seconda mano,
Ciò premesso, la tesi “Evemero Tegeàte” appare troppo infondata.
Disponiamo di altre due varianti rappresentate da Clemente Alessandrino78, cui si associa Arnobio79, e, “hors ligne”, da Ateneo (v. Append., n. 12) un egiziano di Naucrati, del III. sec.d.C.: essi assegnano come luogo di nascita a Evemero rispettivamente Agrigento e l'isola di Cos, nelle Sporadi, all'imbocco del Sinus Ceranìicus, tra Cnido e Alicarnasso.
Sono due notizie discordanti e isolate, che sorprendono per la loro stranezza e per la loro gratuità, non riposando su alcuna testimonianza nè su alcuna argomentazione da opporre alla opinione quasi universalmente accettata in favore della tesi “messenista”: e questa — cominciamo a dirlo — risale agli storici e ai cronisti più vicini ad Evemero, dai quali fu ininterrottamente tramandata. Non che tali notizie gabellate per vere, si suppongano frutto di invenzione; ma ricorre troppo spesso nell'antichità che si attribuiscano diverse patrie alla medesima persona, scambiando per tali le varie località dove essa ha più o meno soggiornato o nelle quali ha acquisito i diritti di cittadinanza.
Il De Block80 solo nella maniera anzidetta spiega i rapporti tra Evemero e le tre città di Tegea, Agrigento e Cos.
A conferma di tale congettura si potrebbero citare tanti casi, analoghi, da Omero (chiunque egli sia e qualunque sia il rapporto di paternità stabilito fra lui e i “suoi” poemi dai vari D'Aubignac, Vico, Wolff ecc.) a Erodoto (V sec. a.C.), già conteso da Turii dove emigrò, e successivamente rivendicato da Alicarnasso, allo stesso Epicarmo da Siracusa, il rappresentante della commedia sicula (IV-V sec. a.C.), ritenuto a volte oriundo da Megara Iblea, dove svolse molta della sua attività, a volte da Cos.
Chi sostiene quest'ultima ipotesi — configurando un fenomeno migratorio simile ed opposto a quello di Evemero — la accorda con considerazioni sull'ambiente storico, rilevando che le direzioni opposte presuntivamente seguite dal commediografo e dal romanziere nelle rispettive peregrinazioni, in tempi diversi, si dovrebbro porre in relazione col mutato centro di polarizzazione delle classi intellettuali. E a tal uopo si rammenta che Cos era sede, al tempo di Evemero, di una fiorente scuola di astrologia e filosofia, dove pontificava l'insigne astronomo Beròso e dove si sarà recato anche il Nostro, prima o dopo di stabilirsi alla corte di Cassandro: prima, comunque, del soggiorno alessandrino coincidente con la sua operosa vecchiaia.
Tali considerazioni sono storicamente esatte, ma forse non a, proposito di Epicarmo, che — secondo i più — sarebbe nato a Siracusa, dove tornò, dopo un probabile soggiorno a Cos, attratto dalla corte di Gelone.
Piuttosto è da osservare l'itinerario di Teocrito (310?-350) che, nativo di Siracusa, soggiornò al tempo di Evemero a Cos e successivamente ad Alessandria, dove ebbe rapporti con Callimaco.
Quanto poi a Clemente Alessandrino e ad Arnobio (morti rispettivamente nella prima metà del sec. III e del IV), dobbiamo rinoscere che essi, animati dall'ardore religioso e intenti solo all'appassionata difesa della Fede cristiana, quindi lontani dal perseguire scopi letterari o scientifici, hanno interesse di documentarsi nelle questioni dogmatiche, filosofiche e teologiche, per valorizzare i loro scritti apologetici. E allora essi hanno bisogno di approfondire le ricerche sull'Evemerismo e non già sui dettagli anagrafici di Evemero nella esposizione del dominale teorico e pratico dei cristiani.
Vien fatto di sospettare a questo punto se i vari Galeno, Clemente, Eusebio ecc. volessero alludere a qualche altro Evemero, diverso dal Nostro. No: è evidente che si tratta sempre della medesima persona, dell'unico Autore della “Hierà Anagraphè”, il quale solo per questa sua fortunata pseudo-filosofica opera poteva interessare i citati scrittori cristiani.
Si può anzi asserire che Evemero ha l'esclusività — fino adesso — del suo nome.
L'autorità di molti storici — i più vicini ad Evemero nel tempo e bene accreditati presso gli studiosi di tutti i tempi — impone di orientarci per la soluzione per la soluzione “messenista”.
Eratostene di Cirene (276-196a.C.), famoso erudito successo ad Apollonio Rodio nella direzione della biblioteca di Alessandria, è il più antico fra quelli citati, trattandosi di un contemporaneo di Evemero; ed è un vero peccato che Strabone non abbia riportato testualmente i luoghi del famoso “Pentatlo” dell'antichità riguardanti l'Autore della “Hierà Anagraphè”, dai quali il Geografo trasse argomento per rimproverargli una troppo affrettata disamina selettiva di fonti letterarie. Nel I. libro della Geografia straboniana si legge: (v. Append., n. 28).
Non è Eratostene beninteso, ma Strabone che parla; tuttavia è logico che questi doveva tener da vicino il testo in parola, e che, con l'occhio su Eratostene, di lì prendesse di peso le denominazioni dei personaggi, complete degli epiteti indicanti l'origine. Valga, ad esempio, il caso di Eusebio che, con sbadata indifferenza (un pò eccessiva per lui) trovandosi a citare Plutarco, parla di un “Evemero Tegeate” e mentre poi ha per le mani l'esordio del VI. libro della “Bibliothèk” di Diodoro Siculo, afferma senza convinzione che Evemero è “messenio”.
Nel passo sucitato di Strabone, dopo uno sbrigativo “Bergaìon” troviamo un accostamento — voluto quasi di proposito — di “Messènion” e di “Euèmeron”. Sembra palese l'intenzione di prender posizione, sia pure en passant, nella questione; e si può anche vedere un indizio — ex silentio — della concordanza con l'opinione di Eratostene. Credo che Krahner81 abbia considerato anche questo, citando Eratostene fra i sostenitori della tesi “messenista”. Ne ha preso atto il De Block, ma ad ogni buon conto ha preferito andar cauto, limitandosi a constatare obbiettivamente che l'affermazione non denunzia chiaramente la paternità dell'autorevole bibliotecario alessandrino.
Lasciano perplessi invece le gratuite illazioni del Bernhardy82 e del Meineke83, i quali nel passo in questione concludono che sono interpolate le parole “è ton Messènion”, affermando addirittura che il “Bergaìon” è Evemero, nato cioè a Berga.
Veramente è pacifico che “Bergaìos” vien denominato “sic et simpliciter” per antonomàsia Antifane, originario di Berga anzi per essere stato questi incriminato di falso nei suoi scritti, l'epiteto è divenuto in processo di tempo sinonimo di “mentitore”. Ne abbiamo l'avallo di Polibio84 riportato anche da Strabone: (v. Append., n. 29).
E qui si rileva di primo acchito, in perfetta aderenza col persistente atteggiamento critico negativo di Eratostene nei confronti del Nostro (atteggiamento, del resto, condiviso ad Alessandria, come si è già rilevato, da Calliniaco) che l'antitesi è tra “Bergaìon” e “pisteùein”, e che conseguentemente l'attributo di cui è gratificato Evemero è già svuotato del significato proprio genuino.
Oltracciò l'arbitraria atètesi del Bernhardy è perentoriamente smentita da un altro passo di Strabone, nel quale immediatamente accanto a Evemero è citato il solito Antifane, stavolta col suo vero nome: “ou polù oùn apoleìpetai taùta tòn Pythèou Euemèrou kaì Antiphànous pseusmàton”.85
Quanto a Polibio, lo storico noto per le sue tendenze prammatistiche, si deve credere che abbia bene approfondito le sue conoscenze su Evemero, perchè è intimamente imbevuto di Evemerismo del quale non fa mistero nella esposizione delle “praxeis” e nella valutazione degli aspetti religiosi della storia.
Orbene, anche lui è un assertore della origine messenica del Nostro, che abbiamo visto in uno dei passi sopracitati appellativo di “tò Messenìo”.
Di analoghe testimonianze se ne trovano in Plutarco di Strabone indicato addirittura col semplice (v. Append., n. 31) e in quella caleidoscopica collezione di documenti che è la “Poikìle Historia” di Claudio Oliano di Preneste (II d.C.), dove troviamo un ennesimo “Euèmeros o Messènios” (v. Append., n. 23). È appena il caso di ricordare che Eliano è ritenuto un redattore diligente e informatissimo, oltrechè un profondo conoscitore della grecità.
Finalmente abbiamo Quinto Ennio (239-169 a.C.), e Diodoro Siculo (I. a.C.), che si sono occupati “ex professo” di Evemero e ai quali si è attinto quasi esclusivamente per la ricostruzione del testo oggi disponibile della Hierà Anagraphè.
Dato il loro particolare interesse per la “sacra storia”; visti i particolari rapporti di Ennio, che, assai vicino nel tempo al romanziere-filosofo per esser nato una diecina d'anni dopo la di lui morte, ne ha poi tradotta e introdotta l'opera tra i latini e ha voluto che egli fosse tra i primissimi antesignani della Magna Graecia quando questa cominciava ad esercitare il suo potente influsso nel pensiero filosofico-religioso e nella vita sociale di Roma, siamo in obbligo di annettere alle loro testimonianze — tutte a favore della tesi messenista — un valore indiscutibilmente determinante. Di tali testimonianze possiamo trovare quelle enniane in Lattanzio86; e quelle di Diodoro, come si è già visto, sono riportate da Eusebio (v. Append., nn. 21 e 36).
Dopochè l'esame delle varie testimonianze ci ha consentito di stabilire l'origine messenia di Evemero, ci si viene a trovare di fronte a un ulteriore e ben più arduo scoglio: gli autori, cioè, non dichiarano esplicitamente di quale Messene intendano parlare, per cui occorre di bel nuovo andare alla ricerca di elementi sufficientemente probanti per conciliare i pareri anche qui discordi.
Di Messene, infatti, ce n'erano due l'una, la madrepatria, nel Peloponneso; e l'altra nella Sicilia orientale, la ex-Zankle, fondata dai Calcidesi di Eubea (secondo Strabone,) nel 730, ripopolata e rinsanguata nel VII sec. a.C., dai Messeni peloponnesiaci, dopochè soccombettero definitivamente nella lotta per l'egemonia contro gli Spartani e furono costretti a esulare.
All'epoca di Evemero e dei più vicini suoi biografi il nome della colonia sicula era esattamente identico a quello della madrepatria, e non s'era ancora modificato nell'intermedio “Messana” dei tempi di Cicerone per divenire poi l'attuale Messina. Ora, tutti i dati di studio disponibili che concernono Messene, nella nostra questione, si possono egualmente riferire a tutte e due, e non avremmo quindi un assoluto “ubi consistam” per credere in una città anzichè
A questo punto nessuno s'è mai presa la briga di trattare pazientemente la dilemmatica questione reperendo e utilizzando elementi psicologici e analogici desumibili, dell'opera stessa del Nostro, che potrebbero essere bastanti a colmare la lacuna della positiva testimonianza diretta.
D'altronde ogni procedimento scientifico non è assolutamente necessario che sia rigorosamente condotto in base ad esperienze dirette, a documenti patenti. Si può legittimamente raggiungere lo scopo della verità per induzioni e per deduzioni, analiticamente e sinteticamente; purchè, beninteso, siano strettamente osservati i canoni dei metodi logici o ontologici.
Orbene, i rari biografi si sono trincerati quasi tutti, compreso il De Block (op. cit., pag. 2), dietro la comoda professione di prudenza; in attesa di nuovo materiale di studio; e si è accantonato il problema la cui soluzione conferirebbe certamente una nuova luce alla figura di Evemero, contribuendo a precisarne il profilo storico-letterario. Qualcuno si è deciso a dire la sua, ma debolmente, senza convinzione e senza ponderate argomentazioni, per cui si è sempre rimasti sul terreno della congettura.
Come nella questione Messene — Agrigento — Tegèa — Cos la maggior parte propende per Messene, così nella questione Sicilia — Peloponneso la quasi totalità, fra quelli che si disancorano dal generale agnosticismo, parteggia per la Sicilia. Dobbiamo isolare il Krahner87, l'Egger88 e K.L. Blum89, i soli che fanno Evemero oriundo di Messene peloponnesiaca. Sono ipotesi di una fragilità assai evidente. Il Blum, ad esempio, suppone che Polibio, non facendo alcuna distinzione, intenderebbe alludere alla più antica Messene, per essergli più vicina (effettivamente dista pochi chilometri da Megalopoli, patria dello Storico).
Si fa anzitutto notare che non si può giurare che Polibio, mentre stendeva i passi delle Storie che ci interessano, risiedesse nella città natale, o soggiornasse cogli Scipioni a Roma, ovvero sostasse in una delle tante località dell'Impero, nelle Gallie, in Asia, nell'Italia meridionale, o aldilà... delle Colonne di Ercole: insomma potè anche trovarsi nel corso delle incessanti e lontane peregrinazioni effettuate per rinvenire materiale documentario per il suo “opus magnum”. In altri termini, all'epoca della sua attività letteraria gli fu forse materialmente più vicina la Messene peloritana, e dovette certamente, accingendosi a scrivere, sentir il bisogno di adottare una terminologia universale, scevra da campanilistici modi elocutivi; tanto più che era cosciente di non scrivere solo per i suoi concittadini di Megalopoli, bensì per masse di lettori di nazionalità e mentalità ben diverse dalla sua, e niente affatto disposti ad ignorare l'esistenza della Città sicula per l'omonima greca.
E — si badi bene — questa Città sicula, patria di illustri personaggi, per importanza seconda solo a Siracusa già prima di Polibio, chiave della Sicilia per la posizione strategica e per le peculiari doti del porto, era stata il perno delle operazioni militari durante le guerre puniche, contesa aspramente da Siracusani, Mamertini, Cartaginesi e Romani; città federata e propugnacolo di Roma, onorata di speciali privilegi e alfiere per parecchi secoli dell'azione siciliana.
Come poteva essere ecclissata — sia pure nel campo visivo ristretto di un abitante di Megalopoli — dalla cittadina peloponnesiaca quella che di lì a poco doveva essere definita nelle “Verrine” da Cicerone (nonostante la personale avversione del sommo oratore) “civitas maxima et locupletissima”; e che era — dice il Reina — “dichiarata per ispezial privilegio Città nobile e Capo di tutte le altre città dell'Isola esistenti sotto il dominio romano; ed anche i suoi cittadini onorati dalla cittadinanza romana”?
Trascurando le timide supposizioni dei tre autori precedenti, si trova del resto un unanime accordo per la Messene sicula. Non si dirà tuttavia che siano molto fondati alcuni argomenti del Gerlach90 che vuole integrare le testimonianze di quelli che chiamano Evemero “cittadino di Messene” con qulle che lo dicono “cittadino di Agrigento”, per farne risultare un Evemero “messenio di Sicilia”; è illogico, perchè Evemero è detto ugualmente “cittadino di Tegea”, nonchè di Cos: quindi l'identico ragionamento darebbe valore anche alla tesi opposta. E neppure può il Ganss istituire un rapporto diretto tra lo spregiudicato razionalismo teologico di Evemero con un presunto atteggiamento modernistico anticonformistico delle colonie (leggi: Messina) nei riguardi della Grecia91.
Ma, pur facendo a meno dei sofistici cavilli del Ganss, perfettamente inutili, gli studiosi moderni, al seguito dei vari Guigniaut92, Schoemann93, Böittiger94 ecc., parlano insistentemente di un Evemero “messinese”; talchè non c'è trattato o manuale di letteratura latina o greca, vecchia o recente, che non lo indichi così, senza esitazioni e senza riserve.
In ciò agisce, tra gli altri, un fattore non irrilevante, che forse non ha un valore assoluto: il fatto, cioè, che il rudiese Ennio in quelle sue opere divulgatrici della cultura moderna ellenistica a Roma (probabilmente tutte comprese nelle “Saturae”) abbia concentrato il suo interesse su scrittori italioti della Magna Graecia, sua terra d'origine (Rudie è cittadina dell'antica Calabria): e più particolarmente su scrittori sicelioti, ai quali doveva sentirsi vicino per comprensibile affinità spirituale. Siceliota è Empedocle di Gela (V sec. a.C.), il cui pensiero religioso informa misticamente il proemio e tutta l'opera degli Annali, l'“Hedyphagetica” è un carme imitativo dell'opera gastronomica di un certo Archestrato, anch'esso di Gela (IV a.C.); l'“Epicharmus” è un carme filosofico pitagorico ricavato dalle commedie di Epicarmo di Siracusa: è probabile che la terza opera minore enniana, l'“Euhemerus”, risalga a un altro siceliota, assodato che si tratta di un messenio.
Non si può accordare, ripeto, un valore assoluto a questo argomento, al quale si oppone la congettura del De Block relativa ad un criterio meramente metodologico adottato da Ennio nella scelta dei filosofi (però Archestrato non ha nulla a che fare coi filosofi...).
E Lattanzio?
Si vuole che egli non si sia occupato, nemmeno “a latere” della questione, perché nei suoi scritti si può leggere tanto “Messene” quanto “Messana”, paribus in utraque parte ponderibus.
Però, a rigore — e tiriamo fin qui le somme — se il termine “Messene” è ambiguo, non lo è “Messana”; e possiamo onestamente concludere annoverando anche Lattanzio (come Ennio, del quale in fondo è il portavoce) tra quelli che confermano Evemero nativo di Messina.
Forse è meglio scavalcare le intermediarie tradizioni per interrogare Evemero stesso, che meglio d'ogni altro può fornire indicazioni sicure quando Io si fa parlare attraverso i suoi scritti mutili, attraverso le frammentarie descrizioni con cui può rivelare, a chi forza e penetra la patina della formale impersonalità del romanzo, il suo pensiero, il suo abito mentale, gli slanci della sua potenza creativa, le tendenze e... le origini.
Occupiamoci dei luoghi sui quali si restringe il suo interesse: notiamo subito che le sue descrizioni non sono condotte su una rigorosa geografia, in quanto non esistono luoghi corrispondenti a quelli della Hierà Anagraphè, la quale è rimasta una specie di romanzo di avventura, o per meglio dire un “romanzo filosofico”, basato sulla descrizione di meravigliose terre remote che servisse di pretesto all'esposizione di dottrine, per simboleggiare ideali filosofici nelle condizioni di vita straordinariamente ordinate e felici di mitici popoli; secondo gli illustri esempi di Teopompo, che aveva escogitato uno pseudo-romanzo sulla Terra dei Meropi, e di Ecateo, di Abdera, che si era occupato dell'Isola degli Iperborei; e ciò in conformità alle esigenze dei gusti dei tempi.
Il viaggio stesso di Evemero, con quei precisi dettagli, può anche essere romanzesco — o per lo meno romanzato — pur senza escludere i rapporti con Cassandro e la vita errabonda dello scrittore-viaggiatore messenio. Tutt'altro.
Anzi bisogna reputare che egli si sia trovato vicino a quei paraggi al seguito di qualcuna fra le tante spedizioni esplorative intraprese verso l'India e l'Arabia dietro il primo impulso di Alessandro, sotto il cui patrocinio Androstene aveva dedicati molti viaggi per esplorare un vasto tratto dell'immenso litorale arabico; Archia poi aveva scoperto nel Sinus Persicus, di fronte ai Golfo di Gerra, due isole, delle quali la prima era stata battezzata da Alessandro Icaro e la seconda, Tylos, si era rivelata amenissima e ricchissima di ostriche perlifere; e Jerone di Soloi s'era proposto di circumnavigare l'intera penisola arabica, partendo dal delta dell'Eufrate per arrivare nei pressi di quello nilotico: ma non aveva potuto doppiare “un promontorio a sud che si avanzava sul mare a perdita d'occhio”. Cassandro non faceva che seguire la scia, densa di misteriose promesse e di gloriosi successi, del Grande; ed Evemero conferma tale mecenatismo scientifico dimostrando di aver colto molto del colore orientale per tinteggiarne con maestria i deliziosi paesaggi scoperti dalla sua immaginativa.
Gli antichi erano convintissimi che le sue descrizioni non corrispondevano neppure approssimativamente alla realtà. Tuttavia era eccezionalmente credulo Diodoro, il quale però fin da allora era valorizzato più per i suoi plagi anzichè per i giudizi di storico e di scienziato. Del resto si sapeva che credeva pure ingenuamente nella fiabesca isola di Jambule...
Eratostene e Polibio appunto per la sua pseudo-geografia definiscono Evemero “imbroglione”; Strabone in una enumerazione di contrade irreali e fantastiche accomuna la Terra Meropide, la Cimmeria e la Panchea.
Logicamente, dai primi viaggi di Androstene e di Jerone non si poteva ricavare una esatta conoscenza scientifica delle terre orientali, in ispecie del tratto di mare in questione, prospiciente gli attuali Yemen, Hadramaut e Oman, che non era stato attraversato dalle flotte di Alessandro reduce nel 325 dalle foci dello Indo e che era ancora rimasto pressoché inesplorato e contornato dalle meravigliose creazioni delle fantasie eccitate. Ne è prova l'attributo di “Felice” dato — in realtà non molto felicemente — alla parte sud-occidentale della penisola arabica.
Nei poeti latini — che di Evemero non potevano avere che qualche traduzione (certamente quella di Ennio o quelle derivate da Ennio) — ricorre spesso il nome di Pancaia, considerata come un paese realmente esistente: basta menzionare, tra i più importanti, Lucrezio (II, 417), Virgilio (Georg. II, 139: IV, 379), Tibullo (III, 2, 23), Ovidio (Metam. X, 309, 478), Claudiano (De Nupt. Hon. et Mar., 94), Plinio (H; N; VI, 34, 29; VII, 5; X, 2), ecc. Da notare che Virgilio fa di Pancaia un sinonimo di Arabia; mentre Servio, nel suo commento alle Georgiche (II, 139) crede si tratti di una contrada della Arabia. Comunque, sarebbe cosa inutile prender atto delle asserzioni irresponsabili dei poeti che ordinariamente derogano da presupposti scientifici. Se invece andiamo a compulsare i più autorevoli geografi, dei tempi di Evemero e successivi, troviamo che Artemidoro di Efeso (I sec. a.C.) riferisce cautamente scarse e vaghe notizie sul Mare Erythraeum, e sulla costa sud-orientale dell'Arabia95; dippiù non ci dice fino al II sec. d.C. Arriano (un esperto che estese la sua indagine fino alla India), che accenna confusamente a molte isole, non meglio identificate, sparse in quel mare.
Eppure molti dei moderni hanno sprecato il loro tempo tentando di riconoscere in quelle latitudini le tre isole di Evemero; come, ad esempio, il Vossius, che era convinto di aver rintracciato una località dal nome di Pancaia: poi dovette ricredersi. Il Böttiger credette anche lui, seppure con poca convinzione, nella esistenza delle isole evemeriche a sud dell'Arabia. Ètienne Fourmont infine voleva dimostrare che il nome “Panchaia” non sarebbe altro che “Panck” o “Phanck”, un'isola vicina all'Arabia; e Panara la città di “Pharan”: supposizioni fondate sulla casuale affinità fonetica dei nomi, che non è poi difficile riscontrare in questi e in numerosi altri casi.
I tentativi sono risultati tutti vani, perchè Evemero, seppure intravvide confusamente con i suoi occhi dei gruppi insulari in quei mari, certamente non vi vide quell'arcipelago descritto che non corrisponde nè alle attuali Curia Muria, nè a Socotra, nè a Masirah, nè ad altra isola. Non lo vide Evemero nè alcun altro, fosse greco o barbaro, come dice Plutarco: “oùte bàrbaros outh'Hèllen... (De Isid. et Osir., 23, 360 A); e coloro che si ingegnano di provare la esistenza di Pancaia hanno le stesse probabilità di successo di chi volesse provare... la Araba Fenice, la cui leggendaria vicenda ciclica si fa concludere, in un passo di Plinio96, proprio in Pancaia, nella città del Sole, assecondando l'esigenza di accoppiare un luogo fantastico ad un essere fantastico.
Si deve ammettere che vi sono degli espliciti punti di riferimento in base ai quali si potrebbe tentare di circoscrivere la posizione geografica delle tre isole: (v. Append., nn. 38, 39, 40 e 41).
Senonchè alla prova dei fatti i riferimenti risultano del tutto illusori e la localizzazione praticamente impossibile, nonostante la descrizione dei luoghi, dei tempi e delle distanze dalle coste dell'Arabia orientale e della Gedrosia.
In realtà Evemero aveva trovato che il paesaggio misterioso e incantato luccicante in quel lontano orizzonte dove in quel tempo si volgeva l'interesse morboso di scienziati, di navigatori, di avventurieri, di scrittori, era il più idoneo alla realizzazione del suo disegno; il filosofo si accordò col romanziere per dare una degna cornice al sistema filosofico, per trovare un pretesto alle invenzioni della sua utopia politica. Occorrevano degli addentellati storicamente certi; occorreva un punto reale di partenza, nel tempo e nel luogo, per rendere credibile il punto di arrivo epperciò egli elaborò un itinerario che, via via che si allontanava dalla base di partenza, diventava sempre più preciso, minutamente misurato con ostentata acribia, su dimensioni fittizie abilmente strutturate con perfetta verisimiglianza, tanto da indurre gli antichi a credere nella realtà fisica dell'arcipelago favoloso e in un effettivo rapporto di derivazione da Creta, punto ideale di origine della sua teologia, avallato da artificiose testimonianze di toponimi, tombe, e influssi linguistici cretesi, in concordanza con molte altre tradizioni teogoniche già affermate (v. Append., n. 42).
Non è chi non avverta nella descrizione dell'arcipelago pancheo una sorprendente naturalezza che prevale sulle solite descrizioni di maniera e i soliti paesaggi convenzionali facili a trovarsi là dove la fantasia è tra i fattori precipui; una spontanea immediatezza che trascende l'arte raffinata del romanziere e che deve affondare le radici in lontane reminiscenze, in impressioni di paesaggi certamente già noti: ciò che ha tratto subito in inganno Diodoro. Se nei mari battuti dai pionieri macedoni Evemero non potè vedere le sue isole inesistenti, come s'è concluso, si deve supporre che egli le avesse viste altrove.
Non è difficile intuire che il mondo ideale evemerico sia una ricostruzione contesta di elementi reali; come non è difficile discernere alcuni particolari etici, folkloristici e culturali esotici, armonicamente fusi da una mente ellenizzata: vedasi ad esempio il drastico divieto per i sacerdoti di varcare il sacro recinto dove si accumulano ingenti masse d'oro e d'argento (v. Append., n. 43), il fastoso abbigliamento del clero e dei cittadini panchei (v. Append., n. 44) e certe particolari forme rituali (v. Append., n. 45) di evidente importazione persiana; inoltre la abolizione del cannibalisnio da parte di Zeus97 che si ispira certamente tanto più che in Grecia è stata sempre sconosciuta l'antropofagia) al divieto del dio egiziano Osiride che si legge in Ecateo98, e ancora non pochi elementi dottrinali cretesi.
Ma tutto il resto, di quel che non è creazione fantastica, lo schema geografico, le peculiarità paesaggistiche, le condizioni ecologiche e ambientali, gli ordinamenti sociali, ecc. donde son desunti? Donde si alimentò la fantasia? Se non nel Golfo Persico, se non nel Mare Erythraeum, nè nel Mare Arabico, nè nell'Egeo, nè nel Ponto Eusino, dove altro mai brillarono agli occhi sognanti dell'artista le radiose visioni che son pervenute a noi reviviscenti in una fiabesca anabiosi localizzata nei remoti mari orientali?
Siamo costretti a riprendere in esame la ipotesi “Evemero messinese” per trovar la risposta a tanti interrogativi, perchè solo nelle Eolie si trova il prototipo dell'arcipelago pancheo, con un incredibile numero di analogie geografiche e toponomastiche, oltrechè economiche e politico-sociali.
A una ventina di chilometri dal litorale nord-orientale siculo snodantesi dolcemente tra placidi seni e àmenissimi golfi, nelle glauche trasparenze di un affascinante specchio d'acqua vigilato dalle antiche sentinelle Milazzo e Tindari, sorgono le isole Eolie, multiformi scogli ciclopici, policrome rocce rivestite di lussureggiante vegetazione e brulicanti di misteriosi anfratti cavernosi rischiarati dai sinistri bagliori dei vulcani: spettacolo ben visibile ad occhio nudo per chi si affaccia dai contrafforti delle montagne nebrodiche digradanti al mare, nonchè per i Messinesi, solo che si sporgano dalla cresta dei Peloritani.
Delle sette isole maggiori dell'argipelago vulcanico (Vulcano, Lipari, Salina, Panaria, Stromboli, Filicudi e Alicudi), solo le prime tre hanno avuto importanza, oggi e ai tempi di Evemero; anzi anticamente le altre non erano nè abitate nè coltivate, come conferma Tucidide che si occupa solamente di queste tre isole, pur annoverandone un'altra, la lontana “Strongùle” (III, 88, 2). Orbene, se leggiamo l'esordio dell'opera evemerica, troviamo gli stessi dati geografici: (v. Append., n. 41). Pure, una variante di Eusebio vuole che per raggiungere le isole siano occorsi parecchi giorni di navigazione attraverso l'Oceano: (v. Append., n. 40).
Probabilmente sarà un parto della fantasia di Eusebio che vuol surrogare quella di Evemero là dove essa manca. Comunque, noi siamo in possesso del passo originale di Diodoro che ha già detto “sui confini davanti al littorale"; cioè diremmo sul limite delle acque territoriali, come nel modello lontano che il romanziere ripete, spesso forse inconsciamente. Ma proseguiamo. ...mìa mèn hè prosagoreuomène Hierà... (DIOD., V, 41). Nella realtà la prima isola delle Eolie — per chi viene dalla costa sicula — si chiama Vulcano; un nome relativamente recente, che denunzia una spiccata marca italica; ma noi sappiamo che, andato in disuso il più antico che ci risulti, Thermessa (da porsi in relazione con le sue note sorgenti termali (thermà hydata), vi si sovrappose il più diffuso “Hierà Hephaìstou”.
Al dio Efesto l'isola si era da tempo anticchissimo consacrata, da quando all'esiguo nucleo originario ausonio99, rappresentato da Liparo, figlio dell'eponimo Ausonio, e successivamente rinsanguato dall'altrettanto mitico gruppo etnico di Eolo, oriundo da Troia100, erano subentrati i Rodii e i Cnidii al tempo della 50.ma olimpiade101. Questi, scacciati da Lilibeo ad opera dei Cartaginesi di Motya, vennero ed ellenizzarono completamente le isole, diffondendo il culto di Efesto102 che poi doveva sempre essere mantenuto; per cui durante parecchi secoli l'isola fu identificata con l'appellativo tratto dal nome della divinità epicoria, o, più brevemente, col semplice “Hierà”. Così Tucidide103, che per questo attinge direttamente a un siciliano, Antioco di Siracusa; così pure Callimaco104, Diodoro105 e Strabone: “hèn nûn Hieràn Hephaìstou kaloûsi“106. E anche al tempo di Evemero si intendeva con questo nome la nostra isola, naturalmente.
In prosieguo di tempo l'arcipelago intero, chiamato “Liparaìai nèsoi” (Strabone, Polibio, Eustazio...) oppure “Aiòlou nèsoi” (Tucidide, Diodoro...), con riferimento al culto di Efesto assunse anche la denominazione di “Hephaìsteiai”, o meglio: “Hephaistìades” ; quindi — c'informano Plinio107 e Cicerone — le “Hephaestiades” furono dai Latini chiamate “Volcaniae” dal nome italico corrispondente all'ellenico Efesto; finché ai tempi di Virgilio quest'ultimo nome si restrinse ad indicare l'isola particolarmente sacra al dio:
”Volcani domus et Volcania nomine tellus”
(Aen., VIII, 422)
Riepilogando e tornando al nostro assunto: la prima isola dell'arcipelago pancheo ha l'identico nome che molti secoli prima di Evemero, e ancora dopo di lui, portava la prima isola dell'arcipelago siculo.
Altro particolare: “...Hierà, kat'hèn ouk èxesti toùs teteleutekòtas thàptein” (v. Append., n. 46).
Effettivamente in Vulcano mancano del tutto celle funebri, tombe, sepolcreti che comunque attestino di quei tempi la pratica delle inumazioni o incinerazioni effettuate nel luogo. Si riscontrano viceversa numerosi nella vicina Lipari (nelle contrade Diana, Portinenti ecc.); anzi con una rapida periegesi archeologica si può rilevare nettamente che l'inumazione era in uso in tutte le isole sedi di convivenze sia pure esigue: bastano le necropoli emerse a Panaria, a Salina, a Filicudi e persino a Stromboli (di epoca ellenistica in quest'ultima). Ebbene, a Vulcano non c'è la benché minima traccia108.
Alcuni — fra i quali lo Spallanzani — sostengono che quest'isola non sia stata mai abitata, traendo argomento dalla assenza di descrizioni presso gli scrittori greci. Possiamo rispondere che la prova “ex silentio”, seppure valida, lo sarebbe per l'epoca preistorica e per quella greca antica; ma ai tempi di Evemero — questo è quello che conta per noi — era abitatissima, e sono sufficienti a provarlo le numerosissime caverne con nicchie intagliate nella roccia, risalenti all'epoca ellenistica (lo Spallanzani non ne ebbe notizia); è sufficiente a provarlo il fatto incontestabile che qui solo sono esistite sorgenti di acqua potabile; e l'acqua, è risaputo, è il punto di polarizzazione delle correnti migratorie umane. Senza dire della posizione geografica per cui quest'isola, centro di misteriose leggende di antiche escatologie e sede del culto di Efesto, del quale vi era addirittura localizzata la fucina, si presenta per prima ai naviganti provenienti dalla terraferma; e non si comprende perché sarebbe stata posposta all'incombente vulcano attivo della remota Stramboli, sede più idonea alla nidificazione di alcioni e gabbiani.
Specialmente verso la fine del IV sec., quando il capoluogo eolio per premunirsi dalle avide mire espansionistiche di Siracusa e dei Cartaginesi si dovette unire in lega con Tyndaris e Agathyrnon sul littorale settentrionale siculo, dovettero essere così intensi i rapporti fra Lipari e la Sicilia che non poteva essere trascurata Vulcano, posta sulla rotta battuta dalle navi.
— Ma — si dirà — è un paese troppo desolato e inospitale.
E se ne dovette bene ricordare Evemero se non le ha attribuito la flora mediterranea, i vigneti, gli ubertosi frutteti e gli incantevoli giardini di Pancaia. L'Isola Sacra non produce frutti: (v. Append., n. 47); lo dice espressamente Evemero, il quale, combinando le reminiscenze giovanili con l'esigenza di ambientare la sua trama in un paesaggio del Vicino Oriente, può ben a ragione associare la flora tipica dei terreni caldi e aridi al primo gigantesco scoglio che si erge nella sua fantasia, e vi assegna colture di incenso, di mirra, di “paliurus” per completare così il carattere sacro dell'Isola: (v. Append, n. 48). “Deserta e calda” era definita da Strabone Vulcano, la roccia dai fantasmagorici, lugubri riflessi, orrida all'aspetto109; quindi indocile alla mano dell'agricoltore cnida; coltivabile come può esser coltivata la “Hierà” evemerica, con la quale ha persino in comune — sia pure con spiegabilissima approssimazione — quei sette stadi (=1.200 m. circa) di distanza dalla seconda isola: in effetti Vulcano dista da Lipari un chilometro circa.
Nella terza isola incontrata da Evemero, la maggiore (nelle Eolie la maggiore è la seconda), egli ha collocato come centro politico-amministrativo la città di Panara: (v. Append., n. 49).
Non ce la sentiamo di considerarla un'altra casuale coincidenza; ci troveremmo veramente imbarazzati davanti ad una serie sorprendente di coincidenze.
Panarèa o Panaria è il nome che tuttora designa la quarta isola dell'arcipelago eolio; quindi c'è una certa divergenza dalla geografia del romanzo di Evemero, che trasferisce nel cuore della isola maggiore il ricordo di una località prossima, mentre va alla ricerca di un nome per la capitale del suo mondo meraviglioso. Ai suoi tempi invero si avevano conoscenze confuse sulla dislocazione delle isole Eolie, in ispecie delle minori e più lontane alla vista degli abitanti della costa sicula, anche per la natura stessa di molti isolotti di dimensioni tali da poter essere considerati i rilevanti scogli: Basiluzzo, Lisca Bianca, Strombolicchio ecc.; e mentre egli stende la sua descrizione sotto il vivo impulso di antiche sensazioni visive e auditive, il nome di Panaria riaffiora nella sua mente indistinto, dissociato dalla idea di località a sè stante, non essendo stata l'isole nè abitata nè coltivata er molto tempo dopo la colonizzazione dorica dei Cnidii.
Alcuni scrittori antichi non la menzionano affatto: non ne parla Tucidide, e non ne parlò perciò il siracusano Antioco. Successivamente è designata con due nomi; come del resto le altre isole: Lipari fu detta “Meligunìs” oppure “Lipàra”; Salina era pure indicata come “Dicyme” (= duplice, con riferimento alla caratteristica orografia: due monti divisi da una selletta); Vulcano, l'antica “Hierà” s'è visto che si identificava con “Thèrmessa”; Alicudi, cioè “Erikòdes” con “Osteòdes”110; Basiluzzo, cioè “Basileìdion”, con “Herakliòtes”. Presso gli scrittori greci non ricorre il nome “Panaraìa”. Essi in luogo della “Pagnarìa” del Geografo Ravennate (pag. 406) citano la cosiddetta “Euònymos”11: la “beneaugurale”, equivalente eufemisticamente a “sinistra”, è appunto quest'isola, la quale per i naviganti che lasciavano il porto di. Lipari si scorgeva immediatamente a sinistra. “Panaraià” (=sottile) invece doveva essere adoperato presso i naturali e i popoli viciniori della Sicilia, e dovette certo pervenire alle orecchie di Evemero112. Quanto poi alla “Pagnarìa” del Ravennate, non si può negare il suo evidente sapore ellenico; e la progredita corruzione della forma originaria, certamente greca, testimonia l'uso secolare del vocabolo che doveva già esistere ai tempi evemerici; come è stato del resto per gli altri toponimi coevi di Pagnaria: Erculis, Lipparis, Stroile, Didiini, Enicodes, Basilidin, Erigodes, le cui forme primitive erano state, nell'ordine: “Herakliòtes, Lipàra, Strongüle, Didüme, Phoinikòdes, Basileìdion, Erikòdes”.
Non vi è compreso “Vulcana” che non deriva da analogo processo etimologico, ma, come si è visto, trova spiegazione nelle vicende dell'evoluzione religiosa.
Ciò considerato, si può tranquillamente affermare che il nome dell'isoletta sicula “Panaraià” era noto ad Evemero, e che l'altro nome fittizio di Panara potè rampollare da quello nella mente dell'Autore, come una eco, tarda e fedele.
Giova ancora notare — e chiudiamo la questione toponomastica — che l'epiteto di “hikètai tou Diòs toû Triphulìou” (=supplici di Zeus Trifilio), dato agli abitanti di Panara, trova pure riscontro in un altro nome che secondo la Geografia di Tolemeo (III, 4, 8) spettava a una delle “Aiòlou nésoi”, da identificarsi probabilmente, per esclusione, con Basiluzzo; questo nome è per l'appunto “Hikesìa”, cioè: “Terra dei Supplici”.
V'è uno stridente contrasto fra la ristrettissima vegetazione dell'Isola Sacra e quella lussureggiante dell'isola principale, Pancaia, alla quale è riservata una descrizione di sapore vagamente naturalistico, edonistico, rinascimentale, che rientra anche nei metodi della moda contemporanea: un pò di colore di effetto, per assecondare ed accarezzare i gusti dei lettori (v. Appen., n. 53).
L'Autore s'è voluto concedere qui un quadro di maniera, con la policromia dei prati smaltati, con l'olezzo dei fiori, con la cornice dei boschetti deliziosi, col fruscio delle brezze, col sottofondo armonioso del concento degli uccelli saltellanti tra i rami flessuosi; e, naturalmente, non manca il gorgoglio dei ruscelli incantati. Qualche elemento realistico: i festoni e i filari delle viti,
Sceverando tra gli accessori convenzionali, sembra di vedere, rivestito dell'arte del romanziere, il contrasto paesaggistico Vulcano-Lipari. Quella stessa straordinaria fertilità Diodoro e Strabone la trovarono in Lipari che ai loro tempi aveva già raggiunto una floridezza divenuta proverbiale113. Il nome stesso “Liparòs”, di origine greca, equivale a “fertile-profumato-beato”, e gli scrittori contemporanei di Evemero lo usavano solo nella prima accezione.
Si comprende che non a caso all'isola è toccato tal nome. Era allora — e in parte lo è tuttora — la “Liparà” per eccellenza, con una temperatura mediterranea mitissima, con una lussureggiante vegetazione nella quale prosperavano alberi di frutta squisita d'ogni sorta, leguminacee, palmizi, capperi (caratteristici allora ed oggi, ed esportati in tutto il mondo); ma soprattutto vi era tenuta in onore la viticoltura, come testimoniano le monete di tutti i tempi, che recano con insistenza i simboli del tralcio e del grappolo. Ancora oggi le malvasie, i moscati le passoline liparote corrono le vie del mondo.
La stessa preminenza è data in Pancaia alla viticoltura: (v. Appen., n. 50)114.
Tuttavia non sarebbe stato completo il quadro delle attività economiche panchee se la produttività non fosse stata generosamente estesa alle industrie estrattive: (v. Append., n. 51). L'accenno a tutti questi ricchi giacimenti, integrato da altra notizia pervenuta a Plinio115, dà chiaramente a intendere che l'Autore immagina Pancaia come un bacino minerario importantissimo.
Lo era stato pure — e probabilmente glielo avrà suggerito — Lipari, nella cui economia costituiva una voce essenziale il valore della pietra pomice estratta e esportata in tutto il mondo, col suo derivato, l'allume, di cui i Liparesi detenevano il monopolio assoluto116, insieme alla ossidiana117. Naturalmente, si trattava di prodotti troppo caratteristici e noti in tutto il mondo perchè Evemero non sentisse il bisogno di generalizzare nei comuni metalli preziosi.
E le altre prerogative idroterapiche che conferì alla sua isola (v. Append., n. 52) sembrano riflettere quelle di Lipari, dove è risaputo che l'industria del forestiero, non solo oggi ma anche ai tempi evemerici, costituiva con quella enologica e con la estrattiva un trinomio di fattori economici determinanti perchè l'isola liparese è stato sempre uno dei più celebrati luoghi di soggiorno e di cura, sotto il triplice aspetto climatico, balneare, idrominerale. Le sorgenti termali di Bagnosecco e di S. Calogero, ricche di solfati e altri sali, erano frequentatissime dai Greci e dai Romani, come testimoniano gli avanzi architettonici dei “calidaria” e le descrizioni di Strabone118 e di Ateneo119, che decantano quelle “thermà hùdata”, subaeree e subacquee. Diodoro in particolare dice a proposito delle terme di S. Calogero: (v. Append., n. 54).
Anche questo tratto in comune fra Pancaia e Lipari — che da solo sarebbe stato insignificante — sommato agli altri, contribuisce a far ravvisare gli estremi del processo mentale dell'Autore della “Hierà Anagraphè”. Teopompo di Chio, continuatore, con Senofonte, della storia tucididea, non ebbe ritegno di favoleggiare di uno strano Paese dei Meropi, descrivendone voragini misteriose, alberi colossali e animali mastodontici120; mentre Ecateo di Abdera immaginava la Città dei Cimmerii, degl'Iperborei, situata nell'estremo settentrione, in un punto donde era visibile da vicino la luna: in quel luogo Apollo ripagava gli abitanti della devozione tributatagli ponendoli in un particolare stato di beatitudine121. Delle Sette Isole degli Adoratori del Sole si occupò Jambulo, che pretendeva di averle scoperte nel corso di un avventuroso viaggio lungo le coste indiane, trovandovi un paradossale sistema comunistico fra individui umani dalla mostruosa conformazione anatomica, dell'altezza di quattro cubiti, con due lingue simultaneamente e diversamente parlanti, con una specie di epiglottide sulle orecchie, con le ossa elastiche; e infine con costumi ancora più ripugnanti: avrebbero praticato una letterale comunanza di donne e bambini122.
Persino Platone, nel suo dialogo “Crizia”, creava la remotissima Atlantide, non meno inconsistente del suo “iperuranio”, localizzandovi un sistema politico-sociale basato sull'assolutismo statale e su un comunismo integrale, assoluto, in rigorosa conseguenziale aderenza alle sue premesse idealistiche; vi è annullata completamente ogni finalità individuale, ogni diritto alla proprietà singola, alla casa, al vitto, al vestito proprio; vi è depauperata dei suoi valori la personalità umana per essere assorbita totalmente dallo Stato: quindi anche per lui non si può possedere nè moglie nè figli, essendo questi e quella proprietà dello Stato, di tutti.
E vogliamo includere anche Diodoro, che era stupito e convinto dell'esistenza dei fiabeschi Vaccei di Spagna.
Potrebbe alcuno tentar di far rientrare Evemero nel novero dei numerosi speculatori dell'epoca ellenica ed ellenistica che, in concomitanza col ribulicare dei profondi fermenti nelle coscienze di allora contro gli ingiusti ordinamenti vigenti, elaboravano i vari sistemi politico-sociali rispondenti alle nuove esigenze delle progredite istituzioni agli aggiornati programmi riformistici, ai nuovi ideali sociali, alle scaltrite rivendicazioni economiche.
Ma nell'opera di Evemero troviamo differenze sostanziali rispetto alle elaborazioni dei nominati autori, da rendere lontano e difficile il confronto. Meropi, Cimmerii, Vaccei ecc. sono creazioni semplicemente utopistiche che poco o nulla hanno in comune con la realtà, o con la possibilità; ardite e mirabolanti fantasticherie imperniate su dati fisici e antropometrici irreali o anomali, inverosimili o soprannaturali aventi lo scopo di divertire la curiosità del lettore; oppure astratte elucubrazioni filosofiche.
Nel mondo evemerico possiamo osservare — come osserva il Pöhlmann — che non ci sono nè giganti smisurati nè pigmei, non vi sono tri — o quadrisecolari longevità, non portenti taumaturgici, non sovrumane potenze, non illimitate licenze erotiche, non ibride allettanti comunanze di donne. Nella “Hierà Anagraphè” non si sfiorano i limiti dell'assurdo; niente di mostruoso ci è stato tramandato da Diodoro, nonostante che questo storico, ingenuo e credulone, sia incline ad accettare le cose più strampalate e in verosimili. Evemero soddisfa pienamente le esigenze logiche ed etiche, rispettando l'istituto familiare, la dignità della donna, i diritti naturali sui figli, l'elementare necessità di una propria casa... Insomma, tutto rientra nelle dimensioni del naturale, di una natura che è prossima alla perfezione e che non è uno “specimen” di tutte le perfezioni, perchè Pancaia rappresenta un grado elevatissimo di civiltà dal quale la generazione di Alessandro non poteva sentirsi molto lontana e alla cui attuazione niente aprioristicamente prioristicamente avrebbe potuto opporsi. Tutt'altro. Anzi i principi razionalistici suoi quali è strutturata la dottrina evemerica si andavano già formulando e professando e col volger dei tempi si sarebbero attuati in pieno, sotto molti aspetti letteralmente.
Ebbene, il sistema sociale di Evemero era allora già in atto, pressappoco negli stessi termini, in una terra prossima alla patria d'origine dell'Autore: a Lipari. Qui era in vigore un assetto politico-sociale caratteristico, unico, che ebbe vasta risonanza presso tutti gli scrittori antichi e che trova stretta rispondenza nel comunismo pancheo. Ma vediamolo, questo comunismo (v. Append., n. 55).
Da quanto si legge, nella maggiore isola dell'arcipelago pancheo la casta sacerdotale detiene incontrastata il potere giudiziario, l'esecutivo e — si può comprendere benissimo — il legislativo; sotto la loro assoluta e completa giurisdizione è quasi abolita la proprietà privata a favore di una collettivizzazione temperata da assegnazioni speciali di quote di ripartizione in base ad un criterio di merito. Una sintesi, o meglio un felice abbinamento di teocrazia e di comunismo.
A Lipari intanto si era consolidato uno dei più perfetti comunismi di tutti i tempi. Vi si era configurato come soluzione spontanea, necessaria ed originale dei problemi creati dalla peculiare conformazione geografica, dalla situazione politica, dalle condizioni economiche dell'epoca. Si era istituito da quando tali fattori si erano determinati, dopo la colonizzazione dorica dei Cnidi, pressappoco dal sec. VI123, ed era durato fino alla prima metà del sec. III124, quando continuò a sopravvivere nelle isole minori125, in ispecie a Vulcano e Salina.
Ma di quel che fu dopo di Evemero noi non ci occuperemo.
Il nuovo elemento etnico, incline per indole naturale alla avventura, alla marineria e al bellicismo, sovrappostosi agli antichi isolani, introdusse un nuovo spirito di audacia, di resistenza, di rappresaglia contro le azioni di pirateria dei Fenici e dei Tirreni126, per cui, costruite solide fortificazioni a difesa dell'isola maggiore127, si indisse uno stato di emergenza che poi si mantenne definitivamente in uno stabile assetto di guerra con posti fissi di osservazione sulle alture delle isole, dove le vedette si alternavano in rigorosi turni di guardia per avvistare e prevenire in tempo i pericoli delle aggressioni. Esattamente come in Pancaia: (v. Append., n. 56).
Così la costituzione politica di Lipari andò articolandosi caratteristicamente su una base dualistica: la classe degli agricoltori-pastori e quella dei marinai-guerrieri128, le cui attività si integravano reciprocamente in una armonica coesistenza, in un perfetto equilibrio, per il raggiungimento del duplice fine della prosperità e della sicurezza. Se era indispensabile un esercito permanente, perchè continue erano le incursioni piratesche, ne conseguiva che dalla produzione dei beni, garantita dalla vigile e diuturna protezione dei guerrieri che perciò erano distratti dalle attività produttive, dovevano godere in comune anch'essi per logico compenso. Essi d'altra parte si obbligavano a dividere coi concittadini il bottino ricavato dalle azioni di rappresaglia contro i corsari : “Mos erat civitati velut publico latrocinio partam praedam dividere"129.
Questo comunismo razionale, funzionale, condizionante la persistenza della combattività necessaria per sopravvivere, si estendeva ovviamente alle isole minori, la cui coltivazione era parimenti condizionata dalla difesa della flotta di base a Lipari; e ne risultava che tutto l'arcipelago eolio era organizzato in un'unica collettività praticante persino i banchetti in comune130.
Ci troviamo in presenza di un singolare collettivismo che è la quintessenza del vero comunismo, senza alcun precedente e di una singolare affinità con le posteriori teorie di Campanella, di Marx, di Engels; ed è soprattutto — come vien descritto da Reinach, da Fustel de Coulanges, da Viollet, da Pölmann131 ecc, — il prototipo dell'ordinamento politico-sociale pancheo, che ci appare fedelmente ricalcato sulla falsariga di quello, nonostante qualche necessaria divergenza, nonostante quella particolare suddivisione di ordine tecnico-pratico escogitata da Evemero nelle tre categorie dei sacerdoti: e artigiani, dei soldati e pastori, e della terza (la più numerosa) degli agricoltori; nonostante che nelle istituzioni panchee il collettivismo trovi dei limiti in una specie di teocrazia mantenuta dai sacerdoti (residuo della originaria monarchia di Giove?) e in fondo rispondente alla esigenza artistica del romanzo cui si doveva conferire un certo colore orientale.
Ma del resto, escluso ogni rapporto con le strampalerie di Platone, di Jambulo e di Ecateo, donde avrebbe potuto Evemero attingere, se, a quanto risulta, fino allora soltanto a Lipari erano attuate teorie socialistiche del genere? Una identica o affine costituzione politico-sociale ancora non si è potuta reperire nè nella storia coeva nè in quella anteriore ad Evemero. Il più che si potesse ipotizzare era che il sistema fosse stato importato dall'elemento ellenico, dato che era stato realizzato dopo del suo insediamento nelle Eolie: ma anche questa ipotesi cade, perchè non risulta la benché minima traccia tra i Dori cnidii:, anzi non ne esistono in tutta la Grecia, nonostante che vi si riscontri la più disparata casistica in materia costituzionale, data dalle condizioni geo-politiche di allora e dalla conseguente coesistenza delle numerose “polis". Tra i primi dèi celesti di Pancaia immortali ed eterni, Evemero fa figurare il Vento: (v. Append., n. 35). Si sa però che i più antichi miti dei Venti sono stati sempre localizzati nelle isole Eolie, in quella “Aiolìs” omerica del X e del XII dell'Odissea concordemente identificata con Stromboli, l'isola “rotonda" o con Lipari, “la lucente” (Festa); caverne, scogli, effetti cromatici ecc, sono altri buoni argomenti “ad adiuvandum”. Ma l'impressione che Evemero, a proposito del Vento di Panchea, si sia ispirato alla leggenda eolia, nasce spontanea quando leggiamo in Diodoro (v. Append., n. 36).
Se i personaggi evemerici sono stati divinizzati dagli uomini grati per i loro benefici, Urano è assunto tra gli esseri divini per i suoi meriti — per così dire — scientifici per essere stato il grande pioniere della meteorologia: e così configurato non può essere altro che nolo di Lipari.
Secondo i racconti e le tradizioni antiche, e sulla scorta di elementi paletnologici, si può dedurre che l'isola di Lipari abbia toccato l'apice della potenza e dello splendore al tempo del governo di Eolo, giunto da Troia nelle isole e trattenutovi dal re Liparo del quale sposò la figlia Ciane. Signore munifico ed ospitale, come è descritto nel poema omerico, si costruì una fastosa abitazione in Lipari, sull'acropoli, là dove il Campis asserisce132 che se ne vedevano gli avanzi alla fine del XVII sec. d.C.; invece a Stromboli, secondo la leggenda, avrebbe innalzato un altissimo edificio che gli serviva da specola per le sue osservazioni meteorologiche, basate essenzialmente sull'esame dei fenomeni del vulcano : così, osservando le fiamme ed il fumo, perveniva alle previsioni del tempo e persino dei fenomeni sismici, destando l'ammirazione dei contemporanei che fecero di lui il signore dei venti e quindi una semidivinità investita di poteri sovrumani. Infatti nell'Odissea (K, 2) questo “teantropo” — se così si può dire — imbrigliati quasi tutti i venti, li consegna a Ulisse, rinchiusi nel famoso otre.
Dopochè fu assurto al rango di divinità, fu proprio l'evemerismo razionalista che lo ridimensionò e lo riscoprì nella funzione di ecista, di fondatore e pioniere delle città eolie, saggio sovrano, protettore e benefattore, oltrechè inventore della vela e soprattutto esperto “anemologo" che avrebbe messo a profitto le sue esperienze per incoraggiare e proteggere i traffici marittimi dei sudditi. Non poteva logicamente non esser coinvolto nella sorte toccata ad Urano, la figura e i caratteri del quale sono tratteggiati su quelli del misterioso personaggio eolio con tale evidenza che su tale rapporto Eolo-Urano non ci dovrebbero essere dubbi.
La figura caratteristica del dio-meteorologo, fin dalle più vecchie teogonie, è intimamente connessa coi tipici caratteri orografici e coi fenomeni vulcanici dell'arcipelago eolio. Solo quelle vette strapiombanti sul mare, stagliartisi isolate all'orizzonte battute violentemente dalle bufere, che dopo la colonizzazione cnidia furono utilizzate come osservatori, per avvistare a distanza pericoli dei corsari, potevano essere le naturali specole del mitico dominatore dei Venti; ed è una di quelle leggendarie vette che riappare nello arcipelago pancheo in quell'“Ouranoû dìphros" (Diod., V, 44) sul quale si è installato il vecchio Urano, intento ad osservare le Stelle e i Venti.
Dopo dunque le precedenti constatazioni e considerazioni, non può che cadere ogni dubbio sulla reale esistenza degli elementi fisici, biologici e antropici sopra dei quali Evemero fondò la sua ricostruzione; come altresì è individuata la località che gli ha fornito il materiale romanzesco; per cui di conseguenza ci si può decisamente orientare, sulla base degli altri dati più diretti e sicuri, nella ricerca della patria di questo importantissimo e sconosciutissimo scrittore, sempre citato e mai identificato, che si rivela e si conferma ancora una volta un autentico messinese, di quella antica e nobilissima Città che affonda le millenarie radici nei tempi più gloriosi della antica civiltà e che, allineandosi con gli altri grandi centri spirituali della Grecia, accanto ad Atene, Sparta, Mileto, Siracusa, Cotrone, Alessandria, Cos, cooperò egregiamente nel campo dell'umano sapere col contributo dell'ingegno dei suoi Figli più degni, tra i quali è fiera di annoverare anche Evemero. 1. Di ciò sono esempio i fatti del 413, inquadrati nella celebratissima Guerra Peloponnesiaca (431-404).↩ 2. BELOCH, Griechische Geschicite (Strasburgo 1912-14), vol. II, pag. 590.↩ 3. R. DE BLOCK, Évhémère (Mons, 1876); pag. 3, nota I.↩ 4. ZUCKER, Philol. LXIV, (1905,465).↩ 5. Nell'attuale Kazahstan.↩ 6. È sua iniziativa la ctsis della colonia di Antipatrea, nella Illiria meridionale, e di Cassandria in Macedonia.↩ 7. PFEIFFER, Callimachus; Oxford 1953, vol. II, p.XXXIX.↩ 8. PLIN., N.H., XXXVI, 79: Qui de iis (sc. de pyramidibus) scripserint sunt Herodotus, Evemerus....↩ 9. RITTER, Histoire de la Philosophie ancienne (trad. Tissot); t. II, p. 86; — CONSTANT, Du Polytéisme romain; I, p. 199; — CHASSANG, Histoire du roman dans l'antiquité; part. II, p. 156; — KAN, Disputatio de Euhemero; Groninga, 1862, p. 32.↩ 10. Ap. Euseb., op. cit., II, 2, 55.↩ 11. Esattamente: “Ricciolo di Berenice”.↩ 12. LACT., Div. Inst., I, 11, 46.↩ 13. La lezione ortodossa è quella accettata dal DE BLOCK (op. pag. 23): “Panchaía” (nobilissima, antichissima). Del resto, in analogia con “Achaía” — Achaioì, “lat.: “Achaìà — Achei”, ital.: “Acàia-Achéi”, “Pancaia-Panchei”. Debbono quindi ritenersi errate le forme greche: “Pànchaia — Pànchonti, Panchóous” (PLUT. Isid. Osir., 23, 360 — A), nonchè l'italiano “Panchèa” adoperato in funzione sostantivale.↩ 14. “Trifilio”, o meglio: “Olimpo Trifilio” è innanzitutto un secondo appellativo del “Seggio di Urano”, appunto perchè abitato da tre tribù: (v. Append., n. 8). Cioè: degli anzidetti gruppi etnici, gli indigeni Panchei, gli immigrati Oceani-ti e Doiesi erano stanziati sulle pendici della montagna. Quindi collettivamente essi tre sono denominati “Triphùlioi” (come gli storici abitanti della “Triphulìa”, distretto dell'Elide). Naturalmente, la lez. “Triphùllous” di Plutarco (Isid. Osir., 23) è errata, come sono errati in Plutarco moltissimi nomi di luoghi e di popoli panchei; perchè proprio lui, che accusò gravemente E-vemero di falso, non ebbe mai nè l'originale nè riproduzioni fedeli della “Hierà Anagraphè”.↩ 15. (v. Append., n. 34) C'è chi attribuisce queste parole a Evemero ma impropriamente.↩ 16. Leggiamo in LATT. (op. cit., I, 11, 65): Coelus in Oceania mortuus est in Aulacia sepultus”. Confrontando con due passi di Diodoro (v. Append., nn. 9 e 10) non è difficile arguire la reciproca attinenza dei nomi “Okeanîtai-Oceania-Okeanìs”, che nella Pancaia dovrebbero corrispondere al popolo immigrato, alla regione cui questo diede il nome, al capo luogo di essa stessa. Non si vede il motivo per cui, sec. il DE BLOCK (pag. 32), “0ceania” potrebbe essere la terza isola dell'arcipelago evemèrico non identificata nei frammenti pervenutici. Potrebbe però esserlo, a nostro avviso, “Aulacia (nome altrove irreperibile) che presenta a tal uopo tutti i requisiti: ha anzitutto la costruzione sintattica propria di un'isola; non è diferibile a nessun'altra località o circostanza:, serve appositamente per seppellirvi Urano, ciò che concorda con quanto si dice di quell'isola (DIOD., V, 41), dove “si trasportano i morti giudicati degni di sepoltura”. In Oceania Urano solamente “mortuus est”; ed è assurdo che proprio lui, il “più degno di sepoltura” venisse trasportato altrove, mentre si trovava già nell'isola a ciò destinata.* * *
REMINISCENZE MITICHE E SOCIALISTICHE
* * *
* * *
Note
I. L'UOMO
II. L'OPERA
Almenochè non si tratti della terra di origine; come sarà per Zeus. In tal modo si giustificherebbe la congettura del Van der Meer, che pone Aulacia in Creta.
Il NÉMETHY (Euhemeri reliquiae, pag. 53) invece propone per Aulacia: “Huracia”; altri: “Atlantia”.↩
17. op. cit., p. 10.↩
18. Nouvelle Leçons su la science du langage, trad. fr. II, p. 128.↩
19. Ideen zur Kunstmythologie, tomo I, p. 188.↩
20. RUPPRECHT, Philologus, LXXX, 1925, p. 350 sgg.↩
21. Die Fragmete ecc., pag. 309.↩
22. PAULY — WISSOWA, Real. Encycl., VI; col. 955.↩
23. M. TER. VARR. De re r. I, c. 48; cfr. VAHLEN, Ennianae poesis reliquiae, p. XCIII.↩
24. cfr. CIC. Acad. quaest. II, 16, 51.↩
25. “storia sacra” sarebbe equivoco.↩
26. Ideen zur Kunstmythologie, I, p. 188.↩
27. ATHEN., Deypn., XIV, 658 E-F.↩
28. Art. “Euhemerus” in Realencycl. di Stoccarda.↩
29. DIOD., V, 44; VI, I...↩
30. HORAT Epist., I, 19, 7: “Ennius ipse poter”.↩
31. LATT. Div. Instit. I, 11.↩
32. Grundlinien zur Geschichte des Verfalls der römischen Staatsreligion; Halle, 1837; pag. 37 sgg.↩
33. op.. cit., I, 14, 2.↩
34. “Euhemeri ecc.”, pag. 22 sgg.↩
35. Exim Saturnus uxorem duxit Opem. Titan, qui major natu erat, postulat ut ipse regnaret. Ibi Vesta mater eorum et sorores Ceres atque Ops suadent Saturno, uti de regno ne concedat fratri (3). Ibi Titan, qui facie deterior esset quam Saturnus, idcirco et quod videbat matrem atque sorores suas operam dare uti Saturnus regnaret, concessit ei ut regnaret. Itaque pactus est cum Saturno, uti si quid liberum virile secus ei natura esset, ne quid educaret. Id eius rei causa fecit, uti ad suos gnatos regnum rediret. (4) Tum Saturno filius qui primus natus est, eum necaverunt. Deinde posterius nati sunt gemini, Juppiter atque Juno. Tum Junonem Saturno in conspectum dedere atque Jovem clam abscondunt dantque eum Vestae educandum celantes Saturnum. (5) I tem Neptunum clam Saturno Ops parit eumque clanculum abscondit. Ad eundem modum tertio partu Ops parit geminos Plutonem et Glaucam. Pluto latine est Dis pater; alii Orcum vocant. Ibi filiam Glaucam Saturno ostendunt, at filium Plutonem celant atque abscondunt. Deinde Glauca parva emoritur. (6) Haec ut scripta sunt Jovis fratrumque eius stirps atque cognatió. In hunc modum nobis ex sacra scriptione traditum est. (Latt., op. cit., I, 14, 2-6).↩
36. Simile quiddam in Sicilia fecit Aeneas, cum conditae urbi Acestae hospitis nomen imposuit, ut eam postmodum laetus ac libens Acestes diligeret augeret ornaret. (id., I, 22, 25).↩
37. Si possono avvertire frequenti atteggiamenti polemici in Lattanzio, in contrasto con la impassibile descrittività di Diodoro, come quando. a proposito di Crono, vuole precisare: “Nunc quoniam ab iis quae rettuli aliquantum Sacra Historia dissentit, aperiamus ea quae veris litteris continentur, ne poetarum ineptias in accusandis religionibus segui ac probare videamur. Haec Ennii verba sunt: Exim Saturnus etc.” (op. cit., I, 14, 1-2).↩
38. LUCR., I, 117 sgg.:
Ennius ut noster cecinit qui primus amoeno
detulit ex Helicone perenni fronde coronam,
per gentis Italas hominum quae clara cluerat.↩
39. Orazio, epicureo e alieno dalle correnti di carattere mistico-religioso, mette in ridicolo i sogni pitagorici di Ennio:
Ennius, et sapiens et fortis et. alter Homerus,
ut critici dicunt, leviter curare videtur
quo promissa cadant et somnia Pythagorea.
(Epist., Il, 1, 50, sgg)
Naturalmente, salvo sempre il rispetto e il culto per il sommo artista.↩
40. In realtà dello Pseudo-Epicarmo, Axiopisto o altri che fosse.↩
41. DIOG. di LAERTE, Il, 8, 10, Didot. ↩
42. LISIA Contr. Andocid. De impietate, /17.↩
43. op. cit., III, 52, 56.↩
44. Ad Evemero erroneamente fu attribuita la trattazione di divinità egizie di cui invece si occupò l'imitatore Leone di Pella. Anche in MINUCIO FELICE si legge: “...ob merita virtutis aut muneris deos habitos Euhemerus exsequitur, et eorum natales, patrias, sepulcra dinumerat et per provincias monstrat, Dictaei Jovis et A pollinis Del phici, Phariae Isidis et Cereris Eleusiniae” (Oct., 21, 1).↩
45. “Religio” da “relegere” — raccogliere scrupolosamente, osservare (ogni atto rituale dovuto al dio).↩
46. “Nos exaequat victoria coelo” (LUCR., I, 79).↩
47. MACHIAVELLI, Disc. sulla I Deca di T. Livio, XII.↩
48. “Nec tamen ea species corpus est, sed quasi corpus, nec habet sanguinem, sed quasi sanguinem...” (CIC., De Nat. Deor., I, 18).↩
49. ibid., 3.↩
50. G. B. VICO, La Scienza Nuova, Libro I, Dignità XXX: Varrone ebbe la diligenza di raccogliere 30.000 nomi di dèi (chè tanti pare ne noverano i Greci), i quali nomi si rapportano ad altrettante bisogne della vita o naturale, o morale, o iconomica, o finalmente civile dei primi tempi.
ID., Ibidem, Degn. XLIII: Ogni nazione gentile ebbe un suo Ercole, il quale fu figliuolo di Giove, e Varrone, dottissimo dell'antichità ne giunse a noverare quaranta...↩
51. CIC., De Nat. Deor., I, XLII: Quid est autem, quod deos veneremur propter admirationem eius naturae, in qua egregium nihil videmus? Nani superstitione, quod gloriari soletis, facile est liberari, cum sustuleris omnemvim deorum; risi forte Diagoram aut Theodorum, qui omnino deos esse negabant, censes sii perstitiosos esse potuisse. Ego ne Protagoram quidem, cui neutroni licuerit, nec esse dos nec non esse; Horum enim sententiae omnium non modo superstitionem tollunt, in qua inest timor inanis deorum, sed etiam religionem, quae deorum cul-tu pio continetur. Quid? li qui dixerunt totani de diis immortalibus pinionem fictam esse ab hominibus sapientibus rei publicae causa, ut, quos ratio non p ossei,. eos ad officium religio duceret, nonne omnem religionem funditus sustulerunt? Quid? Prodicus Ceus, qui ea quae prodessent hominum vitae deorum in numero habita esse dixit, quam tandem religionem reliquit? Quid? Qui aut fortis aut claros aut potentis viros tradunt post mortem ad deos pervenisse, eosque esse ipsos, quos nos colare, precari venerarique soleamus, nonne expertes sunt religionum omnium? Quae ratio maxime tractata ab Euhemero est, quem poster interpretatus et secutus est praeter ceteros Ennius. Euhèhemero autem et mortes et sepulturae demonstrantur deorum. Utrum igitur hic con firmasse videtur religionem an penitus totam sustulisse?↩
52. CIC., op. cit., I, 26.↩
53. Il primo di questi culti, quello della Magna Mater anatolica, si era insediato nell'Urbe nel 204, imposta dai Libri Sibillini come condizione per al successiva vittoria di Zama. L'orientalizzazione sistematica della religione romana si effettuerà dal III. sec. d.C., coi Severi.↩
54.
”...Discretio, ut deos perpetuos dicamus, divos ex hominibus factos, quasi qui diem obierint; unde divos etiam irnperatores vocamus”.
(SERV. Aen., V, 45)↩
55. ECL., V, 56.↩
56. Questo sacro epiteto fa da lui accettato per primo nel 27 a.C.↩
57. TAC., Ann., IV, 15.↩
58. SUET. AUG., 52.↩
59. DROYSEN, Aless. il Grande (trad. Alessio); Milano, 1953; pag. 407.↩
60. cfr. MAX MUELLER Nouvelles Leçons ecc., t. II, pag. 133 sgg.↩
61. VICO Scienza Nova, L.I, Degnità XXVIII: Ci sono pur giacenti due gran rottami dell'egiziache antichità, dei quali uno è che gli Egizi riducevano tutto il tempo del mondo scorso loro dinanzi a tre età, che furono: età degli dèi, età degli eroi, età degli uomini.↩
62. VICO, ibidem, Degnità LXV: “L'ordine delle cose umane procedette, che prima furono le selve, dopo i tugurj, quindi i villaggi, apresso le città, finalmente l'Accademie...”↩
63. ibidem, Degnità LIII: “Gli uomini prima sentono senza avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura”.↩
64. AUGUST., De Civ., dei, VI, 7: quid de ipso Jove senserunt, qui eius nutricem in Capitolio posuerunt? Nonne adtestati sunt Euhemero, qui omnes tales deos non fabulosa garrulitate, sed historica diligentia homines fuisse mortalesque conscripsit?↩
65. LACT., op. cit., I, 11, 35: Ea tempestate Juppiter in monte Olympo maximam partem vitae colebat et eo ad eum in jus veniebant, si quae res in controversia erant. Item si quis novi invenerat quod: ad vitam humanam utile esset, eo veniebant atque Jovi ostendebant.
— Ibid., I, 13, 2: “quamquam scriptum sit in Historia Sacra Saturnum et Opem ceterosque tune homines humanam carnem solitos esitare; verum primum Jovem leges hominibus moresque condentem editto prohibuisse, ne liceret eo cibo vesti”.↩
66. De re rust. IX, 2: nec sane rustico dignum est sciscitari, fueritne mulier pulcherrima specie Melissa, quam Juppiter in apem convertit, an, ut Euhemerus poeta dicit, crabronibus et sole genitas apes...↩
67. cfr. pag. 41, ult. cpv.↩
68. AUGUST. De cons. evang. I, 23: “...sed numquid etiam Euhemerus poëta fuit qui et ipsum Jovem et Saturnum patrem eius... ita planissime homines luisse prodit ecc.↩
69. op. cit., I, 11, 45.↩
70. AMYOT, Les oeuvres morales et meslées de Plutarque; MDLXXII, tome II, pag. 443.↩
71. TASSO, Ger. Lib. I, 3, 5-6.↩
72. LATT. op. cit., I, 17, 10: quae (scil. Venus) prima, ut in Historia Sacra continetur, artem meretriciam instituit auctorque mulieribus in Cypro fuit uti vulgato corpore quaestum facerent: quod idcirco imperavit ne sola praeter alias mulieres impudica et virorum adpetens videretur.↩
73. Si deve, in proposito, notare la confusione venuta fuori dalla corruzione cui è andato soggetto il testo per i facili spostamenti dei termini: “Dein Pan deducit in monem, qui vocatur Caeli sella. Postquam eo ascendit, contemplatus est late terras ibique in eo monte aram creat Caelo primusqu in ea ara Juppiter sacrificavit. In eo loco suspexit in caelum, quod nunc nos nominamus, idque quod supra mundum erat, quod aether vocabatur, de sui avi nomine caelum nomen indidit, idque Juppiter quod aether vocatur placans prinius caelum nominavit eamque hostiam quam ibi sacrificvit, totam adolevit” (LATT. op. cit. 63).
Se si deve cavare il sugo dal bisticcio di parole, risulta una affermazione illogica; cioè: Zeus avrebbe imposto al Cielo questo nome che in precedenza sarebbe appartenuto al suo avo. Ciò va contro un naturale ordine gerarchico e cronologico, ed è in aperta contraddizione con la pacifica e lineare spiegazione di Diodoro-Eusebio: (v. Append., n. 37).↩
74. Post haec institit quaerere an omnes parentis sui interfectores poenas dedisset. Sacerdos Parentem eius negat ullius scelere posse violaci Philippi autm omnes luisse supplicia: adiecit invictum fore, donec excederei ad deos. (CURT. RUF., Hist. Alex. Magra., IV, 7, 32)↩
75. De hist. phil., c. 8, tomo XIX, p. 250, ed. Kuhn.↩
76. II, p. 753 (Vigerus).↩
77. Praep. ev., II, 2, 52 (v. Append., n. 19).↩
78. Protr., II, 24, 2.: “...Euèmeros tòn Akragantìnon...”↩
79. “...et possumus quidem hoc in, loco omnis istos, nobis quos inducitis acque appellatis deos, homines fuisse monstrare vel Acragantino Euhemero replicato, cuius libellos Ennius, clarum ut fieret cunctis, sernonem in italum transtulit etc.” (Adv. nat., IV, 29).↩
80. op. cit., p. 3, nota I.↩
81. Grundlinien zur Geschichte des Verfalls der romischen Staatsreligion, pag. 25, nota 2.↩
82. Ad Eratsth., p. 22↩
83. Nella sua edizione di Strabone (Teubner).↩
84. XXXIV, 3, 9.↩
85. II, 3, 5.↩
86. Ne citiamo qualcuna: “Antiquus auctor Euhemerus, qui fuit ex civitate Messene, res gestas Jovis et ceterorum qui dei putantur collegit...” (Div. Inst. I, 2, 33);↩
87. Geschichte des Verfalls etc., p. 25.↩
88. Dict. des Sciences philos., art. Evheémère.↩
89. Einleitung in Roms alte Geschichte, P. 101.↩
90. Historische Studien, I, p. 142, nota.↩
91. “Quum enim omnes fere antiquissimi philosophi graeci non ex Graecia ipso, sed ex coloniis oriundi sint, tum Euhemerum virum tani, negligentem deorum ctc religionem a teneris, ut aiunt, imbibisse unguicolis par est liberiores de diis sententias, quales imprimis in coloniis, utpote civitatibus liberis a prisca majorum dignitate et severitate in res novas desciscentibus ae pronis ortas, fotas, disseminatas esse! nemo non largiatur”. (GANSS, Quaestiones Euhemereae, p. 4).↩
92. Mythologie, tome III, part. III, p. 857.↩
93.Cic. N. D., I, 42, 119. ↩
94. Ideen zur Kunstmythologie, I, p. 187.↩
95. Strab. XVI, 4, 18.↩
96. N. H., X, 4: Primus atque diligentissime togatorum de eo (scil.:. dei Phoenice) prodidit Manilius senator... sacrum in Arabia Soli esse; vivere annis DXL; senescentem cassiae turisque surculis construere nidum, replere odoribus et superemori. Ex ossibus deinde et medullis eius nasci primo ceti, vérmiculum, inde fieri pullum, principioque iusta funera priori reddere ét totum deferre nidum.. prope Panchaiam in Solis urbem et in ara ibi deponere.↩
97. quamquam scriptum sit in Historia Sacra Saturnum et Opem ceterosque tunc honines humanam carnem solitos esitare: verum primum Jovem leges hominibus moresque condetem edicto prohibuisse, ne liceret eo cibo vesci (LACT., op. cit., I, 13; 2).↩
98. DIOD. I, 14, 1.↩
99. BELOCH, La Popolazione antica della Sicilia (trad. ital.), in Archivio Storico Siciliano, anno XIV. Palermo, 1889. pagg. 108-110.↩
100. CAMPIS, Disegno historico, ossiano le abbozzate historie della nob.ma e fed.ma città di Lipari. Palermo, 1694 (ms. nella Bibl. Naz. di Palermo e nel Municipio di Lipari).↩
101. secondo Diodoro cioè nel 580; secondo Eusebio invece nella 38.ma olimpiade, corrispondente al 627.↩
102. Un tempo ad Efesto sarebbe stato eretto in quest'isola prima ancora della colonizzazione dei Cnidii, come pare confermi la leggenda di Eolo troiano, la quale fa supporre che gli Elleni siano stati preceduti da ondate migratorie di civiltà e religioni affini. In pari tempo sarebbero stati eretti templi ad Apollo nell'attuale Salina, è a Diana a Lipari.↩
103. III, 88, 2.↩
104. Hymn. in Dian., 40 sgg.↩
105. V. 7, 1.↩
106. VI, 2, 10.↩
107. N. H. III, 8.↩
108. Il Libertini ha confermato queste risultanze con diligenti ricerche e con inchieste esperite personalmente “in loco” (LIBERTINI-Le Isole Eolie nell'Antichità Greca e Romana. Firenze 1921 (pagg. 183-195).↩
109. VI, 2, 10.↩
110. DIOD. V, 11; questo nome, che corrisponde etimologicamente a Ustica, fu assegnato a quest'isoletta dopo.↩
111. MAUROLICO Sicanicaruni rerum compendium. Messina, 1562;
COLUMBA Monografia dei porti della Sicilia, pg. 292;
HOLM Storia della Sicilia, vol. I, lib. I, c. 2, pg. 101.↩
112. Le altre etimologie comunemente proposte: “Panaria” = a maledetta, per le scogliere; “Panaraiòtes” = tutta forata; “Panòros” montagnosa; “Panàrroia” = senza ruscelli, ecc. presentano tutte un denominatore comune uguale a “inabitabilità, impraticabilità”.↩
113. Perciò i Romani, venuti in possesso dell'isola, le imposero una decima di ben 600 medimni.↩
114. DIOD. V, 45. Anche in quell'arcipelago descritto dai Filostrati di Lemmo nelle Eikones (II, 17), identificato con Lipari dal BRUNN (in “Neue Jahrbücher für Philolog”. N. F. 4, 1861; pgg, 296 sgg.), la vigna ha una cultura più importante e caratteristica.↩
115. PLIN. N. H., VII, 197 (v. pag. 42).↩
116. DIOD. V, 10,2.↩
117. Una sorta di vetro nero di origine vulcanica, impiegato nella fab- bricazione delle armi.↩
118. VI, 2, 10.↩
119. 2, 43 a.↩
120. STRAB. VII, e. 3, p. 299.↩
121. MUELLER. Hist. Graec. fr., H, pp. 384 sgg.↩
122. Il racconto si trova in DIOD. II, 55-60; cfr. CHASSANG Histoire du roman, II part., c. IV, 2.↩
123. Il duce cnida Pentatlo, un Eraclide, avrebbe messo piede nella isola intorno al 580 a.C.↩
124. GAMBERINI “Monografia Marittima della Sicilia Orientale". Messina, s. d. pag. 177.↩
125. DIOD. V, 9, 4-5.↩
126. DIOD. XIV, 93; PAUS. X, 16, 7.↩
127. TUCID. III, 88, 2.↩
128. DIOD. V, 9, 4-5.↩
129. LIVIO V, 28, 2-3.↩
130. HOLM St. d. Sicilia, trad. ital., vol. I, lib. II, cap. III, pg. 319.↩
131. REINACH, “Le collectivisme des Grecs de Lipari„ (in “Revue des études grecques„), 1890, pgg. 86M. FUSTEL DE COULANGES in “Révue de questions historiques„. Parigi, 1889, pg. 50. — VIOLLET, “Du caractère collectif des premières proprieétés immobilières",. in Bibl. de l'École des Chartes, Parigi, 1872, pg. 467 sgg. — POHLMANN"., Geschichte des antiken Kommünismus und Sozialismus, Monaco, 1893, I, pg. 50. ↩
132. “Disegno historico ecc.”↩
Ultima modifica 2020.01.06