Scritto nel 1935.
Pubblicato in "La forma cinematografica"
Anche il vecchio Eraclito osservava che nessuno può tuffarsi due volte nell'acqua del medesimo fiume. Allo stesso modo un'estetica non può fiorire sugli stessi e identici principi in due stadi diversi del suo sviluppo. Specie quando l'estetica di cui si tratta si riferisce alla più nobile delle arti, e quando la divisione tra le epoche è il succedersi di due periodi quinquennali nella più grande e importante impresa di costruzione del mondo: la costruzione del primo stato e della prima società socialista nella storia. Tratteremo dunque dell'estetica del film e in particolare dell'estetica del film nella terra dei soviet.
In questi ultimi anni c'è stato un grande sconvolgimento nel cinema sovietico. Sconvolgimento, in primo luogo, ideologico e tematico. I massimi successi nella fioritura del cinema muto si ottennero all'insegna dello slogan ampiamente diffuso della «massa-protagonista» e dei metodi di rappresentazione cinematografica che direttamente ne derivano, respingendo concetti angustamente drammatici a favore dell'epica e del lirismo; si avevano «tipi» e personaggi secondari al posto di eroi individuali, e valeva il principio, che inevitabilmente ne conseguiva, del montaggio come principio fondamentale dell'espressione cinematografica. Ma in questi ultimi anni - i primi del cinema sonoro sovietico - i principi fondamentali sono cambiati.
Dalla predominante rappresentazione dei movimenti e dell'esperienze delle masse incominciano oggi a emergere eroi individuali. E al loro emergere s'accompagna un cambiamento strutturale nelle opere in cui compaiono. L'antica qualità epica, e le dimensioni gigantesche che ne sono la caratteristica, incominciano a contrarsi in strutture più simili al dramma teatrale nel senso stretto della parola, a un dramma di carattere più tradizionale, e assai più simili al cinema straniero di quei film che un tempo dichiaravano una guerra all'ultimo sangue contro i suoi stessi principi e metodi. I migliori film del periodo più recente (per esempio, Capaev) sono tuttavia riusciti a conservare in parte la qualità epica del primo periodo del cinema sovietico, con più ampi e felici risultati. Ma in moltissimi altri si è quasi completamente perduto quel patrimonio, fatto di principi e di forme, che determinò a suo tempo la qualità specifica e caratteristica del cinema sovietico: qualità non avulsa dai caratteri di novità e d'eccezione ch'erano il riflesso dell'insolita e originale terra dei soviet coi suoi sforzi, i suoi propositi, i suoi ideali, le sue lotte.
Sembra a molti che lo sviluppo progressivo del cinema sovietico si sia interrotto. Parlano d'involuzione. Ma questo è un errore. I ferventi partigiani del vecchio cinema muto sovietico, che ora, smarriti, vedono apparire una serie di film sovietici sotto tanti aspetti formalmente simili al cinema straniero, sottovalutano una circostanza importante. Se in molti casi si può in realtà osservare un attenuarsi di quello splendore formale a cui si sono avvezzati gli amici stranieri dei nostri film, questo dipende dal fatto che il nostro cinema, nel suo stadio attuale, è interamente assorto in un'altra sfera d'indagine e d'approfondimento. Una battuta di sospensione nello sviluppo delle forme e dei mezzi dell'espressione filmica è parsa conseguenza inevitabile dello spostamento dell'indagine in un'altra direzione, spostamento la cui opportunità è evidente, in quanto tende ad approfondire e ampliare la formulazione tematica e ideologica di questioni e problemi nel contenuto del film. Non a caso, proprio in questo periodo, incominciano ad apparire, per la prima volta nel nostro cinema, immagini compiute di personalità; non personalità qualsiasi, ma le migliori: le principali figure dei dirigenti comunisti e bolscevichi. Esattamente come dal movimento rivoluzionario delle masse emerse l'unico partito rivoluzionario, quello dei bolscevichi che guida gli elementi inconsapevoli della rivoluzione verso obiettivi consapevolmente rivoluzionari, così le immagini cinematografiche dei dirigenti del nostro tempo incominciano oggi a cristallizzarsi uscendo dallo stato di massa rivoluzionaria del primo tipo di film. E la chiarezza dello slogan comunista si fa sentire in modo più preciso, sostituendosi al generico slogan rivoluzionario.
Il cinema sovietico passa ora attraverso una fase nuova: una fase di bolscevizzazione ancora più netta, una fase di ancor più accentuata chiarezza ideologica: una fase storicamente logica, naturale e ricca di feconde possibilità per il cinema, la più notevole delle arti.
Questa nuova tendenza non deve sorprenderci, essendo uno stadio logico di sviluppo che ha le sue radici proprio nel cuore dello stadio precedente. Ecco perché colui che fu forse il più devoto fautore dello stile epico di massa nel film, e il cui nome è legato al cinema « di massa» — e cioè l'autore di queste pagine - si sottomette a questo processo nel suo penultimo film II vecchio e il nuovo, in cui Marfa Lapkina appare già come una figura eccezionale, protagonista individuale dell'azione. Si tratta però di rendere questo nuovo stadio abbastanza sintetico; di assicurarsi che, nel cammino verso nuove e più profonde conquiste ideologiche, non soltanto non si smarriscano i risultati già ottenuti, ma li si migliorino sempre portandoli verso nuovi e ancora impensati mezzi di espressione. Per elevare ancora una volta la forma al livello del contenuto ideologico.
Essendo occupato attualmente nella soluzione pratica di questi problemi per il nuovo film Il prato di Bezin, testé incominciato, vorrei esporre qui una serie di osservazioni sparse sui problemi formali in genere.
Il problema della forma, come pure il problema del contenuto, attraversa oggi un periodo di serio approfondimento teorico. Le pagine che seguono dovrebbero servire a mostrare in che direzione si muove il problema e fino a che punto la nuova tendenza del pensiero in questa sfera sia strettamente legata, nella sua evoluzione, alle massime scoperte fatte in questo campo durante il periodo migliore del nostro cinema muto.
Partiamo dai massimi risultati che si sono raggiunti attraverso le ricerche teoriche compiute nello stadio del cinema sovietico a cui ci siamo riferiti più sopra (1924).
È chiaro e indubbio che il fatto più importante fu la teoria del «cinema intellettuale». Questa teoria si proponeva di «ridare pienezza emotiva al processo intellettuale»: si preoccupava di tradurre in forma cinematografica il concetto astratto, il fluire e il fissarsi dei concetti e delle idee, senza nessun intermediario, senza ricorrere a un soggetto o a un intreccio inventato, ma direttamente, per mezzo delle immagini, così come venivano riprese. Era un'ampia, forse anche troppo ampia, generalizzazione d'una serie di possibilità espressive messe a nostra disposizione dai metodi del montaggio e dalle sue combinazioni. La teoria del cinema intellettuale rappresentava, per cosi dire, la riduzione a paradosso di quell'ipertrofia del concetto di montaggio di cui era permeata l'estetica cinematografica al sorgere del cinema muto sovietico in genere e della mia opera in particolare.
Rifacendoci all'«affermazione del concetto astratto» come quadro per i possibili prodotti del cinema intellettuale, come fondamento essenziale dei suoi canovacci cinematografici, e riconoscendo che il cinema sovietico muove ora verso altri obiettivi e cioè verso la dimostrazione di questi postulati concettuali per mezzo di azioni concrete e personaggi vivi, come già abbiamo osservato, vediamo quale può e deve essere oggi il destino delle idee allora espresse.
È dunque necessario buttare a mare come zavorra tutto il colossale materiale teorico e creativo, dal cui turbine nacque la concezione del cinema intellettuale? Fu esso soltanto un folle ed eccitante paradosso, una Fata Morgana di possibilità compositive non realizzate? Oppure il suo carattere di paradosso si dimostrò tale non nell'essenza, ma nella sfera dell'applicazione, sicché ora, dopo aver esaminati alcuni dei suoi principi, si può vedere che, in forma nuova, con un uso e un'applicazione nuova, i postulati allora espressi svolsero e ancora possono svolgere una parte altamente positiva nell'intuizione, nella comprensione e nel dominio teorico dei misteri del cinema ? Il lettore avrà capito che proprio così noi vediamo in situazione; tutto quanto segue servirà a dimostrare - forse solo nelle sue grandi linee - qual è esattamente il nostro pensiero e come intendiamo usarlo quale criterio di lavoro; e vedremo come questa ipotesi, applicata ai problemi della forma e della composizione cinematografica, si venga sempre più rafforzando in una compiuta concezione logica di pratica quotidiana.
Incomincerò con una considerazione.
È curioso come certe teorie e punti di vista, che, in una data epoca storica, costituiscono l'espressione della conoscenza scientifica, in un'epoca seguente decadano come scienza, pur continuando ad essere possibili e ammissibili, sul piano dell'arte e delle immagini 1.
Se prendiamo la mitologia, vediamo che a un determinato stadio essa non è che il complesso della conoscenza corrente dei fenomeni, quasi sempre espressa in immagini e linguaggio poetico. Tutte le figure mitologiche, che oggi consideriamo tutt'al più come materiale d'allegoria, rappresentarono in un certo momento una summa per immagini della conoscenza che si aveva allora dell'universo,
Più tardi, la scienza passò dai racconti per immagini ai concetti, e il patrimonio di simboli naturali, prima mitologicamente personificati, continuò a sopravvivere come serie d'immagini pittoriche, di metafore letterarie, liriche, ecc. finché si esaurì anche sotto questo aspetto e scomparve negli archivi. Si consideri la poesia contempo ranea e la si paragoni alla poesia del secolo XVIII.
Facciamo un altro esempio: un postulato come la priorità dell'idea, enunciato da Hegel a proposito della creazione del mondo. A un certo stadio questo rappresentò il culmine della conoscenza filosofica. Poi il culmine fu abbattuto. Marx capovolse questo postulato nell'interpretazione della realtà. Se però consideriamo le nostre opere d'arte, troviamo in realtà qualcosa che fa quasi pensare alla formula hegeliana, perché la preminenza data dall'autore all'idea, e il suo assoggettarsi a tutte le esigenze di essa, deve determinare tutto il corso dell'opera d'arte, e se ogni suo elemento non rappresenta un'incarnazione dell'idea iniziale, non avremo mai come risultato un'opera artistica pienamente realizzata. Si capisce che l'idea dell'artista in se stessa non è affatto spontanea o autogenerata, ma è un'immagine che riflette la società come uno specchio, un riflesso della realtà sociale. Dal momento però in cui il punto di vista e l'idea si formano dentro di lui, si vede come l'idea determini tutta la struttura reale e materiale, l'intero «mondo» della sua creazione.
Passiamo ora a un altro campo, alla « fisiognomonia » di Lavater, considerata ai suoi tempi un sistema scientifico obiettivo. Ma la fisiognomonia oggi non è più considerata una scienza. Già Hegel si faceva gioco di Lavater, anche se Goethe continuava a collaborare, sia pure anonimamente, con lui (a Goethe va attribuita, per esempio, la paternità d'uno studio fisiognomonico della testa di Bruto). Noi non attribuiamo alla fisiognomonia nessun valore scientifico obiettivo, ma non appena, nel corso della rappresentazione completa d'un personaggio che incarna un certo tipo, cerchiamo le caratteristiche esterne d'un volto, immediatamente ci mettiamo a usare le fisionomie esattamente come faceva Lavater. Lo facciamo perché in un caso simile è per noi importante creare in primo fuoco un'impressione, l'impressione soggettiva dell'osservatore, non il coordinamento obiettivo di segno ed essenza che costituiscono effettivamente il carattere. In altre parole, il punto di vista stimato scientifico da Lavater viene da noi «sfruttato» nelle arti, quando occorra, sul piano delle immagini.
A che cosa serve questo discorso? Situazioni analoghe si presentano a volte tra i metodi delle arti e accade anche che le caratteristiche costitutive della logica di struttura formale siano scambiate per elementi del contenuto. Questa logica è, in quanto metodo e principio di costruzione, del tutto accettabile, ma diventa una specie d'incubo quando venga al tempo stesso considerata come contenuto esauriente.
Penso che avrete già capito dove voglio andare a parare, ma citerò ancora un esempio prendendolo dalla letteratura. Parlerò del più popolare di tutti i generi letterari: il romanzo poliziesco. Sappiamo tutti che cosa rappresenti il romanzo poliziesco, di quali formazioni e tendenze sociali sia l'espressione. Dell'argomento parlò a sufficienza Gor'kij al congresso degli scrittori. C'interessa però l'origine di alcune caratteristiche del genere, le fonti da cui deriva il materiale che ha contribuito a crearne l'involucro ideale incarnando certi aspetti dell'ideologia borghese.
Vediamo come il romanzo poliziesco conti tra i suoi predecessori, che lo portarono a una completa fioritura all'inizio del secolo diciannovesimo, James Fenimore Cooper, autore di romanzi sugli indiani del Nord America. Dal punto di vista ideologico, questo tipo di romanzo, esaltando le imprese dei colonizzatori, segue la stessa via del romanzo poliziesco, perché serve a esprimere nel modo più chiaro l'ideologia della proprietà privata. Lo dimostrano Balzac, Hugo, Eugène Sue, con una quantità di opere compiute secondo questo modello di composizione letteraria da cui si elaborò più tardi il romanzo poliziesco vero e proprio.
Parlando nelle loro lettere e nei loro diari delle immagini che li ispirarono nella costruzione delle loro storie di fughe e d'inseguimenti (I miserabili, Vautrin, L'ebreo errante), scrivono tutti d'essere stati attratti dall'oscuro sfondo di foreste di James Fenimore Cooper e d'aver voluto trasportare questa foresta scura e l'azione che vi si svolgeva dai boschi vergini dell'America al labirinto dei vicoli e delle stradette di Parigi. L'accumularsi degli indizi deriva dai metodi dei «cercatori di piste» descritti da Cooper nelle sue opere. L'immagine della «foresta scura» e la tecnica del «cercatore di piste», tratte dalle opere di Cooper, servono così a grandi romanzieri quali Balzac e Hugo come una specie di metafora iniziale per il loro intrico di costruzioni d'avventure e di scoperte nel labirinto di Parigi. Contribuiscono anche a inquadrare in un genere le tendenze ideologiche che sono alla base del romanzo poliziesco. Si crea così un tipo completamente indipendente di costruzione narrativa. Ma, parallelamente a questo uso dell'«eredità» di Cooper, vediamo anche un'altra cosa: una specie di trapianto letterale. E cadiamo allora in pieno nell'assurdità e nell'incubo. Paul Févai scrisse un romanzo in cui i pellerossa compiono le loro imprese a Parigi e c'è una scena in cui tre indiani scotennano la loro vittima in una vettura di piazza!
Cito questo esempio per ritornare ancora una volta al cinema intellettuale. Si disse che la qualità, specifica del cinema intellettuale è il contenuto. La corrente dei pensieri e il movimento dei pensieri furono rappresentati come la base esauriente di tutto ciò che si manifesta nel film, e cioè un sostituto del soggetto. Secondo questa linea — sostituzione completa del contenuto — esso non si giustifica. E forse proprio perché lo ha capito, il cinema intellettuale è passato rapidamente a una nuova concezione teorica, creandosi un piccolo successore nel « monologo interiore».
La teoria del monologo interiore diede un certo calore all'astrazione ascetica del fluire dei concetti, trasferendo il problema alla rappresentazione dei sentimenti dell'eroe, e cioè su un piano più narrativo. Nelle discussioni sul monologo interiore si fece tuttavia una piccola riserva nel senso che lo si poteva usare per costruire qualcosa e non soltanto per rappresentare un monologo interiore in quanto tale 2. Non era che un piccolo gancio chiuso tra parentesi, ma ad esso era appeso l'essenziale. Queste parentesi debbono essere immediatamente aperte. Ecco il principale argomento che voglio trattare, e cioè la sintassi del linguaggio interiore opposta a quella del linguaggio verbale. Il linguaggio interiore, il fluire e il susseguirsi dei pensieri non formulati nelle costruzioni logiche in cui si esprimono i pensieri espressi e formulati, ha una propria struttura particolare. Questa struttura si fonda su una serie ben distinta di leggi. Quel che vi è di notevole - ed è questa la ragione per cui ne discuto — è che le leggi di costruzione del linguaggio interiore sono precisamente quelle leggi che si trovano alla base di tutta la varietà di leggi governanti la costruzione della forma e della composizione delle opere d'arte. E non esiste un solo metodo formale che non si riveli il ritratto fedele di una determinata legge governante la costruzione del linguaggio interiore, distinta dalla logica del linguaggio espresso. Non potrebbe essere altrimenti.
Sappiamo che alla base della creazione della forma si trovano procedimenti di pensiero fondati sulla sensazione e sull'immagine 3.
Il linguaggio interiore si trova precisamente allo stadio della struttura figurativo-sensoriale, non avendo ancora raggiunto quella formulazione logica di cui si riveste il linguaggio prima di diventare linguaggio parlato. È interessante notare che, come la logica ubbidisce nelle sue costruzioni a tutta una serie di leggi, anche questo discorso interiore, questo pensare sensoriale è soggetto a leggi e peculiarità strutturali non meno nette e precise. Esse sono note e, alla luce delle considerazioni qui esposte, rappresentano una riserva inesauribile di leggi per la costruzione della forma, il cui studio e la cui analisi hanno una straordinaria importanza al fine di padroneggiare i «misteri» della tecnica formale.
Per la prima volta ci troviamo in possesso d'un saldo patrimonio di postulati che riguardano ciò che accade alla tesi iniziale del tema quando la si traduca in una serie d'immagini sensoriali. Immenso è il campo degli studi in questa direzione. Sta di fatto che le forme di pensiero sensoriale, prelogico, conservate in forma di linguaggio interiore tra i popoli che hanno raggiunto un livello adeguato di sviluppo sociale e culturale, rappresentano norme generali di condotta anche per l'umanità all'alba dello sviluppo culturale: le leggi cioè secondo cui si svolgono i processi del pensiero sensoriale equivalgono per essi all'«abito logico» del futuro. In accordo con queste leggi costruiscono norme di comportamento, cerimoniali, usanze, linguaggio, forme d'espressione, ecc.; e, se prendiamo in considerazione lo smisurato tesoro del folklore, — norme e forme di condotta superate e tuttavia ancor vive, conservate nelle società primitive, — vediamo come ciò che è stato o è ancora per esse una norma di condotta e di saggezza tradizionale, sia al tempo stesso esattamente ciò che noi usiamo nelle nostre opere d'arte come «metodo artistico» e «tecnica d'incarnazione». Non ho spazio qui per discutere in particolare il problema delle prime forme di processo del pensiero. Non posso descriverne le caratteristiche specifiche fondamentali, che sono un riflesso della forma esatta dell'organizzazione sociale e delle strutture comunitarie primitive. Non è questo il momento di studiare il modo in cui da questi postulati generali vengono elaborati i singoli segni e le forme caratteristiche della costruzione delle rappresentazioni. Mi limiterò a citare due o tre esempi per chiarire il principio che un dato momento del processo della creazione della forma è al tempo stesso un momento del processo del costume emerso dallo stadio di sviluppo in cui le rappresentazioni sono ancora costruite in accordo con le leggi del pensiero sensoriale. Voglio sottolineare però che una costruzione simile non è affatto esclusiva. Anzi, sin dai primissimi periodi, si ottiene contemporaneamente un fluire di esperienze pratiche e logiche che deriva dai procedimenti del lavoro pratico; un fluire che gradatamente aumenta fondandosi su di essi, annullando le forme primitive di pensiero e comprendendo gradatamente tutte le sfere non del lavoro soltanto, ma anche di altre attività intellettuali, mentre le forme primitive vengono abbandonate alla sfera delle manifestazioni sensoriali.
Consideriamo, per esempio, il più popolare dei metodi artistici, quello della cosiddetta pars pro toto. Tutti ne conoscono la forza e l'efficacia. Il pince-nez del dottore nel Potèmkin ha messo salde radici nella memoria di chiunque abbia visto il film. Al tutto (il medico) si sostituì una parte (il pince-nez), che rappresentava il suo personaggio, e accadde che lo rappresentasse in modo sensorialmente assai più intenso di quel che avrebbe potuto fare la ricomparsa del medico stesso. Questo metodo è in realtà l'esempio più tipico d'una forma di pensiero tolta dall'arsenale dei processi intellettuali primitivi. Ancora non possedevamo, in quel periodo, quell'unità del tutto e della parte a cui siamo ora arrivati. Allo stadio del pensiero indifferenziato, la parte è anche contemporaneamente il tutto. Non c'è unità della parte e del tutto, ma s'ottiene un'identità obiettiva nella rappresentazione del tutto e della parte. Poco importa se si tratti della parte o del tutto: assolve ugualmente alla funzione di aggregato e di tutto. Questo non soltanto accade nei più semplici campi e atti pratici, ma appare immediatamente non appena si esca dai limiti della più semplice pratica « oggettiva». Se, per esempio, ricevete un ornamento fatto con un dente d'orso, questo significa che vi è stato dato l'intero orso o il suo equivalente: la forza dell'orso nel suo complesso 4. Nella pratica moderna un procedimento simile sarebbe assurdo. Nessuno a cui sia stato dato il bottone d'un abito, immaginerebbe d'aver addosso l'abito completo. Ma appena ci spostiamo nella sfera in cui le costruzioni sensoriali e figurative rappresentano il ruolo decisivo, e cioè nella sfera delle costruzioni artistiche, anche per noi questo principio della pars pro toto acquista immediatamente un'enorme importanza. Il pince-nez, sostituito all'intera figura del medico, non soltanto assolve completamente al suo compito e alla sua parte, ma lo fa con un enorme aumento sensorio-emotivo dell'intensità dell'impressione, a un livello notevolmente più alto di quello che si sarebbe potuto ottenere ripresentando la figura intera del medico.
Come vedete, per dare un'impressione artistica sensoriale, abbiamo usato, come metodo di composizione, una di quelle leggi del pensiero primitivo che, in certi stadi, appaiono come le norme e la pratica della condotta quotidiana. Ci siamo serviti d'una struttura di tipo di pensiero sensoriale, e invece d'un effetto «logico-informativo» riusciamo a trarre dalla costruzione un effetto sensoriale-emotivo. Non rappresentiamo il fatto che il medico è annegato; reagiamo emotivamente al fatto attraverso una precisa presentazione compositiva.
È importante notare qui come l'uso del primo piano, da noi analizzato nell'esempio del pince-nez del medico, non sia caratteristico del cinema soltanto e ad esso specifico. Ha anche un valore metodologico ed è usato, per esempio, in letteratura. Il principio pars pro toto si chiama, in campo letterario, sineddoche. Ricordiamo la definizione dei due tipi di sineddoche. Il primo tipo consiste nel presentare una parte invece del tutto. Questo tipo ha a sua volta tutta una serie di aspetti.
Il secondo tipo di sineddoche consiste nel rappresentare il tutto invece della parte. Ma, come facilmente potete vedere, entrambi i tipi e le loro diverse suddivisioni sono soggetti a un'unica e identica condizione fondamentale che è questa: l'identità della parte e del tutto e quindi l'«equivalenza», il significato uguale che si ottiene sostituendo l'una all'altra. Esempi non meno efficaci si trovano nella pittura e nel disegno dove due macchie di colore e una curva fluente sostituiscono in modo sensorialmente completo l'intero oggetto.
Quel che c'interessa qui non sono i diversi tipi di sineddoche, ma il fatto ch'essi confermano: e cioè che noi trattiamo qui non metodi specifici, particolari a questo o quel mezzo artistico, ma in primo luogo un corso e una condizione specifica di pensiero incarnato, il pensiero sensoriale, per cui una data struttura è legge. In questo uso speciale, a sineddoche, del «primo piano», nella macchia di colore e nella curva non abbiamo che esempi particolari del funzionamento di questa legge della pars pro toto caratteristica del pensiero sensoriale che, per realizzare lo schema creativo fondamentale, dipende dal mezzo artistico di cui gli accade di servirsi.
Un altro esempio. Sappiamo benissimo che ogni rappresentazione dev'essere in stretto accordo artistico con la posizione del soggetto che incarna. Sappiamo che questo s'applica ai costumi, alla scenografia, alla musica d'accompagnamento, all'illuminazione, al colore. Sappiamo che questo accordo riguarda non soltanto le esigenze poste dalla concezione naturalistica, ma anche, e forse in grado maggiore, l'esigenza di sostenere l'espressione emotiva. Se la scena d'un dramma «è impostata» su un certo tono, tutti gli elementi della rappresentazione devono essere nello stesso tono. Ne troviamo un classico insuperabile esempio nel Re Lear, alla cui intima tempesta fa eco la tempesta che infuria sul palcoscenico intorno a lui. Possiamo anche, per gusto di contrasto, trovare esempi di costruzione a rovescio: il violento scatenarsi della passione rappresentato in modo volutamente statico e immobile. Anche qui, come nel caso opposto, tutti gli elementi della rappresentazione debbono essere realizzati in continuo accordo col tema.
Simile esigenza si estende anche all'inquadratura e al montaggio, i cui elementi debbono allo stesso modo echeggiare e reagire sul piano compositivo al tono fondamentale della composizione dell'intera opera e di ciascuna sua scena. 5
Questa esigenza, abbastanza riconosciuta e diffusa nell'arte, si può trovare, a un certo livello di sviluppo, in analoghe norme di condotta inevitabili e obbligatorie. Ecco un esempio preso dalla vita quotidiana della Polinesia, rimasta oggi ancora quasi immutata nel costume. Quando una donna polinesiana sta per partorire è regola perentoria che tutti i cancelli del villaggio siano aperti, tutte le porte spalancate, che tutti (compresi gli uomini) si tolgano cinture, grembiuli, nastri, che si sleghino tutti i nodi e così via; tutte le circostanze, tutti i particolari concomitanti debbono essere disposti in modo perfettamente corrispondente al tema fondamentale di ciò che sta avvenendo: tutto dev'essere aperto, slegato, per permettere al bambino di venire al mondo con la massima facilità!
Passiamo ora aun altro mezzo d'espressione. Prendiamo un caso in cui il materiale della creazione formale sia l'artista stesso. Anche questo conferma la verità della nostra tesi. Anzi in questo caso la struttura della composizione finita non è soltanto, per cosi dire, una copia della struttura delle leggi secondo cui. si svolgono i processi di pensiero sensoriali. In questo caso la circostanza stessa, unita qui all'oggetto-soggetto della creazione, dà nel suo complesso un duplicato della rappresentazione dello stato psichico corrispondente alle forme primitive di pensiero. Esaminiamo ancora due esempi. Tutti i ricercatori e viaggiatori sono stupiti da una caratteristica delle forme primitive di pensiero del tutto incomprensibile per un essere umano abituato a pensare secondo le categorie della logica corrente: la concezione per cui un essere umano, pur essendo se stesso e conscio di se stesso, si considera contemporaneamente come un'altra persona o cosa e, per di più, in modo altrettanto definito, concreto, materiale. Nella letteratura specializzata sull'argomento si porta spesso l'esempio di una delle tribù indiane del nord del Brasile.
Gli indiani di questa tribù - i Bororo - sostengono che, pur essendo esseri umani, sono però al tempo stesso una razza speciale di pappagalli rossi, comune nel Brasile. Si noti che non intendono minimamente dire con questo che diventeranno questi uccelli dopo la morte o che i loro antenati lo sono stati in un remoto passato. Niente affatto. Sostengono decisamente d'essere in realtà questi uccelli. Non si tratta qui d'identità di nomi o di rapporti, ma d'una completa e. simultanea identità di entrambi.
Per quanto ci possa apparire strano e insolito, è tuttavia possibile derivare dalla pratica artistica* una quantità di esempi che sembrano ripetere l'idea dei Bororo circa la doppia esistenza simultanea di due immagini completamente distinte e insieme reali. Basta accennare a quel che prova l'attore durante la creazione o rappresentazione d'un personaggio. Sorge qui, immediatamente, il problema dell'«io» e del «lui»: l'«io» è l'attore, e il «lui» il personaggio che rappresenta. Questo problema della simultaneità dell'« io » e « non io » nella creazione ed esecuzione d'una parte è uno dei «misteri» centrali della creazione dell'attore. La soluzione oscilla tra la completa subordinazione del «lui» all'«io» e il «lui» che vive in se stesso (la transustanziazione completa). Mentre l'atteggiamento contemporaneo nei riguardi di questo problema s'avvicina alla formula dialettica abbastanza chiara della «unità degli opposti che si penetrano a vicenda», l'«io» dell'attore e il «lui» dell'immagine, dove il termine pilota è l'immagine, quando si passa al concreto sentimento dell'attore la cosa non è altrettanto chiara e definita. In un modo o nell'altro, l'«io» e il «lui», i «loro» inter-ra-porti, i «loro» legami, le «loro» inter-azioni compaiono inevitabilmente a ogni stadio della creazione. Citiamo almeno un esempio delle più recenti e popolari opinioni sull'argomento.
L'attrice Serafima Birman (fautrice della seconda soluzione) racconta:
Ho letto d'un professore che non festeggiava né il compleanno né l'onomastico dei suoi figli, ma il giorno in cui il bambino smetteva di parlare di se stesso in terza persona (- Lialia vuole andare a passeggio -) e diceva: -- Io voglio andare a passeggio -. La stessa importanza ha per un attore il giorno, e addirittura il minuto del giorno in cui smette di parlare del personaggio come «egli», e dice «io». Quando in realtà questo nuovo «io» non è l' «io» personale dell'attore o dell'attrice ma l' «io» del suo personaggio... .
Non meno rivelatrici sono le descrizioni che molti attori ci hanno lasciato del loro comportamento quando indossano o foggiano i loro costumi: si ha una vera operazione « magica » di « trasformazione » col mormorio di frasi quali «non sono più io», «sono già il tale», «vedete, incomincio a essere lui», e così via.
In un modo o nell'altro, più o meno dominata, la realtà simultanea è necessariamente presente nel processo creativo anche del più inveterato sostenitore della « transustanziazione» completa. Esistono in realtà troppo pochi casi, nella storia del teatro, d'un attore che si appoggi alla « quarta parete [non esistente] » !
È caratteristico che una visione duplice e fluttuante dell'azione scenica come realtà teatrale e realtà di rappresentazione esista anche nello spettatore. Anche qui la visione corretta è un dualismo unitario, che da una parte impedisce allo spettatore di uccidere il malvagio in quanto gli fa ricordare che quest'ultimo non è reale, mentre dall'altra lo stimola a ridere o piangere, facendogli dimenticare che assiste a una rappresentazione.
Passiamo a un altro esempio. Nei suoi Elemente der Vólkerpsychologie, Wilhelm Wundt parla di certe strutture del linguaggio primitivo (non ci interessano qui le idee di Wundt, ma soltanto un esempio debitamente documentato ch'egli cita). Eccone il senso.
L'aborigeno fu dapprima ricevuto cortesemente dal bianco che voleva indurlo ad accudire alle sue greggi. Poi il bianco si mise a maltrattare l'aborigeno. Questi fuggi e allora il bianco prese un altro aborigeno e lo sottopose alla medesima esperienza.
Ecco come questo semplice concetto (che descrive una situazione occasionale comune nei paesi coloniali) è espresso in modo approssimativo nel linguaggio dell'aborigeno :
Aborigeno-va-là, corre-da-bianco, bianco-dà-tabacco, aborigeno-fuma, riempie-borsa-tabacco, bianco-dà-carne-aborigeno, aborigeno-mangia-carne, si-alza-e-va-a-casa, è-felice, si-siede, accudisce-greggi-bianco, bianco-batte-aborigeno, aborigeno-grida-forte, aborigeno-scappa-via-da-bianco, bianco-corre-dietro-aborigeno, allora-altro-aborigeno, questo-accudisce-gregge, aborigeno-tutto-scomparso.
Rimaniamo colpiti da questa lunga serie, quasi asintattica, di immagini descrittive singole. Ma supponiamo di voler rappresentare sulla scena o sullo schermo le due a-ztoni implicite nel concetto iniziale: e saremo sorpresi nel vedere come si sia incominciato a costruire qualcosa di molto simile, per struttura, al discorso dell'aborigeno. E questo qualcosa ugualmente asintattico, ma corredato soltanto da... una sequenza di numeri, si rivela familiare a ciascuno di noi: una sceneggiatura, uno strumento per trasferire un fatto, ridotto con l'astrazione a un concetto, in una serie di singole azioni concrete, che è poi anche il processo con cui si trasferiscono nell'azione le direttive di scena. «Corse via [da lui] »; nel linguaggio dell'aborigeno è questa un'ortodossa descrizione di montaggio di due inquadrature: «aborigeno-scappa-via-da-bianco» e «bianco-corre-dietro-aborigeno » : embrione di montaggio per una «sequenza d'inseguimento» all'americana.
L'astratto «ricevuto cortesemente» è espresso da più apprezzabili elementi concreti che danno forma alla rappresentazione d'una cortese accoglienza: pipe che s'accendono, borsa del tabacco che si riempie, carne che cuoce, ecc. Abbiamo qui di nuovo un esempio che ci dimostra come, nel momento in cui si passa dall'espressione informativa a quella realistica, ci si sposti inevitabilmente verso leggi strutturali corrispondenti al pensiero sensoriale che assolve al compito dominante nelle caratteristiche rappresentazioni primitive.
Abbiamo a questo proposito un altro esempio illuminante. Si sa che sempre, a questo stadio di sviluppo, non esistono ancora generalizzazioni e concetti generalizzati «tali da dare una spina dorsale» al discorso. Lévy-Bruhl ce ne dà un esempio efficace nel linguaggio dei Klamath '. Non esiste nella loro lingua il concetto di «camminare»; usano invece una quantità infinita di termini per ogni particolare forma di camminare: camminare in fretta; camminare strusciando i piedi; camminare stancamente; camminare in modo furtivo, e cosi via. Ogni modo di camminare, per quanto lievi siano le sfumature, è espresso con un termine proprio. Potrà sembrarci strano, ma soltanto finché non ci accada di dover aprire, in un dramma, l'indicazione messa tra parentesi «egli s'avvicina...», che indica una serie di passi con cui un attore s'avvicina a un altro. Ci sfugge la comprensione completa del termine «camminare». E se nell'attore (e nel regista) questa comprensione del « camminare » non rimanda con un lampo «all'indietro», a un'intera massa di casi particolari possibili e noti di modi di avvicinarsi tra cui potrà scegliere la variante più adatta alla situazione... la sua esecuzione si ridurrà a un tristissimo o forse tragico fiasco! (6).
Se ne avrà la prova evidente, fin nei particolari, quando si paragonino le diverse stesure dei manoscritti d'uno scrittore. Tra gli abbozzi primitivi e la versione finale, la rifinitura stilistica assume in molte opere, specialmente di poesia, la forma di quello che sembra un insignificante spostamento di parole; ma questo spostamento è condizionato dallo stesso tipo di leggi. Molto spesso ci si limita a cambiar posto a un verbo o a un sostantivo. Un'affermazione pratica e prosaica come «una vecchia viveva là dentro...» diventa inevitabilmente nella sua variante poetica: «una volta c'era una vecchia che viveva entro una scarpa (7) ». Prima che s'introduca la vecchia vediamo una forma verbale di carattere indefinito. E tuttavia, attraverso di essa, la frase assume immediatamente non più il carattere colloquiale della vita quotidiana ma un carattere in qualche modo legato alla rappresentazione compositiva poetica.
È stato Herbert Spencer (8) a indicare questo tipo di effetto. In un suo saggio riconosce il carattere artistico di questo spostamento: ma non lo spiega. Si limita a parlare della «economia di energie mentali e attività sensibile» del secondo tipo di costruzione, che certo dovrebbe essere meglio spiegato.
Il segreto consiste precisamente nel fatto che continuiamo a indicare: lo spostamento corrisponde a un processo di pensiero primitivo. Troviamo il procedimento descritto in Engels (9):
Se sottoponiamo alla considerazione del nostro pensiero la natura o la storia umana o la nostra specifica attività spirituale, ci si offre anzitutto il quadro di un infinito intreccio di nessi, di azioni reciproche, in cui nulla rimane quel che era, dove era e come era, ma tutto si muove, si cambia, nasce e muore. Noi quindi, in un primo tempo vediamo il quadro d'insieme nel quale i particolari più o meno passano in seconda linea e badiamo più al movimento, ai passaggi, ai nessi, che a ciò che si muove, passa e sta in connessione.
Ne segue che un ordine verbale in cui il termine che descrive il movimento o l'azione (il verbo) precede la persona o la cosa che muove o che agisce (il sostantivo) meglio corrisponde alla forma di costruzione più elementare. Questo è vero anche fuori dei limiti della nostra lingua — il russo — e naturalmente dovrebbe esserlo tanto più in quanto fondamentalmente legato alla struttura specifica del pensiero. In tedesco, una frase come «Die Ganse flogen» (le oche volarono) suona arida e puramente informativa, mentre basta un semplice spostamento di parole, come «Es flogen die Gànse», per dare un tono diverso, come di ballata.
Le indicazioni di Engels e le caratteristiche dei fenomeni, ora descritti, di avvicinamento e ritorno a forme caratteristiche primitive possono venire illustrate con casi in cui noi stessi dobbiamo affrontare descrizioni grafiche e documentate di regressione psicologica. Simili fenomeni di regressione si osservano, per esempio, in certe operazioni al cervello. Nella clinica neurochirurgica di Mosca, specializzata in chirurgia del cervello, ho potuto assistere al più interessante caso del genere. Uno dei pazienti, immediatamente dopo l'operazione, dimostrò come, in rapporto al suo regresso psicologico, la definizione verbale ch'egli dava d'un oggetto passasse gradatamente e chiaramente attraverso le fasi prima indicate: oggetti precedentemente nominati venivano identificati coi verbi specifici indicanti un atto eseguito con l'aiuto dell'oggetto. Nel corso della mia esposizione ho avuto occasione più volte di usare la frase «forme primitive di procedimento del pensiero», e d'illustrare le mie riflessioni con immagini rappresentative comuni presso popoli ancora agli albori della cultura. Ma abbiamo ormai imparato ad andar cauti con gli esempi che coinvolgono questi campi di indagine. E non senza ragione: che assai facilmente in casi simili si cade nel « razzismo » o anche in scoperte apologie della politica coloniale imperialistica. Non sarà inutile quindi dichiarare decisamente che le nostre considerazioni sono su un piano completamente diverso.
I cosiddetti procedimenti primitivi del pensiero sono in genere considerati come forme di pensiero fissate in se stesse una volta per tutte, caratteristiche dei popoli detti «primitivi», razzialmente inseparabili da essi e non suscettibili di modificazione alcuna. Ed è uso servirsene per giustificare scientificamente i metodi schiavistici a cui questi popoli sono sottoposti dai colonizzatori bianchi, poiché sembrano sottintendere che questi popoli siano «irrimediabilmente incapaci» di ogni cultura e scambio culturale.
Sotto molti aspetti lo stesso famoso Lévy-Bruhl non è esente da simile concezione, benché non persegua coscientemente tale scopo. Da questo punto di vista abbiamo ragione di attaccarlo, poiché sappiamo che le forme del pensiero sono un riflesso nella coscienza delle formazioni sociali attraverso cui passa, a un dato momento storico, questa o quella comunità. Ma gli oppositori di Lévy-Bruhl cadono sotto molti aspetti nell'errore opposto, sforzandosi d'ignorare il carattere specifico e indipendente delle forme primitive del pensiero. Olivier Leroy, per esempio, col pretesto di scoprire un alto grado di logica nell'inventività produttiva e tecnica dei cosiddetti popoli «primitivi», arriva a negare completamente qualsiasi differenza tra il loro procedimento di pensiero e i postulati della logica da noi generalmente accettati. Il che è altrettanto errato e nega ugualmente la dipendenza d'un dato sistema di pensiero dagli elementi specifici dei rapporti di produzione e delle premesse sociali da cui deriva.
L'errore fondamentale ha inoltre le sue radici in questo fatto: che né gli uni né gli altri apprezzano a sufficienza la gradazione esistente tra sistemi apparentemente incompatibili di processo del pensiero, e trascurano completamente la natura qualitativa del passaggio dall'uno all'altro. Ci colpisce l'insufficiente considerazione in cui si tiene questo fatto quando si discute dei processi primitivi del pensiero. La cosa è tanto piti strana in quanto nella succitata opera di Engels ci sono tre intere pagine contenenti un esame esauriente dei tre stadi di struttura del pensiero attraverso cui passa l'umanità nel suo sviluppo: dal primitivo complesso-diffuso, a cui si riferisce parte delle osservazioni citate, attraverso lo stadio logico-formale che lo nega, fino allo stadio dialettico, che assorbe «con precisione fotografica» i due precedenti. Questa percezione dinamica dei fenomeni sfugge naturalmente a chi, come Lévy-Bruhl, li consideri dal punto di vista positivistico.
Ma la cosa più interessante in tutto questo è il fatto che non solo il processo di sviluppo in sé non segue una linea retta (come qualsiasi processo di sviluppo), ma che procede spostandosi continuamente avanti e indietro, sia progressivamente (il movimento dei popoli arretrati verso una più elevata cultura sotto un regime socialista), sia regressivamente (la regressione delle sovrastrutture spirituali sotto il tallone del nazional-socialismo). Questo continuo spostarsi da un piano all'altro, avanti e indietro, muovendo ora verso le più alte forme intellettuali, ora verso le forme primitive del pensiero sensoriale, si verifica anche a ogni fase di sviluppo temporaneamente stabile. Non soltanto il contenuto del pensiero, ma la sua costruzione stessa sono qualitativamente molto diversi negli esseri umani a seconda delle condizioni sociali in cui vivono. La linea di confine tra i tipi è mobile e basta un impulso affettivo anche modesto per indurre una persona estremamente ponderata a reagire obbedendo a un intimo armamentario mai sopito di pensiero sensoriale e alle norme di condotta che ne derivano.
Quando una ragazza a cui sei stato infedele strappa «in un impeto di rabbia» la tua fotografia, distruggendo cosi il «malvagio traditore», non fa che ripetere in quell'attimo la magica operazione che consiste nel distruggere un uomo distruggendo la sua immagine (fondata sulla primitiva identificazione d'immagine e oggetto)(10). Con questa passeggera regressione la ragazza ritorna, in un momento d'aberrazione, a quello stadio di sviluppo in cui un'azione simile appariva del tutto normale e capace di conseguenze reali. In un tempo relativamente non molto lontano, ai margini di un'epoca che aveva conosciuto menti come quelle di Leonardo e di Galileo, una donna politica brillante come Caterina de' Medici cercava, coll'aiuto del mago di corte, di distruggere i suoi nemici piantando spilli nelle loro minuscole immagini di cera.
Conosciamo inoltre manifestazioni non soltanto momentanee, ma (temporaneamente!) irrevocabili di questo stesso processo di regressione psicologica quando l'intero sistema sociale è in regresso. Il fenomeno si chiama allora reazione, e la luce più vivida è gettata sul problema dalle fiamme dell'autodafé nazionalfascista di libri e ri tratti di.autori indesiderabili nelle piazze di Berlino!
È sempre un grave errore comunque studiare questa o quella struttura di pensiero come isolata e chiusa in sé. Il passaggio da un tipo di pensiero all'altro, da una categoria all'altra, e, più ancora, la compresenza, in proporzioni variabili, di diversi tipi e stadi, sono fatti importanti e rivelatori in questa come in qualsiasi altra sfera:
Una rappresentazione esatta della totalità del mondo, del suo sviluppo e di quello dell'umanità, nonché dell'immagi ne di questo sviluppo quale si rispecchia nella testa degli uomini, può quindi effettuarsi solo per via dialettica, prendendo costantemente in considerazione le azioni reciproche del nascere e del morire, dei mutamenti progressivi o regressivi (11)..
Queste ultime si riferiscono direttamente, nel nostro caso, a quei passaggi nelle forme del pensiero sensoriale che appaiono in modo sporadico in stati di aberrazione o in condizioni analoghe e nelle immagini sempre presenti negli elementi di forma e di composizione fondati sulle leggi del pensiero sensoriale, come già abbiamo cercato di dimostrare e illustrare.
Dopo aver esaminato l'immenso materiale sull'argomento, mi sono naturalmente trovato a dover affrontare un problema che forse stimolerà anche il lettore: se l'arte non sia semplicemente una regressione artificiale ne] campo della psicologia verso le forme del pensiero primitivo, e cioè un fenomeno identico a quello prodotto da qualsiasi droga, bevanda alcolica, stregoneria, religione, ecc.! La risposta a questa domanda è semplice ed estremamente interessante.
La dialettica delle opere d'arte è costruita su una curiosissima «unità dualistica». L'opera d'arte colpisce proprio perché si svolge in essa un processo dualistico: un'impetuosa ascesa progressiva lungo le linee dei più elevati livelli espliciti di coscienza e la penetrazione simultanea, per mezzo della forma, negli strati del più profondo pensiero sensoriale. La separazione antitetica di queste due linee di movimento crea quella notevole tensione unitaria di forma e contenuto che è caratteristica delle vere opere d'arte. Senza di essa non esiste vera arte.
In questa caratteristica consiste l'infinita differenza di principio tra un'opera d'arte e tutte le zone adiacenti, simili, analoghe, e «reminiscenti», in cui hanno il loro posto anche fenomeni legati a «forme primitive di pensiero». Nell'inseparabile unità di questi elementi - del pensiero sensoriale con uno sforzo di elevazione esplicitamente cosciente - l'arte è unica e insuperabile in quei eampi in cui per arrivare a un'analisi correlativa è necessario decifrare comparando. Ecco perché, fedeli a questo principio fondamentale, non dobbiamo peritarci di decifrare in modo analitico le leggi fondamentali del pensiero sensoriale, tenendo presente la necessaria armonica unità di entrambi gli elementi che solo in questa unità possono produrre un'opera veramente degna.
Permettendo all'uno o all'altro elemento d'avere il predominio, non si raggiunge l'opera d'arte. La tendenza verso l'aspetto tematico-logico rende l'opera arida, logica, didattica. Ma anche il porre un eccessivo accento sulle forme sensoriali del pensiero, senza tener abbastanza conto della tendenza tematico-logica, è fatale all'opera, condannata cosi al caos sensoriale, agli elementi grezzi, al delirio. La vera unità, carica di tensione, di forma e contenuto consiste nell'interpenetrazione « dualisticamente unitaria» di queste tendenze. È questa la differenza fondamentale tra la più elevata attività creativa artistica dell'uomo e tutti gli altri campi in cui si manifestano il pensiero sensoriale o le sue forme primitive (infantilismo, schizofrenia, estasi religiosa, ipnosi, ecc.).
E se noi siamo ora alla vigilia di ottenere notevoli risultati nel campo della comprensione dell'universo nel primo senso (e lo provano le più recenti opere cinematografiche), dal punto di vista della tecnica del nostro mestiere è comunque necessario approfondire di più anche i problemi della seconda componente. Questo scopo si propongono gli appunti, pur superficiali, che ho potuto presentare qui. Il lavoro in questo campo non solo non è finito, ma è appena incominciato: ed è per noi assolutamente indispensabile. Enorme importanza ha quindi lo studio di tutto il materiale disponibile su questi problemi.
Studiando e assimilando questo materiale, impareremo moltissime cose sul sistema di leggi delle costruzioni formali e sulle leggi interne della composizione. E, per quanto riguarda la conoscenza del sistema di leggi delle costruzioni formali, il cinema e le arti in genere sono ancora poverissime. Ci stiamo ancora sforzando di scoprire in questi campi le fondamenta di quei sistemi di leggi, le cui radici affondano nella natura stessa del pensiero sensoriale.
Per quel che riguarda la musica o la letteratura, troviamo ben poco; ma, analizzando secondo questa linea tutta una serie di problemi e di fenomeni, metteremo insieme, nel campo della forma, una grande massa di conoscenze esatte, senza le quali non raggiungeremo mai quell'ideale generico di semplicità a cui tutti pensiamo. Per raggiungere questo ideale e realizzare questa linea è importante non lasciarsi sviare da un'altra linea che potrebbe incominciare ad affermarsi: quella della semplificazione. La tendenza è fino a un certo punto già presente nel cinema, e alcuni la interpretano dicendo che le cose debbono essere riprese «direttamente» e, in ultima analisi, poco importa come. Ed è un grosso guaio, perché tutti sappiamo come la questione cruciale non sia affatto quella del riprendere in modo elaborato e calligrafico (la fotografia diventa elaborata e calligrafica quando l'autore non sa né ciò che vuole riprendere né come deve riprendere ciò che vuole).
Il problema essenziale consiste nel riprendere in modo espressivo. Dobbiamo tendere verso una forma espressiva ed efficace al massimo grado e usare la forma più semplice ed economica per esprimere ciò che vogliamo. Ma questi problemi possono essere utilmente affrontati soltanto con un lavoro analitico molto serio e un'altrettanto seria conoscenza dell'intima natura della forma artistica. Non dobbiamo quindi seguire la via della semplificazione meccanica, ma piuttosto cercar d'indagare con un'analisi pianificata il segreto della natura stessa della forma migliore.
Ho cercato di chiarire qui le linee che vado seguendo nel mio lavoro per risolvere questi problemi. E penso che sia questa la via d'indagine più giusta. Se torniamo ora al cinema intellettuale, vedremo ch'esso ebbe almeno un aspetto positivo, nonostante la sua autoreductio ad absurdum, quando pretese di avere uno stile e un contenuto esaurienti.
La teoria era errata perché ci offriva non un'unità di forma e contenuto, ma una loro identità dovuta alla sola coincidenza, perché nell'unità è difficile vedere con precisione come s'incarnano efficacemente le idee. Ma quando questi due elementi si fondono in «uno», si scopre allora che lo sviluppo del pensiero interiore è la legge fondamentale di struttura della forma e della composizione. Ora possiamo già usare le leggi cosi scoperte non come «strutture intellettuali», ma come strutture multiformi, dal punto di vista tanto del soggetto quanto dell'immagine, perché conosciamo già alcuni «segreti» e alcune fondamentali leggi di costruzione formale e generale.
Da quanto ho detto parlando del passato e del lavoro di oggi, emerge un'altra differenza qualitativa.
Ed è questa: che quando nelle nostre diverse «scuole» proclamavamo l'importanza dominante del montaggio, o del cinema intellettuale, o del documentarismo, o di qualche altro programma polemico, si trattava essenzialmente di tendenze. Ciò che cerco ora di esporre brevemente circa il mio lavoro ha invece un carattere assolutamente diverso: non un carattere specifico di tendenza (come il futurismo, l'espressionismo, o qualsiasi altro «programma»): approfondisce invece il problema della natura delle cose, e non si tratta più d'una stilizzazione determinata, ma della ricerca d'un metodo generale per trattare la forma, d'un metodo essenziale e adatto a ogni genere di struttura del nostro stile complessivo del realismo socialista. I problemi di tendenza incominciano a trasformarsi in un interesse approfondito per tutta la cultura riguardante il mezzo con cui lavoriamo; si volge cioè verso la ricerca accademica. Ne ho avuto l'esperienza non solo creativa ma biografica: appena ho incominciato a interessarmi di questi problemi fondamentali, mi sono trovato praticamente impegnato non nella produzione cinematografica, ma nella creazione di un'accademia del cinema, di cui posi le basi nei tre anni di lavoro all'Istituto statale cinematografico di Mosca e che solo ora si sta sviluppando. È interessante inoltre osservare come il fenomeno a cui s'è fatto cenno non sia affatto isolato, e come questa qualità non sia caratteristica esclusiva del nostro cinema. Vediamo ovunque tutta una serie di teorie che smettono di esistere come «correnti» originali e incominciano, attraverso una trasmutazione e un cambiamento graduale, a far parte della metodologia e della scienza.
Ne abbiamo un esempio nell'insegnamento di Marr: la sua dottrina, che era inizialmente una tendenza «iafetica» nella scienza del linguaggio, è stata ora riveduta dal punto di vista marxista ed è entrata nella pratica non più come tendenza, ma come metodo generale nello studio delle lingue e nel pensiero. Non a caso in quasi tutti i campi intorno a noi nascono ora accademie; non a caso le discussioni nel campo dell'architettura non sono più tra tendenze rivali (Le Corbusier o Zeltovskij), ma si cerca una sintesi delle «tre arti», s'approfondiscono le ricerche sulla natura stessa dell'architettura.
Credo che qualcosa di analogo accada ora nel nostro cinema. Perché oggi noi cineasti non abbiamo più differenze di principi, non discutiamo sui postulati programmatici come un tempo. Anche se naturalmente esistono sfumature individuali nell'interpretazione d'uno stile unico: il realismo socialista.
E questo non è segno di decadenza, come potrebbe sembrare a qualcuno — « se non combattono sono morti » — ma il contrario. Proprio qui, e proprio in questo, vedo il maggiore e più interessante segno dei tempi. Sono convinto che ora, quando sta per iniziare il sedicesimo anno del nostro cinema, stiamo entrando in un periodo particolare. Questi segni che si scorgono oggi nelle arti parallele, oltre che nel cinema, annunciano che il cinema sovietico, dopo vari periodi di divergenze d'opinione e di argomento, sta entrando nel suo periodo classili, perché i suoi interessi caratteristici, il suo atteggiamento particolare verso i problemi, la sua sete di sintesi, questo suo postulare ed esigere una completa armonia di lutti gli elementi, dal soggetto del film alla composizione dell'inquadratura, questo bisogno di pienezza e di qualità, sono caratteristici di un'arte nel momento della sua massima fioritura.
Siamo ora sulla soglia del più notevole periodo classico del nostro cinema, del periodo migliore nel senso più alto della parola. In un simile periodo non è più possibile non partecipare creativamente. E se negli ultimi tre anni sono stato completamente assorbito dal lavoro d'indagine scientifica e pedagogico (un aspetto del quale ho esposto qui assai brevemente), riprendo ora l'impegno della produzione nel tentativo di giungere a un classicismo che conterrà una parte dell'immenso patrimonio lasciatoci.
1 Il termine «immagine» va qui inteso piuttosto nel senso di « raffigurazione», In alcuni casi «immagine» per Ejzenstejn assume addirittura il significato di «concetto figurato». .
2 Cfr. Una lezione di sceneggiatura.
3 Non presento questa tesi come nuova od originale. Tanto Hegel quanto Plechanov rivolsero uguale attenzione ai processi di pensiero fondati sui sensi. Quel che qui è nuovo è una distinzione costruttiva delle leggi di questo pensiero fondato sui sensi, perché questi classici non scendono a particolari su questo aspetto mentre senza questa distinzione è impossibile applicare in modo operativo la tesi alla pratica artistica e di mestiere. Lo sviluppo delle considerazioni, del materiale e dell'analisi che seguono si propone essenzialmente questo scopo pratico. [Nota di S.E].
4 A questo stadio non esiste neanche un concetto differenziato di « forza » al di fuori del concreto portatore specifico di quella forza.
5 La notevole abilità raggiunta in questo campo dal nostro cinema muto decadde in modo sensibile quando si passò al film sonoro: per averne le prove basta considerare la maggioranza dei nostri film sonori.
6 La differenza tra i due esempi consiste in questo: che i particolari del camminare e i movimenti scelti, per quanto raffinati, saranno sempre in un vero maestro anche «conduttori» del contenuto generale da lui realizzato in una rappresentazione particolare. Specialmente se il suo compito consiste nel trasformare, il semplice « approccio » in una complessa ricostruzione del gioco reciproco di stati psicologici. Senza questo, né tipizzazione né realismo sono possibili.
7 [Ejzenstejn si riferisce al primo verso di una nota «nursery rhyme» inglese, che racconta appunto come una vecchia vivesse in una enorme scarpa con un gran numero di bambini].
8 The Philosophy of Style, in Scientific, politicai, and speculative Essays, London 1891.
9 Engels, L'evoluzione del socialismo
10 Oggi ancora in alcune remote regioni del Messico, gli abitanti, in periodi di siccità, trascinano fuori dai templi la statua del particolare santo cattolico che ha preso il posto dell'antico Dio responsabile delle piogge e, dopo averlo portato al limite dei campi, lo frustano per la sua inattività, pensando di far soffrire così colui che la statua rappresenta.
11Engels, L'evoluzione del socialismo
Ultima modifica 28.05.2010