In ogni momento della sua attività teorica e pratica il Partito leninista ha, e deve avere, una visione strategica e una visione tattica del suo rapporto con la forza complessiva della borghesia, espressa dalla dominazione economica e politica, e con la forza particolare e specifica della classe borghese stessa, espressa da tutte le frazioni del capitale e dalla loro possibilità oggettiva di influenzare strati sociali intermedi e strati salariati.
Nella visione strategica del Partito leninista non è sufficiente considerare il livello e il grado di scontro tra proletariato e borghesia e valutare il rapporto di forze se, contemporaneamente, non si analizza la situazione delle frazioni borghesi, la loro consistenza, la loro evoluzione, la loro dialettica di unità e di antagonismo. Il rapporto tra forza-lavoro e plusvalore ci fornisce il quadro generale della società divisa in classi, ma solo l'analisi del meccanismo di ripartizione del plusvalore ci permette di vedere la concreta configurazione sociale e di affrontare strategicamente l'azione del partito leninista nella viva realtà, nella viva lotta di classe.
Proprio da questa analisi deriva, per il Partito leninista, una visione tattica della forza specifica della borghesia, cioè di tutte le componenti che, se da un lato, concorrono a determinare la sua forza complessiva, da un altro, costituiscono però tutti i suoi punti di debolezza, tutte le sue manifestazioni di contraddizione.
Se ciò vale a livello nazionale, cioè a livello di ripartizione del plusvalore in un mercato determinato, a maggior ragione vale a livello internazionale, cioè a livello di ripartizione del plusvalore sul mercato mondiale. Quando noi diciamo che l'imperialismo italiano si è indebolito relativamente vogliamo dire proprio questo: che se la forza della borghesia italiana, nella crisi di ristrutturazione che ha investito le metropoli, è aumentata in confronto al proletariato, cioè nella ripartizione italiana del plusvalore, nello stesso tempo si è indebolita in confronto degli imperialismi concorrenti, cioè nella ripartizione mondiale del plusvalore. Che una forza possa aumentare da una parte e, contemporaneamente, diminuire da un'altra è un concetto elementare per dialettica materialistica, un concetto che rispecchia ciò che avviene in ogni istante nella realtà della natura e della società.
Non si tratta, quindi, di sottovalutare o di sopravalutare la gravità della crisi ma di collocarla al suo giusto posto nella visione strategica del partito leninista. In quanto crisi caratterizzata da una ristrutturazione mondiale dell'apparato produttivo essa si presenta con un rapporto di forza complessiva favorevole al capitalismo internazionale il quale ha ancora una possibilità di espansione in vaste aree latino-americane, africane e asiatiche di giovane capitalismo e nell'area europeo-orientale di capitalismo statale. In questa crisi le metropoli occidentali hanno una possibilità di ristrutturazione proprio perché, nei decenni scorsi, aree prima stagnanti sono state investite dall'inizio dell'industrializzazione capitalistica. Le rivoluzioni democratico-borghesi che, in forma più o meno profonda, hanno coinvolto, nel nostro secolo, tre quarti del globo, hanno arato il terreno per la semina capitalistica. Se non si ha presente questo processo oggettivo che avviene su scala mondiale, in una dimensione e con una generalizzazione mai vista, non si è minimamente in grado di avere una visione strategica della crisi, di collocarla, cioè, nella tendenza storica dell'evoluzione sociale.
Attendere che, a breve scadenza, la crisi di ristrutturazione capovolga i rapporti di forza e li renda favorevoli al proletariato oltre che inutile è dannoso perché condurrebbe inevitabilmente al liquidatorismo, cioè alla liquidazione del compito generale di organizzazione e di educazione del proletariato da parte del partito leninista, e all'opportunismo, cioè all'abbandono del compito specifico di difesa delle condizioni di vita del proletariato tramite la lotta salariale.
La questione va ricondotta, quindi, dal rapporto complessivo al rapporto particolare di forza con la borghesia, va ricondotta dalla crisi mondiale di ristrutturazione all'indebolimento relativo dell'imperialismo italiano determinato da questa crisi, va ricondotta da quella che è una forza del capitalismo in campo mondiale a quella che è una sua debolezza in campo italiano. Diciamo subito che solo una forte internazionale proletaria potrebbe essere in grado di utilizzare efficacemente questa debolezza del capitalismo in un campo specifico. Ciò non toglie che la questione sia posta nei suoi termini corretti e che l'azione del partito leninista, indipendentemente dalla sua efficacia, vi si conformi. Tutte le frazioni borghesi sono d'accordo nel tentare di risolvere temporaneamente la crisi di ristrutturazione in Italia con la riduzione del monte salari, l'aumento della produttività aziendale, l'aumento dello sfruttamento del proletariato, l'aumento della disoccupazione. Come sempre, il tentativo è di fare pagare la crisi al proletariato. Le frazioni borghesi hanno ritrovato una sostanziale unità proprio sul problema dei salari. Perciò noi diciamo che c'è una determinata politica imperialistica sui salari, cioè una politica di unità imperialistica tra le frazioni borghesi che tende a ridurre il monte dei salari reali per arrestare o superare l'indebolimento della metropoli italiana nei confronti delle metropoli concorrenti.
L'imperialismo italiano potrebbe tentare di fare ciò con altre vie: riducendo il suo tasso di parassitismo, riducendo il peso della piccola borghesia, riducendo la quota di plusvalore consumato ed aumentando la quota di plusvalore investito, superando lo squilibrio derivato dalla non corrispondenza tra struttura e sovrastruttura. Ma su queste altre vie le frazioni borghesi non sono d'accordo e si dividono, seguite in ciò dalle loro basi di massa piccolo-borghesi.
Inevitabilmente, però, se la resistenza proletaria alla riduzione del monte salari fosse accanita, le frazioni borghesi si ritroverebbero divise di fronte ad un meccanismo della ripartizione del plusvalore lasciato invariato oggi ma che non lo potrebbe più rimanere. La nostra battaglia sul salario è, perciò, una battaglia politica di classe in due sensi: nel senso che è una difesa degli interessi immediati del proletariato di fronte alla politica imperialistica sui salari e nel senso che cerca di impedire che le contraddizioni tra le frazioni borghesi siano momentaneamente risolte.
La nostra battaglia sul salario è una lotta politica leninista contro la politica dell'imperialismo italiano. Questa politica imperialistica ha imposto come terreno di scontro tra borghesia e proletariato, oggi in Italia, quello della lotta per il salario. Se la crisi mondiale del capitalismo è una crisi di ristrutturazione essa non può aprire sbocchi rivoluzionari nelle metropoli. Difatti in nessuna di queste le lotte del proletariato hanno assunto un carattere di lotta rivoluzionaria per il potere. In nessuna di queste esiste una crisi dello Stato che si possa definire prerivoluzionaria. Anche dove, come in Italia, la crisi di squilibrio aveva investito le funzioni dello Stato si assiste ad una unità momentanea, anche se precaria, delle frazioni borghesi che porta ad una politica imperialistica sui salari. Nel complesso delle metropoli imperialistiche, anzi, il ciclo delle lotte operaie nella crisi di ristrutturazione manifesta un livello di ampiezza e di intensità notevolmente inferiore al ciclo precedente. E' un fenomeno oggettivo, generalizzato, comune a decine di proletariati.
Dove sono, quindi, le lotte del proletariato contro lo Stato imperialista che si svolgono su di un terreno più avanzato di quello della lotta per il salario e la condizione di vita? In decine di paesi il proletariato sta combattendo contro la riduzione dei salari reali e l'aumento della disoccupazione, in alcuni vi riesce parzialmente, in altri meno.
Dire, in questa situazione oggettiva, che vi sono terreni di lotta superiori a quello per il salario significa abbandonare l'unico terreno di lotta possibile, imposto, dati i rapporti di forza mondiali, dal capitalismo. Significa aiutare la ristrutturazione del capitalismo. Significa screditare la lotta per il salario allo scopo di portare il proletariato ad appoggiare lo Stato. La grande lezione della storia e del marxismo ci insegna che il proletariato per emanciparsi non può trasformare lo Stato capitalistico ma deve abbatterlo. La differenza di fondo tra il marxismo rivoluzionario e l'opportunismo, la differenza tra il Partito leninista e il PCI sta proprio qui. Noi combattiamo, con un atteggiamento rivoluzionario, la politica imperialistica sui salari, il PCI l'appoggia. Per noi la battaglia politica sul salario è un momento della strategia rivoluzionaria per abbattere lo Stato imperialista, per il PCI è un momento per riformarlo cioè per rafforzarlo.
In un articolo del 1914 Lenin, di fronte alla richiesta degli operai americani di fortissimi aumenti salariali e della giornata di lavoro di 6 ore, scriveva che dove vi sono "le istituzioni democratiche le più sviluppate" e una forte "produttività del lavoro" "è perfettamente naturale che la questione del socialismo passi in primo piano".
Con le loro "rivendicazioni semplici, evidenti, immediate" i proletari americani, secondo Lenin, cominciavano a prendere "una chiara coscienza dei loro compiti" perché valutavano “la produzione delle ricchezze del paese” e stabilivano "un bilancio statistico della produzione".
Lenin scrive alla vigilia di una guerra imperialistica, eppure si guarda bene dal giudicare primitive e corporative quelle richieste americane che, proprio perché spropositate e non conseguibili, primitive e corporative non erano ma, con la loro evidenza, semplicità, immediatezza, divenivano elementi di quella rivoluzione socialista che la guerra avrebbe posto in primo piano.
Questo è un esempio magistrale di lotta politica sul salario. A questo esempio rivoluzionario noi ci richiamiamo.
Ultima modifica 2.4.2002