Alla base della lotta di classe vi è il mercato della forza-lavoro e la contrattazione che, in forma individuale o in forma di coalizione, in tale mercato si determina.
Per questa ragione, le tornate contrattuali sono momenti importanti della lotta di classe in quanto ne registrano il grado di intensità. Ma è profondamente errato considerare questi momenti come fatti isolati ed isolabili.
Nella sua ideologia l'opportunismo è sempre teso a sottolineare l'aspetto particolare o, come esso dice, l'aspetto originale. Non a caso, l'opportunismo ha sempre attaccato le nostre posizioni marxiste come schematiche perché sottolineano, invece, gli aspetti generali della lotta di classe.
Ebbene, ancora una volta sono i fatti a smentire tutte le versioni ideologiche dell'opportunismo. Dopo avere per anni teorizzato la originalità del sindacato italiano ed i suoi infiniti modi nuovi di far automobili e scarpe, centrali e spaghetti, riforme e investimenti, rivoluzioni culturali e seminari dove si semina poco e si raccoglie ancor meno, scomuniche e comunicati a metri, l'opportunismo è costretto a svolgere l'unico ruolo nazionale, e per niente originale, che gli è proprio: quello di appoggiare massicciamente il proprio imperialismo.
Fa esattamente quello che fanno i movimenti opportunisti degli altri paesi. E non lo fa neppure in modo nuovo se chiama i proletari a sacrificarsi per il bene della collettività nazionale, cioè di coloro che detengono i mezzi di produzione e devono usarli nella concorrenza sempre più accanita con i detentori dei mezzi di produzione di altri paesi.
Dopo tante chiacchiere la questione di fondo è stata finalmente messa in chiaro da tutti: i salari italiani devono essere più bassi di quelli dei paesi concorrenti.
Come sempre avviene, in certi momenti storici sono i rapporti di forza interimperialistici a mettere in chiaro, in ogni singola metropoli, le posizioni dei vari partiti e sindacati ed a costringerli ad attestarsi nettamente in difesa degli interessi essenziali, e non marginali, del proprio imperialismo. Coloro che si scandalizzano di ciò non hanno capito che la dinamica storica della lotta delle classi, anche se attraversa fasi di complicazioni multiformi, conduce a sbocchi dove le questioni anche più aggrovigliate si pongono in termini netti, semplici ed inequivocabili, proprio perché la tendenza oggettiva li colloca in tali termini possono essere affrontati dal movimento rivoluzionario.
L'attuale tornata contrattuale si svolge nella situazione da noi caratterizzata come crisi di ristrutturazione mondiale, cioè in una crisi che vede le singole metropoli imperialistiche costrette a modificare l'apparato produttivo e l'utilizzo della forza-lavoro .
A questo ciclo della struttura corrisponde un ciclo specifico di lotte operaie, un nuovo ciclo che si può definire di lotte operaie nella ristrutturazione. Nei rapporti interimperialistici il dato principale che riguarda l'Italia è l'indebolimento relativo del suo imperialismo. Quindi, nella metropoli italiana, la tornata contrattuale si svolge in una situazione di indebolimento dell'imperialismo italiano in rapporto ai suoi concorrenti. E' un ciclo di lotte operaie nella ristrutturazione di una metropoli relativamente indebolita; indebolita, di conseguenza, anche se in modo proporzionalmente differenziato, in tutte le frazioni borghesi, grandi, medie e piccole.
Cosa significa ciò, dal punto di vista del capitale sociale, ossia di tutto il capitale?
Significa che è diminuita, o è in diminuzione, la massa assoluta di plusvalore. Quindi, è diminuita la massa di plusvalore da ripartire tra le frazioni borghesi. Anche se è in corso, come sempre, la lotta per la ripartizione nazionale del plusvalore questa lotta non caratterizza più, come negli anni '60, il rapporto tra le frazioni borghesi. Prevale, in questo rapporto, l'interesse comune ad aumentare la massa del plusvalore, a riportarla al livello precedente, comunque, a non farla diminuire ulteriormente .
Su questi tre aspetti c'è stata e c'è ancora una lotta tra le frazioni borghesi ma, progressivamente, si è andata attenuando sino a trovare una sostanziale unità sul contenimento del livello della massa del plusvalore.
Ciò si è riflesso politicamente nel compromesso precario e contingente, sotto l'egemonia del capitalismo statale, dei Governi esprimenti le frazioni borghesi. Il compromesso è divenuto sempre più obbligato e, quindi, meno precario e più stabile e ciò rafforza la tendenza al bipartitismo di Stato poggiante sulla DC e sul PCI, cioè sulle due forze politiche più direttamente impegnate a favorire la ristrutturazione e 1' aumento della produttività. Mancando, nella metropoli italiana, una ristrutturazione di fondo che aumenti la produttività generale, ristrutturazione che per allinearsi a quella in atto nelle metropoli concorrenti dovrebbe dimezzare la piccola borghesia e raddoppiare il grado di concentrazione, permane condizionante la peggiorata posizione dell'imperialismo italiano nella nuova ripartizione mondiale del plusvalore. Permane condizionante per tutto il capitale sociale italiano e, quindi, anche per i salari.
Di fronte alla crescente confusione ideologica sul problema dei salari è necessaria una chiara spiegazione marxista. Il rapporto tra i salari ed il PNL, a produttività invariata, e ad immutata distribuzione interna del PNL, è condizionato dalla nuova ripartizione mondiale del plusvalore.
Nelle nuove ragioni di scambio mondiale il capitalismo italiano perde circa il 5% del suo PNL, ossia 7-8 miliardi di dollari. Il meccanismo di questa perdita è estremamente complesso poiché si basa sulla dinamica internazionale delle varie produttività del lavoro e si esprime con la dinamica dei prezzi. Comunque, si può valutare che l'attuale ragione di scambio è passata a 1,3, cioè in confronto al valore importato nel 1972 l'Italia deve oggi esportare un 30% in più. La riduzione delle importazioni non muta, ovviamente, la ragione di scambio. L'aumento delle esportazioni neppure. La modificazione della ragione di scambio può avvenire solo con l'aumento della produttività; ma per ottenere questo aumento il capitalismo italiano deve ristrutturarsi. Altrimenti continuerà a cedere al mercato mondiale una quota del suo plusvalore. E' ciò che sta' avvenendo. Ma la riduzione della massa di plusvalore significa solo che viene ridotta la massa degli investimenti o che viene ridotta la massa dei consumi derivata dalla ripartizione del plusvalore. Rimangono ancora due soluzioni: l'indebitamento estero e la riduzione del capitale variabile, o massa dei salari. Questo sempre che rimanga invariata la produzione; ma se la produzione cala, come avviene per effetto della ristrutturazione mondiale che frena l'esportazione, il meccanismo di cessione di una quota di plusvalore all'estero si manifesta in termini drastici. L'indebitamento estero non diventa più possibile e il capitalismo italiano si trova nella necessità di dover ridurre in assoluto, e non più in relativo, la quota di plusvalore che va in consumi o di dover ridurre in assoluto la massa dei salari. Se la riduzione della quota di plusvalore che va in consumi permette un aumento della quota di plusvalore che va in investimenti, la riduzione in assoluto della massa dei salari non ha lo stesso effetto.
La riduzione della massa dei salari significa riduzione. della parte variabile sul capitale totale, quindi aumento della composizione organica del capitale. In altri termini, significa che per ogni operaio aumenta il capitale investito in macchinari o mezzi di produzione, Ciò diminuisce il saggio del profitto.
La massa dei salari rappresenta la massa dei valori della sussistenza e della riproduzione della forza-lavoro impiegata. L'industria dei beni di sussistenza della forza-lavoro o produce a più basso costo questi valori oppure ne produce di meno. In questo secondo caso la riduzione della massa dei salari si traduce in una riduzione dei consumi della forza-lavoro e in una riduzione della produzione di questi beni.
Il calo di produzione di questa industria diventa, a questo punto, un freno all'investimento in tutta l'industria, cioè un freno a quell'investimento che potrebbe alzare la composizione organica del capitale e porre l'apparato produttivo italiano al livello di quello dei suoi concorrenti.
Difatti l'aumento della composizione organica del capitale, o diminuzione dell'incidenza della parte variabile sul capitale, si ha solo quando il prezzo della forza-lavoro aumenta in misura tale da poter sostituire con le macchine gli operai o quando tale prezzo diminuisce perché sono diminuiti i costi di produzione dei beni di sussistenza.
L'attuale ciclo in Italia non è caratterizzato, per quanto riguarda il mercato della forza-lavoro, né da un aumento dei salari reali né da una diminuzione dei costi di produzione dei beni di sussistenza. Perciò la riduzione della massa dei salari avviene in assoluto. Essa si traduce in diminuzione in assoluto del consumo dei beni di sussistenza e, in questo modo, cioè importando meno beni di sussistenza, il capitalismo italiano cerca di compensare la sua peggiorata ragione di scambio. E' una soluzione precaria e, tutto sommato, inutile.
Se bastasse ridurre la massa dei salari per migliorare la ragione di scambio ed aumentare la competitività, la concorrenza imperialistica troverebbe l'unico ostacolo nel livello fisiologico di sussistenza della forza-lavoro ma crollerebbe ben presto nella sovrapproduzione.
In questo quadro economico generale avviene la tornata contrattuale. Nell'anno in corso si può calcolare che i redditi da lavoro dipendente, considerati come massa, abbiano perso circa un decimo della loro incidenza sul reddito nazionale, cioè hanno perso in relativo e in assoluto. Per la struttura capitalistica che determina una vasta stratificazione dei redditi da lavoro dipendente praticamente è impossibile calcolare la perdita delle singole categorie. Da un punto di vista generale, anzi, oltre che impossibile è inutile. Dall'analisi del rapporto dell'economia italiana con l'economia internazionale noi possiamo ricavare inequivocabilmente un trasferimento di reddito nazionale all'estero. Riscontriamo, quindi, una riduzione dei consumi privati ed una riduzione dei risparmi delle famiglie che corrisponde a questo trasferimento.
Ciò è l'unico dato fondamentale che ci interessa. Poco valore ha la discussione sulle tariffe salariali, soggette come sono ad una infinità di interpretazioni sia per il loro estremo ventaglio che per il fatto che non trovano generale applicazione, esistendo sul mercato del lavoro italiano una quota considerevole di proletari che non ha un contratto regolare e, addirittura, una leale assunzione. Le comparazioni delle tariffe salariali italiane con quelle di altri paesi non hanno alcun valore perché sono rilevate come media, perché riguardano solo alcuni settori ed alcune imprese dove valgono le integrazioni contrattuali e perché, soprattutto, non abbracciano vasti strati di salariati.
Quindi, il tentativo della Federmeccanica, ad esempio, di dimostrare che il costo del lavoro italiano è ormai a livello europeo od il sofisma di Andreatta per il quale la contingenza coprirebbe quasi tutto l'aumento del costo della vita, altro non sono che artifici poiché né il signor Mandelli né il signor Andreatta sanno quanti sono i salariati in Italia, quanto è il monte ore impiegato nella produzione e quanta è la produzione stessa e ciò per tutti i settori, per i vari rami d'industria e per la stessa metalmeccanica.
A dimostrare la serietà di certe medie di tariffe salariali e di certi documenti governativi, sui quali poi i sindacati fanno finta di discutere, basti il fatto che per molti economisti borghesi la popolazione attiva impiegata in Italia e lo stesso reddito nazionale sono sottostimati almeno di un quinto!
E' solo adoperando la distinzione che la teoria marxista dei salari fa tra tariffe salariali e salari reali che si può fare luce in tanta confusione. La massa dei salari reali è la massa delle retribuzioni, tariffarie o non, percepita dalla forza-lavoro. Anche se è impossibile quantificare questa massa, rimane il dato certo rappresentato dal rapporto economico tra l'Italia ed il resto del mondo. Questo ci permette di affermare con certezza che la massa dei salari reali in Italia è diminuita di circa un decimo.
Da questa base oggettiva parte il movimento rivendicativo di recupero salariale. Data la fase di ristrutturazione che determina un aumento del tasso di disoccupazione, il movimento rivendicativo incontra ostacoli oggettivi che limitano il recupero salariale stesso. Non sono questi ostacoli oggettivi a poter essere addebitati al sindacato. Il problema non sta nella possibilità o meno del recupero. Il problema sta, invece, nell'atteggiamento del sindacato, nella sua rinuncia a sostenere il movimento rivendicativo, nel suo tentativo di portare il proletariato a sostenere l'imperialismo italiano, nel suo sforzo per aiutare la borghesia privata e statale ad aumentare la produttività e lo sfruttamento della forza-lavoro.
Nel ciclo delle lotte operaie nella ristrutturazione sempre più chiara diventa la linea di demarcazione tra l'opportunismo e il Partito leninista rivoluzionario. Il nostro compito è di appoggiare il movimento rivendicativo, in tutti i suoi momenti anche in quelli di stanchezza. Nel lavoro costante e quotidiano di organizzazione e di educazione del proletariato stabiliamo quella indispensabile autonomia teorica, politica e materiale di classe che è l'unica garanzia del futuro, quando gli opportunisti saranno chiamati ad aiutare la borghesia in crisi più gravi e pericolose.
Ultima modifica 2.4.2002