Premessa
1 - Marxismo ed enigma
russo
2 - Rivoluzione europea borghese e proletaria
3 - Cose sociali di Russia
4 - Nomadismo e società fissa nell'area «grande slava»
5 - Il marxismo russo
6 - Bolscevichi e menscevichi
7 - Due tappe della rivoluzione russa
8 - Guerra, pace e
rivoluzione
9 - Rivoluzione in un solo paese
10 - L'arrivo di Lenin
in Russia
11 - Teoria e storia. Da aprile a luglio 1917
12 - Da luglio ad ottobre.
La rivoluzione prorompe
13 - Totalità
inesorabile della rivoluzione politica
14 - Distruzione della
guerra imperialistica
15 - Stritolamento delle
controrivoluzioni
16 - Il tragico cammino
della rivoluzione europea
17 - L'insormontabile
alternativa storica al 1926
18 - Economia: periodo primo. Il cosiddetto «comunismo di
guerra»
19 - Periodo secondo: la
nuova politica economica
20 - Industrialismo di
Stato
21 - Terzo periodo:
lotta al kulak
22 - Le due
costituzioni: 1918 e 1936
23 - Odierno diritto
civile sovietico
24 - Industria delle
costruzioni
25 - Proprietà e
godimento
26 - Dove va la Russia?
Poiché la riunione di Genova del 6-7 agosto 1955 si accavallava alla pubblicazione a puntate de «La struttura economica e sociale della Russia d'oggi» sul nostro quindicinale, il relatore, come di norma, ricollegò la trattazione da svolgere alle precedenti esposizioni verbali di altre riunioni e alla pubblicazione in questo giornale dei diffusi regolari resoconti. Ricordò come, dopo una serie di studi organici sulle questioni del movimento e della sua teoria, sotto i profili economici, storici, sociali e politici, nei quali tuttavia erano stati più volte posti in tutta la loro estensione i problemi legati alla situazione e allo sviluppo della Russia, ed a seguito della pubblicazione di una serie di «Fili del Tempo» [1] apparsi nel 1953 sotto il titolo «Dialogato con Stalin», si era voluta dedicare sistematicamente una serie di riunioni interregionali alla Russia.
Alla riunione di Bologna, il 31 ottobre e 1° novembre 1954, il tema fu: «Russia e rivoluzione nella teoria marxista», ed il resoconto in esteso (che poi, come più volte avvertito, è una nuova elaborazione, successiva alla esposizione verbale e maturata dopo l'incontro con gli ascoltatori, le loro impressioni e richieste di sviluppi), fu dato in «Programma Comunista» in 11 puntate tra il n. 21 del 1954 e il n. 8 del 1955. Storicamente tale trattazione giunge fino alla data della prima guerra mondiale. Alla riunione di Napoli, 24-25 aprile 1955, il tema fu «Struttura economica e sociale della Russia d'oggi» e comprese una esposizione delle vicende della rivoluzione in Russia nelle fasi del 1917, in sintesi, e quindi un esame della struttura sociale della Russia presente, dimostrando la nostra tesi centrale, che ivi vige una economia capitalistica nella sua ormai bene avviata edificazione in tutto il territorio.
Il relatore dichiarò che nella riunione di Genova avrebbe ripetuto quanto esposto a Napoli, in ispecie a partire dal livello raggiunto nel diffuso rendiconto pubblicato in 5 puntate di «Programma», tra il n. 10 e il n. 15 dell'anno in corso [2] : per tal modo il resoconto sarà unico, nella sua continuazione, per le riunioni di Napoli e Genova.
Annunziò quindi, fedele al metodo delle ripetizioni dei temi di base, che avrebbe premesso una ricapitolazione breve delle tesi svolte a Bologna e di quelle svolte a Napoli e nelle sei puntate di resoconto sopraddette, svolgendo poi in tutta l'ampiezza quanto a Napoli già detto sulla storia della rivoluzione sovietica (a partire dalle tesi di Aprile 1917 da Lenin date al suo rientrare in Russia) e sullo svolgimento delle forme economiche, muovendo quindi dall'Aprile, trattando l'Ottobre e la vittoria politica bolscevica, il lungo periodo della guerra civile; ed infine il contenuto dell'opera di governo nei suoi vari periodi, dal «Comunismo di guerra» alla «Nep» ed al terzo periodo, definito con bestemmia dottrinale di costruzione del socialismo, e che noi definiamo periodo di formazione della totale economia e struttura sociale capitalistica, sulle rovine di quelle feudali e asiatiche.
In un prossimo numero del giornale il resoconto completo, che potrà ben prendere nome da Napoli-Genova 1955, riprenderà ad essere elaborato in dettaglio muovendo dalle Tesi di Aprile. In questi due numeri, 15 e 16 del 1955, diamo una sintesi succinta di tutto il corso di trattazioni sul tema russo, da Bologna a Napoli e Genova, che crediamo possa essere utile a buon orientamento di quanti seguono con impegno massimo il lavoro in profondità che tutto il partito nel suo insieme ha tenacemente preso a sostenere.
Siamo così sicuri di rispondere alla attesa di tutti i compagni, e soprattutto di quelli che non hanno potuto essere presenti, ed alla soddisfazione mostrata da tutto il folto e impegnatissimo uditorio per la maniera sistematica e solida di porre sul tappeto e condurre a soluzione tutte le grandi e vitali questioni proprie del tema, senza il minimo riguardo sia per i pregiudizi che anche agli ottimi marxisti la società ambiente sempre getta di nuovo tra i piedi e davanti agli sguardi, sia e soprattutto per le misere, demagogiche speculazioni delle bande avverse, e anche - last but not least - per le pietose sbandate di piccoli gruppetti che, pur colpiti nel subcosciente dal dilagante fetore dell'opportunismo trionfante, reagiscono in modo insufficiente e deteriore, incappando, traverso elucubrazioni intellettuali di persone o di dubbi cenacoli e circoli di «libera discussione», in slittate teoretiche certamente più perniciose del crasso diguazzare nel vile commercio di principi che distingue il «comunismo» ufficiale di questi amari tempi [3] .
Sorto il sistema unitario marxista, nel doppio inseparabile aspetto di scienza della economia moderna mercantile capitalista (Inghilterra, Europa occidentale e centrale) e di teoria dello svolgimento storico che fa dipendere le forme e le lotte politiche dalla sottostruttura economica e dallo avvicendarsi dei modi di produzione tipici, anche i suoi seguaci, davanti ad una Russia in cui la rivoluzione liberale tardava, e con essa il gran trapasso dal modo feudale a quello borghese di economia, si fermarono davanti al quesito: Vale la dottrina del materialismo storico a spiegare anche lo svolgimento della storia russa? O è questo originale, peculiare, estraneo agli schemi di classe e al modello delle successioni storiche fondato da Marx sui dati della storia dei paesi giunti nell'ottocento alla piena forma capitalistica?
Nostra risposta: La teoria materialista della storia e la legge della scienza economica sono, per la scuola marxista, applicabili alla Russia e all'Europa. Esse hanno valore per tutti i luoghi e tutti i tempi del divenire sociale umano, per tutti i trapassi da uno ad altro modo di produzione, per i popoli più sviluppati come per quelli più arretrati.
All'inizio del movimento operaio moderno, dopo le grandi rivoluzioni borghesi in Inghilterra (sec. XVII) e Francia (secolo XVIII), e al tempo del grande incendio rivoluzionario del mezzo secolo XIX, che deve estendere la rivoluzione liberale all'Europa continentale, e in cui un proletariato già dotato di connotati organizzativi e teorici è presente, nonché per tutto il susseguente periodo fino alla Comune di Parigi (guerra franco-prussiana 1870-71), come il nascente movimento internazionalista operaio e la sua dottrina marxista valutano il gioco della Russia? [4].
La risposta è che in una tale fase storica e in tale campo geografico (area) i marxisti, pure avendo il chiaro fine di far scoppiare la rivoluzione socialista e sradicare la forma capitalistica ove essa è matura, appoggiano ogni moto per la sistemazione liberale e nazionale-indipendentista di Europa come inseparabile condizione della liquidazione della reazione feudale, e quindi difendono le guerre di liberazione nazionale di tedeschi, italiani, ungheresi, polacchi e così via. Lo Stato russo è considerato non maturo per una rivoluzione interna anche borghese liberale, e definito come «riserva della controrivoluzione». Pregiudizialmente allo studio delle sue forze interne, è tesi marxista sicura quella di favorirne la sconfitta militare in ogni urto con potenze europee, come quella dell'alleato sistematico della reazione sia quando una capitale europea si leva contro l'assolutismo feudale, sia ed ancor più quando la classe operaia, come forza nuova e diversa, scende sulla barricata.
Quindi con rigorosa coerenza teorica la Prima Internazionale e il suo Maestro Carlo Marx sono per la vittoria contro la Russia tanto degli insorti di Polonia, quanto degli eserciti europei alleati coi turchi, e della Turchia sola (sebbene più che feudale), come nella futura prevista grande guerra della Germania contro slavi e latini. Di qui tutte le menzogne sulla posizione antislavista di Marx per pretese ragioni nazionali e razziali.
Dal 1871 in poi, caduto Napoleone III alleato della Russia, e levatosi eroicamente il proletariato di Parigi, il marxismo è per la vittoria del proletariato contro tutti gli eserciti europei, compreso il russo, contro di lui confederati, pur plaudendo ancora nel 1877 alla disfatta a Plevna delle truppe zariste.
Dall'interno dell'immenso paese giungono ormai insopprimibili gli echi di una lotta rivoluzionaria delle classi, e della ribellione al regime dello zar e dei feudatari. Come questo corso si svolgerà? Darà esso luogo ad una rivoluzione liberale, al potere parlamentare della borghesia ed allo sviluppo economico capitalista che farà nascere un potente proletariato, al passo con quello europeo? Una teoria rivoluzionaria marxista sostiene una ben diversa prospettiva, che vuole poggiarsi sul sopravvivere in Russia della primitiva forma del villaggio agricolo comunista, soggetto, sia pure, alla nobiltà e allo stato autocratico, e traccia la via di un passaggio ad economia collettiva col «salto» della fase capitalista. Come Marx ed Engels vedono una tale tesi, che eleva al rango di classe rivoluzionaria i contadini al posto degli operai salariati?
La risposta di Marx è che il poggiarsi di una economia comunista sui residui del comunismo primitivo è pensabile solo se la rivoluzione russa sarà contemporanea ad una vittoriosa rivoluzione europea del proletariato moderno, che si impadronisca su scala totalitaria dei mezzi di produzione capitalisti.
Ben presto egli dichiara che una tale occasione storica è perduta per la Russia: lo zarismo stesso vi introduce l'industria urbana, la riforma agraria nel 1861 in realtà più che liberare i servi ha trasformato gli antichi coltivatori in comune in minimi agricoltori proprietari o aspiranti a tale condizione, che ne fa non dei rivoluzionari ma dei codini.
L'analisi russa interna è poi condotta da Engels con studi del 1875-1894. Essa conduce ad escludere la congiunzione storica tra l'antico mir comunistico e il socialismo, la capacità rivoluzionaria del contadino se non a fini di una rivoluzione puramente borghese di cui ancora non sono in campo i protagonisti, e constata l'affermarsi potente di forme di pieno capitalismo in una industria delle città, in una rete ferroviaria moderna, e in stabilimenti meccanici per fini guerreschi di primo ordine. Assegna quindi alla Russia lo stesso svolgimento delle nazioni di Europa più avanzate, e ribadisce la tesi centrale del marxismo: la Russia può accelerare la corsa verso il socialismo, cogliere le occasioni che le rivoluzioni antifeudali danno storicamente al proletariato, su una sola base: l'appoggio di una trionfante rivoluzione sociale in Europa.
Scritti dei grandi marxisti europei e russi ci sono valsi, ai fini del giudizio sulle più recenti forme e fasi sociali e politiche in Russia, a combattere l'affermazione che nella storia russa dalle origini cada in difetto la possente teoria Marx-Engels-Lenin sulla società e lo Stato. Lo Stato non appare che in società ormai stabilmente fissate su un territorio. Ma non vi appare necessariamente subito, bensì solo quando tali prime società, in ragione soprattutto della poca terra disponibile in rapporto alla forza numerica umana, si scompongono in classi e in cozzi interni ed esterni. Densità umana, natura del suolo quanto a possibilità di movimento, a clima e a fertilità, hanno quindi dato luogo a diversi tipi di sviluppo, nei quali lo Stato si è presentato a stadi ben diversi.
Una parallela applicazione della teoria del materialismo storico, svolta nel nostro studio, ci fa assistere al nascere dello Stato nei vari grandi campi. In quello asiatico rado lo Stato sorge quando in lotte tra libere gentes comuniste troppo vicine un popolo militare ne assoggetta altri e forma classi di schiavi «personali», masse di forza lavoro rurale e urbana al servizio di capitani, monarchi e famiglie signorili. Nel campo asiatico fitto lo Stato centrale si fonda sul tributo e la soggezione collettiva di villaggi agricoli stabili, in cui lavoro e consumo sono comuni e collettivisti; forma specialmente statica per millenni. Nel campo greco-romano classico lo Stato è democratico per una classe di liberi, diversamente padroni di terra e di schiavi, posseduti non come collettività ma come singoli possessi (uomini e suolo) di individui della classe libera. Stato tardivo, ma avanzato e di sviluppato diritto. Questo Stato divenuto Impero si dissolverà nel feudalesimo, con la liberazione del troppo costoso schiavo, al fine della grande produzione e del commercio generale, e la molecolarizzazione periferica dei poteri. Nel campo germanico il popolo nomade si fisserà sulle terre del caduto o cadente impero e lo Stato non sorgerà che come potere feudale disperso. Ricomparirà lo Stato in questa Europa, dei due campi mediterraneo e nord-centrale, quando le nazioni borghesi, soppressa come fu la schiavitù anche la servitù della gleba, sostituiranno il potere della nobiltà, già menomato dallo Stato centrale monarchico nazionale.
Che di diverso nel campo russo? Vagliati gli elementi fisici di clima, distanze, comunicazioni, articolazioni tra mari, piani e monti, gli elementi storici della fissazione di diversissime razze in turbinose vicende di invasioni e stermini di popoli non nutriti dal terreno sterile, ne sorge la precoce premessa al sorgere della macchina-Stato, che la leggenda dice chiesto da genti senza pace non duecento ma mille anni fa al conquistatore ed esploratore vichingo Rurik. Questo Stato politico e militare non si dissolve nel feudalesimo; esso governa sui liberi mir che rende tributari; i nobili autoctoni e di importazione non asserviranno i villaggi che in parallelo e suppergiù in parità statistica (fino al 1861) con lo Stato (la Corona) e in parte coi monasteri.
La conclusione dello schema, qui richiamato in modo scarno, è che per ragioni tratte da soli elementi materiali e deterministi ben si vede che in Russia il feudalesimo non fu mai antistatale, e fu un vero feudalesimo di Stato; il che senza sorpresa ci fa vedere un capitalismo che nasce statale e vince nella forma statale, «direttamente», senza la apparente forma privata singola. Questa costituisce, in dottrina nostra, una variante giuridico-politica, non sociale, perché l'avvento primo del capitalismo è avvento della produzione sociale; che contro la società produttrice e consumatrice si opponga, come nella dialettica teoria di Engels, la classe dominante, o lo Stato, non è che espressione con parole diverse del medesimo fattore storico.
Ogni comunismo delle genti primigenie, da quando sorsero le classi, e con esse uno Stato estraneo e centrale alla comunità di produttori, cessò di essere comunismo, e finì nella schiavitù, nella servitù della gleba, o nella classica piccola proprietà dei liberi, a seconda dei campi, ma nella lettura di una stessa scienza dell'umana storia.
Dal 1800 la formazione dall'alto di un'industria in Russia, iniziata storicamente da lontano dagli zar guerrieri, uscendo di forza dalle primissime forme di industria con servi, genera nella città il proletariato salariato, nelle cui file la disastrosa riforma servile, creatrice solo di pauperi, rovescia nuove armate di lavoro. Sorge il marxismo teorico con grandi nomi, e grandissimo Giorgio Plechanov maestro di Lenin, e fa sua la teoria della rivoluzione operaia conducendo una critica inesorabile del populismo contadino. La nostra esposizione ha mostrato che in un lungo corso il marxismo russo si libera delle stesse forme deteriori che per l'occidente denunzia il capitolo finale del «Manifesto» de 1848. Il «marxismo legale» di Struve, l'«economismo», le cento scuole contadine, populiste, libertarie, hanno la portata del socialismo feudale, reazionario, borghese, piccolo-borghese, che in lunghe battaglie per sempre Carlo Marx aveva sgominato. I marxisti russi si raccolgono infine nel Partito Socialdemocratico, che ha per sua base la dichiarazione di falsità della tesi: La rivoluzione russa ha una sua via speciale, non avrà protagonista la borghesia né gli operai, ma solamente i contadini. Ed infatti una rivoluzione contadina può darsi nella storia, ma unicamente come controfigura della più bassa rivoluzione borghese.
Ma sulle prospettive di questa rivoluzione antifeudale, che i contadini non faranno da soli, e che tanto meno - se la facessero - diventerebbe per ciò non capitalista ma socialista, nasce ben presto nel partito marxista una fondamentale divergenza.
La storia del movimento ci dice che il vecchio Engels, come persona e capo politico, si adoperò a sanare una tale divergenza e perfino quella verso i «socialisti rivoluzionari», scuola derivata dal populismo agrario. Ne sono ovvi i motivi.
Tuttavia la versione di Lenin della prospettiva storica, abbiamo il diritto di dire ed abbiamo dimostrato nella seconda parte di Bologna («Partito proletario di classe ed attesa della duplice rivoluzione») [5], è figlia primogenita della classica posizione marx-engelsiana, e va data ad essa adesione al mille per mille.
Appariva chiaro, nell'epoca della grande polemica 1903-1912, e a cavallo del grandioso periodo rivoluzionario del 1905, che la Russia del principio del 1900 non era ancora all'altezza della Germania 1850 in cui Marx ed Engels avevano affermata la saldatura tra rivoluzione borghese ed operaia, ove lo stato reazionario tedesco prussiano avesse vacillato. Se vile fu allora definita la borghesia tedesca come forza classista e nazionale, non erano certo nulle le sue tradizioni, dalla Riforma e prima, urbane, comunali, civili, culturali; e non era sotto-valutabile l'eredità di preparazione storica trasmessa al nascente proletariato, anche prima che la diffusione dell'industria prendesse il ritmo travolgente della seconda metà del secolo, scontata dalla immediata vicinanza ed influenza di Francia e Inghilterra.
In Russia, se fu quasi solo Trotsky a innamorarsi della teoria della Rivoluzione permanente, fondata - non disprezzabile eredità teorica e politica - ai tempi gloriosi della Lega comunista europea, i due opposti punti di vista furono questi. Per i menscevichi la Rivoluzione che avrebbe rovesciato lo zar avrebbe fondato una repubblica parlamentare e borghese e dato un potente avvio al capitalismo. Pur battendosi per una tale rivoluzione, il partito proletario in questa repubblica avrebbe lasciato governare la borghesia divenendo un partito di opposizione, evidentemente «legale». Sarebbe seguita una fase storica borghese, di tipo europeo.
Ben diversa la visione di Lenin. In due parole, e rimandando alle innumeri documentazioni fornite, la tesi è che la borghesia russa non può da sola reggere il potere, e nemmeno la borghesia alleata ai partiti contadini, senza soggiacere alla controrivoluzione feudale (e ridare vita alla riserva reazionaria europea di cui ansiosamente da decenni si invocava la fine). Non basta dunque rovesciare il potere zarista o contribuire a rovesciarlo: occorre che il partito proletario prenda il potere. Non diverrà un partito di opposizione, e nemmeno di governo parlamentare, ma nella rivoluzione porrà il traguardo: Al potere, senza i partiti borghesi e contro di essi! Al potere rivoluzionario, avendo per alleati i partiti contadini e anche il menscevico, SE sul piano della esclusione borghese! Questa dittatura della alleanza di operai e contadini si chiama democratica perché non servirà a fabbricare socialismo (farneticamento populista) ma a scongiurare la controrivoluzione dispotica e feudale; si chiama dittatura perché il potere sarà preso nella lotta rivoluzionaria e denegato ai partiti borghesi: il suo contenuto, in cento dichiarazioni di Lenin, è la guardia ai contadini per il momento inevitabile in cui passeranno alla conservazione borghese e alla resistenza al socialismo.
Questa dittatura governerà per accelerare la trasformazione capitalistica del paese, e democratica, in stretto senso, dei suoi tarlati ordinamenti, per attendere la rivoluzione socialista di occidente, libera ormai dallo spettro che arrivino a Varsavia, a Vienna e Berlino, e magari a Parigi, i cosacchi.
Questa tesi è stata valida per Lenin in tutta la sua vita, è validissima per la storia di oggi ancora, dialetticamente vera sebbene siano capovolte le vicende per cui si attendeva l'insorgere del proletariato di Europa, e capovolta la teoria e la politica del potere dominante in Russia.
Il nostro svolgimento è diretto a distruggere questa tesi: che la prima rivoluzione russa nel febbraio 1917 sia stata la rivoluzione borghese, vinta dai socialisti; e che nella seconda di Ottobre sia stata superata la vecchia formula bolscevica di andare al potere al solo scopo di «fare la guardia alla democrazia e al capitalismo» fino alla rivoluzione occidentale, per passare senz'altro ad una rivoluzione socialista integrale, del livello che avrebbe potuto avere, poniamo, la rivoluzione tedesca se non fosse stata schiacciata.
Noi dimostrammo che la rivoluzione di febbraio rappresentò la formula menscevica, con ulteriore caduta di populisti e socialdemocratici nell'opportunismo, per l'entrata nel governo provvisorio borghese e per l'asservimento a questo dei Soviet operai, sorti come nel 1905 alla testa della lotta rivoluzionaria. La rivoluzione di Ottobre riportò alla formula bolscevica: alleanza coi contadini, espulsione della borghesia dal potere, rinvio del socialismo in Russia alla rivoluzione europea, sradicamento dei mille residui feudali, il che, anche per i marxisti che denegano alla «democrazia» ogni valore assoluto, si fa percorrendo rapidamente le fasi della democrazia spinta a fondo: solo dopo la si butta sul serio via.
Nella parte già sviluppata in resoconto della riunione di Napoli abbiamo voluto ribadire perché neghiamo che sia giusto dire che l'ottobre fu rivoluzione borghese. Rivoluzione borghese è quella in cui la borghesia governa, ben vero come classe nazionale e anche extra-nazionale e mondiale.
Abbiamo
dato tre caratteri radicali della rivoluzione bolscevica che la separano in
principio da ogni rivoluzione borghese: li ricordiamo in sunto:
Primo: condanna della guerra imperialista fin dal 1914, condanna dei socialisti
traditori che vi aderiscono, consegna del disfattismo in ogni paese anche
singolarmente, come sola via per il crollo del capitalismo. Ogni rivoluzione
borghese fu invece nazionale patriottica e guerresca, come gli opportunisti
russi tentarono di fare dopo il febbraio.
Secondo: liquidazione spietata ed extra-legale nella lotta interna in Russia di
tutti i partiti opportunisti anche contadini ed operai, e loro messa fuori
legge. Ciò seguì (con dialettica propria a quella storica fase) allo scontato,
nella teoria leniniana, rifiuto di quelle forze a governare in forma
dittatoriale senza e contro la borghesia; sicché, anche in un quadro sociale in
cui il socialismo mancava delle sue basi economiche, si affermò il governo
rivoluzionario e totalitario del solo partito del proletariato: lezione di
portata e di forza mondiale, colpo all'opportunismo non minore di quello
assestato al social-patriottismo dei rinnegati.
Terzo: Restaurazione della teoria dello Stato e della rivoluzione secondo Marx,
e della dittatura del proletariato come transizione alla sparizione delle
classi e dello Stato stesso; restaurazione della teoria del partito di classe
come stabilita in Marx e Lenin - contro la deviazione operaista, e tradeunionista,
o anche «demoproletaria» - per cui è solo il partito che, senza consultazioni a
tipo di truffa borghese, rappresenta la classe e conduce la rivoluzione, lo
Stato, l'abolizione successiva dello Stato. Risultati di portata mondiale cui
negli anni gloriosi che seguirono Ottobre si affiancò la costruzione della
nuova Internazionale e la sua denominazione di Comunista.
Il richiamo di tutta la lotta dei marxisti radicali allo scoppio della guerra non era solo indispensabile per la comprensione delle fasi della rivoluzione in Russia, ma anche per stabilire l'esatto valore della posizione di Lenin. Il dominante opportunismo stalinista di oggi, infatti, al fine di attribuire a Lenin la falsa paternità della ipocrita formula: Si può e deve costruire il socialismo in un solo paese, ha speculato sulla formula leninista del disfattismo della guerra imperialista, che aveva ben altra portata.
Tale formula non era nuova, e lo abbiamo provato con le stesse citazioni che Lenin usa negli scritti, cui si è fatto ricorso, per poggiarsi sulla autorità di Marx ed Engels.
Gli opportunisti dissero: Il partito socialista non può non sostenere la guerra del suo paese, perché se si rifiuta può provocare l'invasione da parte di un paese meno avanzato in cui il veto socialista non potesse funzionare. Malgrado questo, disse Lenin, bisogna sabotare anche da soli e unilateralmente: mentre l'esercito nemico avanza il proletariato disfattista tenderà a prendere il potere ed attuerà misure rivoluzionarie. Ne seguirà o la rivoluzione anche nell'altro paese, o una nuova guerra che sarà, quella sì, guerra socialista e rivoluzionaria. Questo punto difficile fu sviluppato da Lenin per reagire alla forma pacifista di avversione alla guerra, basata sulle parole piccolo-borghesi di disarmo universale e pace generale, sul «siamo contro tutte le guerre perché si sparge sangue», sulla predicazione del rifiuto individuale al servizio militare, e così via. Il pacifismo, stabilì sulle orme fedeli di Marx nelle sue tesi Lenin, è non meno controrivoluzionario del nazionalismo: noi marxisti siamo stati per molte guerre e saremo quasi certamente per future guerre: appoggiammo le guerre di liberazione e sistemazione nazionale, dovremo sostenere le guerre rivoluzionarie tra paesi avanzati oltre il capitalismo e paesi rimasti nel capitalismo o più indietro. Avversiamo questa maledetta guerra del periodo imperialista e tutte le simili future.
Questo basilare insegnamento è vergognosamente falsato proprio da quelli che lo hanno dimenticato, nelle più basse campagne d'oggi sulla possibilità della pace universale, affermata da Marx e Lenin impossibile tra Stati capitalistici, e sulla possibile convivenza ed alleanza perpetua tra Stati borghesi e socialisti!
Con questo largo riferimento di fatti e di dati documentati abbiamo potuto chiarificare le varie formule tra le quali si crea la voluta orribile confusione.
La prima confusione è tra la formula «socialismo in un solo paese» e «socialismo in un paese non capitalista», quindi «socialismo nella sola Russia».
La formula marxista è che il socialismo è storicamente possibile sulla base di due condizioni, necessarie entrambe. La prima è che la produzione e la distribuzione si svolgano generalmente in forme capitalistica e mercantile, ossia che vi sia largo sviluppo industriale, anche di aziende agricole, e mercato nazionale generale. La seconda è che il proletariato e il suo partito pervengano a rovesciare il potere borghese e ad assumere la dittatura.
Date queste due condizioni, non si deve dire che è possibile cominciare a costruire il socialismo, ma che le sue basi economiche risultano già costruite, e si può e deve iniziare immediatamente a distruggere i rapporti borghesi di produzione e di proprietà, pena la controrivoluzione.
Ove la condizione tecnico-economica del primo tipo sicuramente esiste, nessun marxista ha mai affermato che la conquista del potere politico da parte del partito proletario sia condizionata alla simultaneità in tutti «i paesi civili», come scioccamente dice la formula stalinista, o in un gruppo di essi. In date condizioni storiche di forza del proletariato è ammissibile la conquista del potere politico in un solo paese. E se la condizione di primo tipo esiste, come detto, ciò vuol dire che comincia subito la trasformazione socialista, fatto distruttivo più che costruttivo, e per cui nella avanzata Europa (e America) da molto tempo le forze produttive sono bastevoli, anzi in eccesso.
Se invece parliamo di un paese in cui manca la condizione prima di sviluppo produttivo e mercantile, allora la trasformazione socialista non sarà possibile. Ciò non vuol dire che, in date condizioni storiche e rapporti in forza, non sia possibile tentare ed attuare la conquista proletaria del potere politico (Ottobre rosso) senza programma di trasformazione socialista fino a quando la rivoluzione non guadagni alcuni altri paesi che hanno la condizione prima, dello sviluppo economico.
Inoltre, nella situazione di una guerra imperialista (che tale era per l'Europa e la Russia), ogni partito proletario deve condurre l'azione disfattista interna, anche da solo, e se può fino alla conquista del potere.
La tesi marxisticamente condannata non è dunque: Anche in un solo paese è possibile la conquista proletaria del potere - e - Anche in un solo paese di pieno capitalismo è possibile la trasformazione socialista. La tesi condannata è che in un solo paese non capitalista sia possibile, con la sola conquista del potere politico, la trasformazione socialista.
La falsa tesi stalinista si scrive: È possibile la costruzione del socialismo (mala espressione per: trasformazione socialista) anche in un paese solo, arretrato e feudale, come la Russia, senza l'appoggio della trasformazione socialista di alcuni paesi capitalisti già sviluppati.
Lenin ha correttamente e da marxista ortodosso enunciate le tesi: del disfattismo e del potere in un solo paese; delle misure che «liberano» la trasformazione socialista del paese capitalista avanzato, anche se ciò conduce ad una guerra, che sarà la guerra di classe. Con questo non si è mai sognato di dire o scrivere: Si può nella sola Russia dare corso, con il disfattismo della guerra e la conquista del potere senza la borghesia, alla trasformazione della economia in socialista.
All'opposto, in quelle tesi del 1915, corroborate nei famosi due articoli contro le ideologie degli Stati Uniti d'Europa e del rifiuto di ogni guerra, è scritto ancora una volta che cosa succedeva in Russia, dopo il disfattismo e la liquidazione della guerra, e dopo la conquista del potere: la fondazione di una repubblica democratica, in tutte lettere.
Questo falso colossale verrà più oltre meglio in luce.
A pochi mesi dalla caduta del governo zarista in Russia vi era un governo provvisorio di cadetti e socialisti rivoluzionari e menscevichi, e il Soviet dei deputati operai e contadini aveva riconosciuto che un tale governo dovesse serbare il potere fino alla convocazione di una assemblea costituente.
Questo governo simpatizzava apertamente per quelli che erano stati gli alleati dello zar nella guerra mondiale, era influenzato dall'appoggio delle borghesie occidentali, che sole avevano dato a quella russa la forza di salire al governo, si orientava per la continuazione della guerra antitedesca «democratica e nazionale» e perfino non aveva levato la parola repubblicana tendendo ad una monarchia costituzionale con un fratello dello zar!
Il partito bolscevico non aveva partecipato, è vero, a un tale governo, ma non gli aveva mosso nemmeno fiera opposizione, gli concedeva una benevola attesa, solo invitandolo a fare opera per trattative di pace generale, e tanto meno aveva svergognato gli opportunisti per il loro aggiogamento alla borghesia nazionale ed estera e la loro svalutazione e esautorazione dei Soviet.
L'arrivo di Lenin segna una fiera rampogna a queste posizioni del partito bolscevico e dei suoi capi russi, tra cui Stalin e Kamenev in prima linea.
Con ampi riferimenti che sono recenti e non riassumiamo, abbiamo provato che la spietata messa in stato di accusa insita nelle tesi di Aprile non ha la portata: Avete mancato di passare dalla rivoluzione democratica alla rivoluzione comunista che oggi la guerra mette all'ordine del giorno.
Il contenuto della rampogna è ben altro: non è così esteso, e solo ai poveri di spirito sembrò temerario e pazzesco: si limitò alla rovente censura: Dove la teoria del partito vi segnava chiaramente la strada, avete esitato e deviato! Invece di applicare la giusta delle «due tattiche socialiste nella rivoluzione democratica», avete seguita quella menscevica, o almeno ve ne siete fatti suggestionare, credendo nel famoso «valore assoluto» della democrazia, che per noi è solo un obbligato ma contingente passaggio, un ponte che alle nostre spalle dobbiamo bruciare. Avete violato l'insegnamento sulla guerra: laddove questo stabilì che era imperialista e da sabotare da tutte le parti, francese, tedesca, russa, ecc., avete fatto concessioni alla politica che la caduta dello zar e la salita al potere dei borghesi ne abbiano fatto una guerra giusta, e state per passare al «difesismo».
Le tesi di Lenin, se abbagliarono, ricostruirono tutta la politica rivoluzionaria del partito: potenza non insita nell'uomo, per eccezionale che fosse la macchina del suo cervello, ma nella preventiva teoria internazionale e russa del partito, passata al vaglio di tremendi passi storici.
Contro la guerra e disfattismo, tuttora. Contro il governo provvisorio, denunziandolo subito come agente del capitale. Contro i suoi alleati populisti-contadini e contro i menscevichi che hanno nei congressi condannata non solo la presa del potere ma la partecipazione ad esso. Per il passaggio ai Soviet di tutto il potere. Non lotta contro il Soviet, maggioritariamente destro, ma penetrazione e conquista fino a smascherare i menscevichi e soci. Non traguardo della Assemblea parlamentare, ma dittatura dei Soviet, ossia del proletariato e dei contadini. Non la baggianata di proporre l'instaurazione del socialismo, ma la preconizzazione del socialismo, che sarà dato alla Russia solo dalla rivoluzione europea. Azione legale oggi, illegale ed insurrezionale in domani non lontano. Immediata nazionalizzazione della terra, controllo industriale, nuova Internazionale, e nome di Comunista al partito, per distruggere internazionalmente la guerra e il capitale.
Pochi esempi esistono di un più preciso combaciare degli avvenimenti con un tracciato che chiese la sua guida ad un possente indefesso lavoro di decenni, in cui trova le sue fondamenta. Fu forse Lenin che piegò gli eventi al suo piano geniale, o per i nemici diabolico, o non piuttosto un debito immenso del movimento verso di lui sta nella affermazione che la dottrina di parte deve guidarci le mosse, e non le opportunità e le convenienze della speciale situazione che si va determinando e in cui, guardando bene, si potrebbero, a credere dei gonzi e giusta il millantare di ogni capo politicante, scorgere sottili fessure in cui insinuare la pallida leva dell'azione? Tutti levarono contro Lenin l'incanata, gli rinfacciarono il fresco arrivo e l'omesso studio dei fatti nuovi e di una Russia originale ed imprevista. Ma Lenin scese dal treno, entrò nella riunione, e parlò «ad occhi chiusi», secondo una inflessibile linea: dopo gli ascoltatori seppero che i ciechi erano, nella quasi totalità, proprio loro.
Poche settimane dopo, alla conferenza di Aprile, Lenin ripete i suoi concetti e riscrive più diffuse le sue formule lapidarie, precisando il compito futuro: i lavoratori, il partito si sentono messi sulla via sicura e avanzano in fronte compatto.
Presto gli eventi mostrarono quale rovina avrebbe ingoiato la rivoluzione senza quel colpo deciso di barra.
Si celebra in tutta la Russia libera il Primo Maggio, e in quella data il ministro degli esteri Miliukov impegna il popolo russo nella promessa agli alleati di continuare la guerra. Il 3 maggio i bolscevichi con dimostrazioni armate protestano contro la nota Miliukov. Il 14 maggio il Soviet vota ancora per il governo di coalizione. Il 15 si dimette Miliukov. Il 16 arriva Trotsky e avanti al Soviet fa con un discorso adesione totale alla politica di Lenin, che il 17 in una lettera aperta al Congresso dei Contadini incita alla guerra spietata contro la borghesia imperialista e i «social-compromessisti» che la affiancano. Viene formato il governo di coalizione, col socialrivoluzionario di destra Kerensky ministro della guerra. Questi il 20 giugno ordina l'offensiva al fronte: gli opportunisti inscenano dimostrazioni contro Kerensky e la guerra. Mentre il 19 luglio l'offensiva al fronte fallisce e i germanici irrompono da Tarnopol, scoppia a Pietrogrado l'insurrezione armata, sebbene i bolscevichi tentino rinviarla. Lenin e Zinoviev sono braccati dalla polizia di Kerensky, divenuto primo ministro, come agenti tedeschi. Molti capi bolscevichi, tra cui Trotsky, arrestati: il partito ad opera di Stalin nasconde Lenin.
In agosto il sesto Congresso del partito bolscevico, in assenza di molti compagni in posizione illegale, elegge il nuovo comitato centrale (i 32 di Ottobre) e conferma totalmente la linea delle Tesi di Aprile.
Il 31 agosto il fronte si spezza e cade Riga. Kornilov che aveva sostituito Brusilov alla testa dell'esercito viene silurato da Kerensky che teme di avere suscitato le forze reazionarie: Kornilov muove su Pietrogrado. Reazione delle masse di tutti i partiti operai, predominio nella lotta delle forze bolsceviche che hanno offerto tempestivamente il fronte unico. Kornilov è arrestato al quartier generale, i capi bolscevichi scarcerati. Il 18 settembre al Soviet (il piano procede matematicamente) passa la prima risoluzione della frazione bolscevica: il presidium menscevico-esserre (socialisti-rivoluzionari) si dimette.
24 settembre: per la presidenza del Soviet della capitale, Trotsky butta giù di scanno il famigerato menscevico Cheidze. Mentre il Soviet invoca il Congresso Panrusso dei Soviet, una conferenza democratica, diffidata dai bolscevichi, elegge un Consiglio della Repubblica o Preparlamento. Ne escono subito bolscevichi e socialrivoluzionari di sinistra, che stringono un patto di azione.
Il 22 ottobre il Soviet elegge un comitato militare, presieduto da Trotsky. Il 23 ottobre il Comitato Centrale del partito bolscevico vota l'insurrezione. Propone Lenin, votano contro Zinoviev e Kamenev. Il 29 ottobre il Comitato deplora i due che rispondono sulla stampa. I menscevichi fanno posporre dal 2 al 7 novembre il Congresso Panrusso dei Soviet. Al Soviet di Pietrogrado aderiscono le forze della fortezza di San Pietro e Paolo.
Il 7 novembre il governo di Kerensky, che si vede perduto, ordina l'arresto del Comitato Militare del Soviet: è la fine; cadrà dopo due giorni di battaglia nelle vie. Lenin appare al Congresso Panrusso. Il governo è arrestato.
Nella seconda tappa la Rivoluzione ha vinto, per la strada che la potenza della dottrina rivoluzionaria aveva segnato.
Realizzata il 25 ottobre - 7 novembre 1917 la conquista del potere politico con l'abbattimento del Governo Provvisorio di coalizione borghese-menscevica-populista, si apre in tutta la sua ampiezza la questione dei compiti di questa Rivoluzione, nuova ed originale nella storia. Piacerà agli storici idealisti identificare la Rivoluzione con un borghesissimo «colpo di telefono» di Lenin, ma noi non ci perderemo dietro a tali banalità, cui potrebbe seguire l'ipotesi oggi data in pasto ai milioni dì cominformisti, di altro colpo di telefono di Stalin: Si costruisca il socialismo! I compiti una rivoluzione li pone, non li riceve. Nessuno in simile momento pensa a «porre in vigore il comunismo». La serie storica è ben altra.
Distingueremo per chiarezza di esposizione (qui per sommi capi) i compiti politici, e più militari-politici, e i successivi compiti sociali-economici.
Un primo compito è la integrazione, il completamento della Rivoluzione. Come rapporto di forze politiche la Rivoluzione è ciò che ha due sole eventualità: Niente, o Tutto. Un secondo compito (tutti nella realtà si affacciano accavallati, inseparabili) è la lotta per annientare la guerra internazionale, la guerra nazionale. Un terzo è ributtare l'onda feroce di venti controrivoluzioni: la guerra civile. Questi compiti, non ancora economici in senso di massima, prenderanno: un primo anno i primi due; almeno altri due anni col primo, il terzo.
Quando il Partito comunista va al potere, dopo la fase di conquista pacifica del Soviet, e dopo quella della insurrezione armata, partiti borghesi e social-opportunisti sono buttati fuori legge, ma restano due cose: il blocco di governo coi socialrivoluzionari di sinistra; le elezioni in corso per l'Assemblea costituente a cui, teoricamente, occorrerebbe attribuire il potere. La prima a sparire è questa seconda posizione spuria. «Per fortuna» si è in minoranza nella Costituente, e il 19 gennaio 1918 Lenin deve ordinare (la sua forza è qui, ed è forza di partito: non deve per fare ciò superare nessun ostacolo teoretico) di farla buttare fuori dai piedi da un plotone di marinai rossi. Il Terzo Congresso Panrusso dei Soviet pochi giorni dopo si dichiara unico depositario del potere, nomina il permanente Comitato Esecutivo (non è Parlamento né Antiparlamento: è la storica negazione, la fine dei Parlamenti, perché è la dittatura di classe contro la finzione della giostra interclassi) e questo designa il Consiglio dei Commissari del Popolo, che è il governo. La parola Popolo ci prova che non si ignora non trattarsi di rivoluzione proletaria pura anche socialmente.
In questi tre organi sono anche gli esserre di sinistra. Li spazzerà via (ancora una volta passo non contraddetto né imbarazzante in teoria, imposto non da capi ma dalla storia) solo il decorso del secondo compito: distruzione della guerra nazionale.
Dovendo seguire l'alta funzione dottrina-storia, non è di rigore la cronologia. Dopo Brest-Litovsk (di cui subito), gli esserre, che erano l'espressione del blocco contadino con la rivoluzione, fino ad allora, rompono duramente: nel marzo 1918 erano usciti dal governo, nel luglio denunziano i bolscevichi come nemici, assassinano Mirbach ambasciatore tedesco per scatenare la guerra antitedesca nazionale, ed insorgono in armi a Mosca, mentre da altri fronti premono i tedeschi e le prime armate controrivoluzionarie. il 30 agosto revolverano Lenin, uccidono il grande compagno Uritsky.
È l'ora in cui, e crepino i fautori delle foglie di fico, la Rivoluzione finalmente diventa tutta se stessa: la Dittatura di Partito si integra in Terrore di Partito. Prima che i tanti nemici segnassero altri vantaggi, il 17 luglio era già stata soppressa la famiglia imperiale. Urla allo scandalo, dimentica delle sue origini, la borghesia mondiale (coi suoi manutengoli kautskiani), per la fondazione della polizia rossa, il sistema degli ostaggi di classe e delle rappresaglie sugli «innocenti». Ma vi sono, per il marxismo, colpevoli nella storia? No, come non vi sono benemeriti e taumaturghi.
Le grandi questioni della Dittatura e del Terrore sono risolte, ancora una volta, come ogni marxista sapeva. L'entusiasmo dei rivoluzionari di tutto il mondo sale come una marea.
Da Aprile ad Ottobre i bolscevichi hanno messo avanti per spiegare la loro conseguente, poderosa formula storica della rivoluzione russa, la situazione internazionale, la guerra imperialistica. Si tratta di una rivoluzione borghese antifeudale; che interessi il proletariato si sa dall'abc 1848. In quella situazione di capitalismo nascente (il che, in determinismo storico, vale socialmente utile, benefico, incrementatore - insostituibile - di produttività del lavoro e intensità di consumi, propulsore in avanti delle capacità proletarie di classe) vi era aperta alleanza, lotta comune, solidarietà, oltre che al rovesciamento della servitù feudale e dell'assolutismo, anche alla fondazione dello stato nazionale e alle guerre con tale fine. Al tempo della rivoluzione russa, nel mondo è un capitalismo parassitario, svolto fino a divenire non impulso, ma impaccio alla economia produttiva, generatore di guerre non di sistemazione in forme moderne migliori, ma di puro brigantaggio sfruttatore.
In questo caso bisogna lavorare anche ad una rivoluzione antidispotica che debba restare nella fase capitalistica, ma non vi può essere un'alleanza con la guerra della borghesia, una solidarietà che non sia solo in guerra civile (antizarista) ma in guerra estera. In forma cruda, non ci stanchiamo di dirlo, il proletariato si addossa di fare la rivoluzione borghese, si addossa il pilotaggio in questa del contadiname, ma non si allea coi partiti borghesi, tende a prendere tutto il potere contro la borghesia locale, ogni suo alleato opportunista, e i suoi sodali internazionali.
Il bolscevismo assolve questo duro impegno, per quanto sia tremenda la posta. Un breve invito ai negoziati mondiali; gli alleati tacciono: subito l'offerta unilaterale ai tedeschi, che urgono alla frontiera.
Prima delegazione Joffe nel dicembre 1917. Condizioni inaccettabili. Seconda delegazione Trotsky nel gennaio 1918. Dure condizioni, che comportano annessioni di popoli slavi. Tre formule: Lenin (nemico feroce delle annessioni attive): accettare, e firmare la pace; Bucharin: guerra rivoluzionaria ai tedeschi; Trotsky: né pace né guerra, non firmare. Il Congresso dei Soviet è per questa tesi. La delegazione si ritira senza firmare trattati. L'esercito tedesco si rovescia in avanti. Al Comitato Centrale, Trotsky ventila l'appello agli alleati per aiuti militari. Il 23 febbraio Berlino detta un ultimatum aggravato: al C.C., 7 per Lenin (accettazione), 4 per Bucharin (rifiuto), che si dimettono, 4 astenuti con Trotsky. 3 marzo: firma del trattato. Il Congresso del partito approva condannando i «comunisti di sinistra» di Bucharin: come detto, il partito comunista rompe con gli esserre, ultimi alleati.
Il Partito è solo. La guerra è distrutta.
Basti questo cenno di così grande svolta. Notiamo solo che la sinistra rivoluzionaria del partito socialista italiano fece sue tutte le posizioni di Ottobre: conquista del potere, dittatura, dispersione della Costituente, rottura con i S.R., strategia terrorista; basterebbe disporre di una serie dell'«Avanguardia» dei giovani socialisti, con i commenti, che diremmo eccitati, settimana a settimana. Nell'«Avanti!» un articolo delle stesse origini, incondizionatamente per la tesi di Lenin: «La Rivoluzione russa in una fase decisiva» diretto a combattere le incertezze dei compagni che credevano la posizione troppo destra, conciliante [6].
Ed un solo commento a tanta distanza: Trotsky viene accusato oggi di essere allora stato un «agente dell'imperialismo tedesco». Evidentemente all'onore di questa rancida censura borghese, nota a tutti i rivoluzionari di quel tempo, era Lenin che aveva il maggiore diritto! Ma egli aveva visto anticipatamente l'effetto sulle ulteriori vicende e sul crollo tedesco, che non poteva seguire se non fosse stata resa evidente la antitetica posizione dell'imperialismo germanico e della rivoluzione russa: contro la quale gli imperialismi dell'altro campo allo stesso tempo si avventarono.
Segue un'altra tremenda fase di lotte, scontri, guerre guerreggiate per difendere il conquistato potere. Né le sole difficoltà sono quelle militari nel senso tecnico: l'economia, la produzione, vanno decadendo sempre più, si va più giù del disastroso livello del tempo zarista, di quello del tempo del governo provvisorio: carestia ed epidemia in grandi territori, fame nelle città, mancanza di armi, munizioni, divise e tutto il resto.
Basti qui lo scarno elenco dei fronti di attacco controrivoluzionario e di contrattacco bolscevico.
Già il Terzo Congresso in gennaio 1918 si dichiara in guerra con la Rada ucraina, legata ai tedeschi, e le forze dei generali: Alexeiev (Sudest), Kaledin (Don), Kornilov (Kuban). Ma altri fronti «scoppiano». Aprile: giapponesi a Vladivostok. Maggio: avanzata di Mannerheim in Finlandia. Rivolta dei cecoslovacchi sul Volga. Giugno: i Bianchi (zaristi) minacciano Zarizin. Agosto: gli alleati sbarcano ad Arcangelo. Gli inglesi marciano traverso la Persia su Bakù. I Bianchi a Jassy in Romania proclamano il generale Denikin dittatore della Russia. Kolciak prende il potere negli Urali, rovesciando il «governo della Costituente», borghese-opportunista. Dicembre: i francesi a Odessa.
Il 1919 sarà l'anno dei contrattacchi. Già dopo l'armistizio e la caduta della monarchia tedesca i bolscevichi annullano il trattato di Brest e abbattono in Ucraina lo hetman Skroropadsky, filo-germanico.
In marzo 1919 Kolciak ancora avanza passando gli Urali. I francesi salgono da Odessa: ma in aprile la evacuano. Maggio: l'esercito rosso ributta Kolciak, ma intanto da occidente Judenic, creatura degli inglesi, minaccia Pietrogrado. Ne è ricacciato, ma Denikin prende Charkov in Ucraina e in settembre è a Kiev. In ottobre occupa Orel e punta verso Mosca. Ma il 21 ottobre i rossi battono Judenic a Pulkovo, e Denikin ad Orel. In novembre una grande offensiva travolge Kolciak oltre gli Urali; in dicembre le tre armate della controrivoluzione sono in dissoluzione, rastrellate con energia e senza quartiere. Nel febbraio 1920 Kolciak, consegnato dai francesi, viene giustiziato.
Ma il 1920 è l'anno della guerra russo-polacca, che suscitò invano tante illusioni. Estonia, Lituania e Polonia, sostenute da inglesi e francesi, si muovono per invadere la Russia: solo la prima accetta la pace. In maggio al sud il barone Wrangel forma una nuova armata bianca, dopo il rovescio di Denikin, e avanza dalla Crimea. In giugno è ributtata l'offensiva polacca. Tukacevsky conduce i rossi a Vilno, a Brest e sotto Varsavia, ma la manovra difensiva guidata dal generale francese Weygand spezza il cerchio rosso, e nel settembre, fallito il piano di puntare al cuore d'Europa, si tratta la pace con la Polonia. In novembre anche Wrangel è schiacciato. La Georgia, l'Armenia sono ormai rosse. La guerra civile è finita: in marzo 1921 scoppia una rivolta della guarnigione di Kronstadt, soffocata rapidamente, e le cui origini non sono ancora oggi chiare. La Russia tutta, ma dopo oltre quattro anni dalla vittoria di Ottobre, è finalmente controllata dal partito comunista.
Fino ad allora la domanda: che deve fare il partito giunto ai potere? ha in fondo avuto una sola risposta: combattere per non perderlo!
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Benché il tema, il cui svolgimento è qui riassunto, ci urga verso le questioni di struttura economica, resta ancora un fondamentale aspetto politico della grande vicenda, e riguarda l'Internazionale proletaria.
In sostanza non vi era «nulla da fare» nel trasformare socialmente la Russia, perché il guerreggiare non ne dava il tempo, e perché si sapeva già quel che si dovesse fare, al di là dall'assistere al germinare di forme capitalistiche liberate - dal proletariato - da feudali pastoie: si doveva fare leva sul moto del proletariato estero, per la liquidazione della guerra, per la rivoluzione socialista. Punto centrale questo della prospettiva di Lenin, identificato con quello dello scioglimento della Russia dall'ingranaggio imperialista.
Moti contro la guerra a dispetto del tradimento di tanti capi socialisti non erano mancati in tutte le nazioni di Europa, e le vicende della fine della guerra li facevano a tutti presentire più vasti. Purtroppo la rivoluzione non può sorgere da sola stanchezza ed esasperazione, ma ha bisogno della difesa della linea continua di classe, che il tradimento del 1914 aveva su quasi tutto il fronte mondiale spezzata.
Gli episodi più rilevanti del dopoguerra restarono quelli del moto spartachiano fra il 1918 e il 1919 in Germania schiacciato dal governo della neonata repubblica borghese-socialdemocratica, delle grandi azioni di massa in Italia nel 1919 e 1920, affogate dall'orgia demoparlamentare cui accedettero anche i socialisti che si vantavano di non aver accettata la guerra, dei caduchi tentativi in Ungheria e in Baviera, che dopo brevi successi cedettero alla repressione borghese.
L'Internazionale Comunista invocata fin dal 1914 da Lenin fu fondata nel primo congresso di Mosca del 2-19 marzo 1919. Fu consolidata nel secondo del 21 luglio - 6 agosto 1920, che ne definì la base teorica ed organizzativa, forse già in ritardo sull'onda rivoluzionaria. Da questo congresso in poi fu sempre più evidente che malgrado la grande vittoria di Russia l'opportunismo di occidente aveva ancora notevole presa sulla classe operaia e che la malattia del 1914 non poteva avere così rapida guarigione. Le questioni dell'attitudine da prendere davanti a questa situazione, e della divergenza che sorse con gruppi di sinistra, e specialmente col Partito Comunista d'Italia fondato nel gennaio 1921, sarà trattata in prossimo rapporto ad altra nostra riunione, sulla base della notevole documentazione di cui si dispone [7]; e si porrà in evidenza come la nostra totale adesione alla prospettiva di Lenin e dei russi di allora sulle vie della rivoluzione in Russia divenne aperto dissenso circa la strategia della rivoluzione europea, che non doveva, per evidenti ragioni, ricalcare le stesse vie di incitamento a classi e partiti non proletari, altro essendo il grado di sviluppo delle forme sociali - e con la denunzia di pericoli di degenerazione rivoluzionaria che purtroppo il futuro doveva confermare.
Oggi si vuole, prima di passare alla parte di natura economico-sociale, e nelle tre fasi in cui si suole considerarla, ricordare ancora quale valutazione seguì il comunismo mondiale, passato il primo dopoguerra, davanti ai quesiti: Quale il corso della rivoluzione internazionale? Ci attende una lunga stabilizzazione del sistema capitalistico? Quale il compito in tal caso del partito e del potere rosso?
Sorse a tale svolto il problema che oggi si discute. Fino al 1924 sappiamo tutti, malgrado falsi sistematicamente organizzati, che si domandava solo come si potesse suscitare la rivoluzione tedesca e occidentale. Ma è dal 1926 che urge il problema della condotta da tenere nell'ipotesi che il sollevarsi in Europa della classe operaia, invano atteso per ben nove anni, dovesse mancare.
Lo scontro delle opinioni su questo terreno riuscì particolarmente suggestivo nella riunione dell'Esecutivo allargato dalla Internazionale che ebbe luogo nel novembre-dicembre del 1926, successiva a quella del febbraio-marzo; e nella relazione ci siamo soffermati su tal punto; prima di trattare della società russa sotto il profilo economico, dei decorsi che presentò e presenta; poiché il dibattito è lo stesso di oggi, i problemi furono chiaramente posti - ed è soltanto oggi molto più facile per tutti verificare la conferma dell'impostazione marxista integrale, ed ortodossa.
Faremo uso - a suo luogo più largamente [8] - di tre discorsi: Stalin, Trotsky, Zinoviev, e di un quarto di eco pedissequa, ma stranamente espressivo, dell'italiano Ercoli. È noto che le divergenze russe erano cominciate prima: già al tempo di Lenin vi era la opposizione operaia; dal 1924 era ormai in palese opposizione Trotsky, ma la sua voce non era passata dai congressi di partito a quello internazionale: lo battevano fieramente, legati a Stalin, Zinoviev e Kamenev. Al 1926 Zinoviev e Kamenev erano passati all'opposizione: chi ben conosceva le cose russe li metteva fin dal febbraio insieme a Trotsky, malgrado le recenti violente polemiche. Ma questa era la prima volta che si discuteva a scena aperta la questione russa, che era pure evidentemente la più alta questione del comunismo mondiale! A febbraio era stata strozzata. Per la prima volta si pone la questione: Dato che la rivoluzione europea non è venuta, diamoci a rendere socialista la Russia. E la formula di Stalin. Bucharin, che capirà più tardi, e sempre troppo tardi, è con lui.
Il primo dissenso è sui fatti: fino al 1924, fino a che Lenin è stato vivo, questa divergenza non è esistita: tutti erano dell'avviso che il compito era mantenere il potere bolscevico e affrettare la rivoluzione europea e non vedevano via per arrivare al «socialismo» in Russia diversa da questa. Stalin e i suoi invece sostengono, come già sappiamo, che la tesi del «socialismo in un paese solo» - come essi malamente enunciano la pretesa di «socialismo nella Russia sola» - sarebbe stata enunciata da Lenin nel 1915 e nel 1917, e varie volte dopo l'Ottobre.
Il contraddittorio è pieno e potente. Stalin avanza la sua tesi ancora con prudenza. Trotsky non poté parlare fino alla fine, perse tempo nella difesa da noti attacchi personali, fu poi interrotto per aver consumato il tempo. Resta il discorso di Zinoviev, completo e teoricamente impeccabile. Per la prima volta il conciliante, l'accomodante Zinoviev sente che si è troppo concesso, e ritorna da forte marxista sul piano rivoluzionario dei principi, che enuncia senza esitare e con dimostrazione efficientissima. Egli chiuderà col dire: Non sono con voi, maggioranza; non posso accettare la vostra linea, liberatemi dalla carica di Presidente dell'Internazionale, tenuta tanti anni. Questo discorso è la migliore cosa del vecchio compagno di Lenin: egli si pentirà, nella forma, più oltre; poi morrà per la sua linea di opposizione, e al suo fianco, irriducibile imputato, sarà l'altro marxista Bucharin che - qui - fieramente lo avversa.
Stalin. Pone la questione della edificazione del socialismo sulla base delle sole forze interne dell'Unione Sovietica. Poi chiede che significa questo; e spiega: Significa la vittoria delle forze proletarie sulla borghesia russa! Se questo non fosse possibile, afferma, dovremmo lasciare il potere e divenire un movimento di opposizione. Abbiamo lo spostamento completo della questione economica al piano politico. La vittoria politica, dice Stalin, con la dittatura del proletariato l'abbiamo, ossia abbiamo la base politica per il cammino verso il socialismo. Dunque possiamo ora «creare una base economica del socialismo, le nuove fondamenta economiche per l'edificazione del socialismo».
Fino a questo punto Stalin domina la sua conversione teorica. Lenin aveva definito sciocchezza la «costruzione del socialismo». Stalin parla di edificare non il socialismo, ma le sue basi economiche. La formula era ancora accettabile.
Perché in che consiste la base economica del socialismo? Semplice: nel capitalismo industriale.
Per passare oltre: noi neghiamo che il socialismo si edifichi e che possa sorgere in Russia senza la rivoluzione socialista internazionale. Noi non neghiamo che si possa edificare in Russia la base economica, che vi mancava prima, per il futuro socialismo: ossia l'industria capitalista. In Russia, appunto, si sta costruendo capitalismo, il che è chiaro e logico, ed è anche nel senso storico fatto rivoluzionario. Ma tutto andrebbe bene se non si pretendesse che i rapporti economico-sociali sorti dal 1926 ad oggi siano propri di una società socialista.
Zinoviev, cui si unisce con molta chiarezza e vigore Kamenev. La sua documentazione, soprattutto basata su Lenin, che prima del 1924 nessuno aveva prevista la integrale trasformazione socialista nella sola Russia è definitiva. Egli dimostra a Stalin che anche lui così ragionava. La sua ricostruzione, su Marx, Engels e Lenin, delle tesi sulla internazionalità della rivoluzione socialista e sull'ineguale sviluppo del capitalismo nel mondo, è in tutta linea teorica quella da noi fin qui svolta, ossia quella unica proponibile. La questione contadina è finalmente da lui impostata in tutta la sua chiarezza. Alleanza del proletariato col contadino nella rivoluzione russa è altra cosa che utilizzazione del contadino a fini socialisti. Egli poi luminosamente rivendica tale compito al partito della classe operaia salariata e dimostra di avere sempre identificata la dittatura di classe con quella del partito, ributtando le accuse di liberalismo organizzativo e frazionismo. Non meno deciso è sulla questione del pessimismo o ottimismo sulla rivoluzione mondiale: finalmente la sua posizione diventa quella che tante volte invano gli presentammo: il modo di dirigersi da rivoluzionari non dipende dalle situazioni, non si deforma secondo il vento.
Trotsky. li ancora più decisa, in un discorso non per sua colpa incompleto, la sua prospettiva sulla rivoluzione socialista e la sua confutazione del dozzinale espediente polemico di Stalin: Allora lasciamo il potere.
Noi non ammettiamo una stabilizzazione del capitalismo che come onda precaria inserita tra le crisi inevitabili, e crediamo nel suo crollo. A quale distanza? Lo abbiamo atteso dal 1917 al 1926 quando sembrava più vicino di ora. Il partito proletario in Russia, pur non dissimulandosi che da solo non può arrivare alla società socialista, difende il potere rivoluzionario, e può se occorre difenderlo per altri decenni, lottando contro le forze della borghesia mondiale e contro i suoi tentativi di riprendere il potere in Russia. Egli pone un limite di 50 anni, facendo coraggiosamente ridere i coboldi di quella maggioranza.
Nell'esposizione qui riassunta il relatore sviluppò questo dato, illustrando il difficile punto della previsione storica. Osò dire che la terza ondata controrivoluzionaria era allora giustamente scontata, che trent'anni da quel dibattito sono passati, e che varie altre nostre induzioni, che forse molti credono non convenisse arrischiare, collimano in una data sul 1975 per una terza guerra universale, e per il nuovo corso rivoluzionario proletario. Ciò intona col lungo mezzo secolo del discorso di Trotsky.
Per finire. L'elaborato commento di questa discussione 1926, tutto volto a sostenere la scottante tesi che possa darsi opera scientifica marxista del futuro, si fermò sul discorso di Ercoli, che volle dare all'imbavagliato Leone il colpo di grazia. Egli investì il pessimismo opportunista, affermò che essi - i «centristi», diciamo noi - avevano ben maggior fretta, e sarebbero molto prima ritornati sullo scatenamento intransigente della rivoluzione europea. Poiché Ercoli è Togliatti, sarà divertente il confronto di quelle parole con le sue posizioni di oggi, nel fatto e nella chiacchiera; la prova che egli vede il corso della società italiana ed europea, oggi che Trotsky è stato fatto fuori, refrattario come allora, con una misura non di 50 ma di 500 anni, ponendo a una distanza di anni semplicemente l'ingresso del suo partito in un governo coi clericali, e promettendo per il mezzo secolo et ultra il rispetto integrale della Costituzione borghese.
Dal 1917 al 1921 la canna della carabina non cessò di scottare nelle mani. Quale fu la formula economica? Dovremmo ricordare episodi innumeri di quasi 40 anni, per sorreggere la indefessa campagna contro la insidiosa pretesa che fossimo andati in Russia a vedere cosa sia il socialismo. Il marxista non rifà Tommaso che volle infilare le dita nella ferita al costato. Sappiamo cosa sarà il socialismo, senza averlo visto, e senza la pretesa di vederlo. Fu svolto ancora, alla riunione, un simile tema: non è un biglietto per il cinema, la tessera di militante; non si ridanno i soldi per spettacolo mancato.
Tuttavia era bello a Mosca sentire che non si pagava il pane, il tram, il treno, non vedere negozi veri e propri (oggi scintillano di luci più che a New York), salvo qualche banchetto di mele, sentire scherzare tra limone e milione, che si dicono suppergiù come da noi, sentire che non si pagava la casa (contro Engels!) ed altre misure. Questa situazione è stata più volte descritta come comunismo di guerra, con evidente allusione alla guerra civile, dato che quella mondiale era finita dopo pochi mesi, per la Russia, e qui ci si riferisce a tutto il 1920.
Si intende forse dire, con l'espressione comunismo di guerra, che si fosse ritenuto possibile adottare subito misure comuniste, e solo ad un certo punto si sia constatato che si trattava di una anticipazione illusoria, e passata la prima esaltazione si sia cominciato a meglio definire lo sfondo economico della situazione? Mai più: il comunismo di guerra non è fatto originale di Russia o del 1917: è universale e vecchio: vigeva in ogni città assediata: come il mantenimento dell'esercito, specie moderno, si fa con formula non di economia individuale, ma collettiva, e il soldato che nel medioevo aveva un soldo, nel tempo borghese non ha salario, così in guerra nelle città assediate il mercato è sostituito dal razionamento: i topi catturati nelle fogne di Parigi nel 1870-71 non si quotavano in borsa, ma si spartivano in natura. Comunismo di guerra: non perché al potere fossero proprio i comunisti, e smaniassero di attuare Marx o Moro, ma perché la Russia, ridotta in certo momento ad un cerchio di duecento chilometri di diametro attorno a Mosca, era come una città assediata. Soldati e cittadini dovevano mangiare: gruppi di operai comunisti o di militi rossi andavano in campagna e prendevano il grano dove si trovava, lasciando o meno una carta. Hitler nell'ultima guerra ha fatto qualcosa di non molto diverso, e in forma più ipocrita l'hanno fatto gli americani, stampando carta moneta. La formula: la guerre est la guerre, vale l'altra: je prends mon bien où je le trouve.
Questo periodo, sia a Napoli che a Genova, fu trattato sulla scorta del famoso opuscolo di Lenin sull'imposta in natura del 1921, e di un discorso di Trotsky sulla NEP e sul capitalismo di Stato [9].
Questi e altri testi stanno a provare che non vi fu, come può sembrare al solito dalla dizione popolare e abbreviata, nessuna «rettifica di tiro», ma si applicarono dati e norme noti e scontati da tempo.
Passare dalla requisizione con forza armata del grano alla tassazione di una aliquota che i contadini devono versare allo Stato, esprime solo la differenza contingente tra la situazione in cui lo Stato provvede essenzialmente ad una difesa militare anche contro i nemici di classe del contadino che lavora, semina e raccoglie, ma le urgenze di guerra non danno il tempo di tante spiegazioni; ed una di minore emergenza in cui lo Stato rivoluzionario comincia a far capire al contadino che da un lato lo paga anche con servizi civili e pubblici, che gli occorrono, dall'altro può lasciarlo libero di vendere alla luce del sole quanto non è suo consumo diretto, come faceva prima alla insopprimibile rete degli «speculanti». Insopprimibile, per una rivoluzione economica non socialista, come quella era.
Lenin, paziente quanto esplicito, disegna lo storico quadro, anzitutto, con parole che riporta da un suo scritto del 1918, dunque immediatamente successivo alla presa del potere. Che cosa è ora socialmente la Russia? Ci siamo.
Al posto della completa analisi bastano ora pochi cenni. La solita spiegazione agli impazienti. «Repubblica Socialista Sovietica» significa la decisione del potere sovietico di realizzare il passaggio al socialismo e non significa affatto che siano socialisti gli ordinamenti attuali. (Oggi, è chiaro, non significa più neanche la prima cosa).
Se passassimo al capitalismo di Stato sarebbe un gran balzo avanti, pur non essendo ancora affatto il socialismo. Poi la famosa serie di elementi sociali del macrocosmo russo: 1. Economia contadina patriarcale-naturale. 2. Piccola produzione agricola mercantile. 3. Capitalismo privato. 4. Capitalismo di Stato. 5. Socialismo. La lotta nel 1921, Lenin stabilisce, non è tra i gradini 4 e 5, ma tra 2 e 3 contro 4 e 5. Il contadiname sta col capitalismo privato contro il capitalismo statale e il socialismo.
Vi è poi il chiarimento della natura del capitalismo di Stato, con l'esempio della Germania. Se noi sommassimo, Lenin dice, il potere politico che abbiamo in Russia, con lo sviluppato capitalismo di Stato tedesco, allora solo saremmo sulla via del socialismo. Ma se ciò non è, il nostro traguardo è solo un capitalismo di Stato, che arrivi (lunga strada) a somigliare al tedesco. Egli dimostra di avere scritto tanto nel 1918.
Lo Stato rivoluzionario russo non può dunque impedire il commercio privato delle derrate. Lo scambio, enuncia Lenin, è la libertà di commercio, è il capitalismo. Nulla da far paura.
A fianco delle industrie già allora controllate dallo Stato, e in vista di passare alla diretta gestione statale le più grandi aziende, ossia di arrivare al grande capitalismo di Stato, è allora ancora consentita, oltre l'artigianato, anche la piccola industria ed entrambe ammesse ad accedere al mercato libero, con scambio monetario. Vi è il pericolo economico di una riaccumulazione di capitale privato? Certamente. Si può fronteggiarlo con la forza del potere politico, e ciò anche nell'ipotesi di concessioni di gestione industriale a ditte private straniere? Certamente, sempre per Lenin.
Una difesa di questa certezza politica è nel citato discorso di Trotzky. Egli afferma che lo Stato sovietico controlla fabbriche con un milione di operai (1922) contro soli 60 mila delle aziende libere minori. Nei due casi, in effetti, gli operai sono salariati, acquistano il loro consumo contro moneta sul libero mercato, e le aziende statali sono sottoposte gerarchicamente ma autonome come bilanci; ossia debbono osservare la famosa, ancora oggi rivendicata dagli stalinisti, redditibilità attiva: devono versare un utile, un profitto, di regola, alle casse statali.
Economicamente parve a Trotsky che questo fosse solo una concessione alla contabilità, alla computisteria capitalista. Ma era ed è invece una piena concessione alla economia capitalista. Dove è salario, moneta, premio delle vendite sulle spese, ivi è capitalismo, sia esso privato che di Stato.
E sul piano politico che Trotsky ha ragione. La grande industria nelle mani dello Stato, significa la forza politica e soprattutto militare. Il capitalismo di Stato economicamente è, giusta Lenin, solo l'ultimo gradino, dal quale si può passare al socialismo quando vi si sia saliti su tutto il campo dai gradini piccolo-contadini, mercantili e privati. Ma è ben diverso che lo Stato-capitalista sia politicamente borghese, o proletario. Nel secondo caso la grande industria (e il commercio estero) monopolisticamente (Lenin) tenuti sono un fattore (Trotsky) politico di prima forza. Vogliono dire avere l'esercito, l'armamento, la possibilità di fermare le rivolte e la controrivoluzione. La possibilità di aspettare, dirà il Trotsky del 1926, il socialismo di occidente. Sono tutto questo, e con un gran peso storico: ma non sono il socialismo, come non lo è la statizzazione di Ottone di Bismarck, di Ebert, o di Hitler.
La NEP significava campo libero al commercio delle derrate. Se la terra era nazionalizzata e ne era vietato l'acquisto, non era però impedito che si formasse, col ricavo delle vendite dei prodotti, un capitale di esercizio agricolo: attrezzi, sementi, concimi, bestie, anche case entro dati limiti. Il capitalista rurale o contadino ricco poteva risorgere e ridurre a suoi salariati i contadini poveri di capitale, anche se avessero un godimento di terra statale. Si giunse fino alla teoria: Questo non importa, se dal capitalismo privato agrario potremo passare anche alla agricoltura di Stato (allora rappresentata da rare aziende modello), e fu lanciata la parola di Bucharin: Arricchitevi pure! Fu nel 1928 che si riprese la lotta contro i kulaki e si mirò ad espropriarli: il sistema dei «colcos» andò prendendo il loro posto. Si disse che il kulak era stato distrutto: lo Stato aveva potuto farlo senza temere la rivolta nelle campagne sia per la pressione dei contadini poveri sia per la forza che gli dava lo sviluppo dell'industrializzazione (piani quinquennali). Studiata la struttura sociale dei colcos converrà chiedersi: a quale prezzo si è pagata la sconfitta dei kulaki? E stata veramente una salita dal gradino dell'agricoltura mercantile e del capitalismo privato agrario al capitalismo statale nell'agricoltura?
In effetti il senso sociale del terzo periodo è questo. Nella produzione di manufatti e nei servizi generali, diffusione del capitalismo di Stato con ritmo potente ma sempre sulla base del salariato e dello scambio monetario anche in un settore di commercio di Stato. Nella produzione agricola, coesistenza di queste forme: Un grado di capitalismo di Stato, limitato alle aziende sovietiche. Uno di cooperativismo privato, nelle terre comuni del colcos. Uno di economia mercantile nel campicello singolo del colcosiano e qui, insieme, uno ancora inferiore di economia naturale familiare. E questa forma - in cui il gradino socialista è assente - più evolutiva delle agricolture dei paesi borghesi? Anche questo è discutibile.
Particolare rilievo va dato al confronto fra le due Costituzioni della Repubblica dei Soviet, quella del 1918, successiva immediatamente alla rivoluzione bolscevica, e quella del 1936, dichiarata corrispondente ad una consolidazione delle forme sociali sovietiche, cui si diede la definizione di socialismo. La costituzione del 1918 si fonda sulla «dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato» formulata dal partito il 3 gennaio 1918 e ratificata dal III congresso dei Soviet nello stesso mese; il testo intero fu adottato dal V congresso il 10 luglio 1918.
La differenza dialettica tra i due testi è questa: nel 1918 il socialismo è lo scopo che deve essere raggiunto dallo Stato proletario, ed è questa la costituzione della dittatura, la costituzione veramente rivoluzionaria. Nel 1936 il «socialismo» è dato come conquista realizzata, la costituzione diviene un atto statico, si dichiara stabilmente democratica, ed è all'opposto l'espressione storica e giuridica di una situazione conservatrice. L'analisi completa mostra all'evidenza questa antitesi insuperabile, e se ne danno qui solo pochi cenni.
Nel 1918 si dichiara, in epigrafe, che il lavoratore è tuttora sfruttato. Si definiscono i compiti dello Stato politico che i lavoratori hanno fondato: soppressione dello sfruttamento (che c'è) e della divisione della società in classi (che c'è) - vittoria del socialismo e organizzazione della società socialista «in tutti i paesi» (che ancora non c'è) - sterminio degli sfruttatori (che anche ci sono).
Le misure economiche immediate non sono socialiste: nazionalizzazione della terra, delle acque, del sottosuolo - controllo operaio e statale sull'industria «onde assicurare il potere dei lavoratori sugli sfruttatori» (che dunque ci sono) - annullamento dei debiti di Stato - banca di Stato - lavoro obbligatorio - armamento dei lavoratori e disarmo delle classi possidenti (che dunque ancora ci sono). Il Capitolo III stabilisce la condanna della guerra imperialista, dell'oppressione coloniale, della oppressione nazionale. Il IV proclama che gli sfruttatori non possono in verun modo partecipare al potere.
Tutta la parte sull'ingranaggio dei Consigli poggia sulla diversa posizione dei proletari urbani e dei contadini della campagna. Nella composizione dei Soviet di distretto e quindi in quella del Soviet centrale un voto operaio equivale a cinque voti di contadini: questo stabilisce che la dittatura, pure poggiando su due classi, dà assolutamente il posto di classe dominante ai salariati autentici e il suo senso è che durante tutta la fase storica - che non potrà chiudersi che dopo il trionfo di una rivoluzione internazionale - della soppressione delle forme borghesi, gli strati piccolo-borghesi sono sottoposti al proletariato salariato, cui in una dittatura pienamente socialista apparterrà tutto il potere, fino alla sparizione delle classi e dello Stato.
Nel 1936 la costituzione, sotto il pretesto che la trasformazione sociale è molto più avanzata e lo sfruttamento abolito, viene totalmente snaturata. A suo tempo svolgeremo la descrizione della società sovietica come fondata su due sole classi: operai e contadini (non sono detti una vera classe gli intellettuali, ed è giusto). Ora, delle due l'una: o non esistono più classi borghesi, e allora la dittatura deve continuare in mano agli operai soli, o esistono e la dittatura contro i borghesi deve continuare, e la maggiore partecipazione ad essa degli operai rispetto ai contadini del pari. Invece, col pretesto che le classi sfruttatrici sono state abolite, il suffragio viene, in tutto conformemente al modello giuridico borghese, esteso a tutti: è proclamato universale, uguale, diretto e segreto, vantando di avere promulgata la costituzione più democratica del mondo odierno (il che è vero).
Dittatura significa suffragio non universale, ma di classe. Nella repubblica di Lenin il suffragio era plurimo, non uguale: un proletario vero vale cinque coltivatori poveri. Era indiretto, non diretto: dal villaggio, al distretto, al governatorato, allo Stato; sola forma in cui la separazione borghese tra potere legislativo ed esecutivo è abolita. Era pubblico, non segreto, come nelle adunate della Comune di Parigi elevata a modello da Marx e Lenin. La costituzione 1936 è pienamente democratica perché è quella di una repubblica borghese.
A suo tempo tratteremo del preteso impegno di Lenin di ridare in breve tempo il voto a tutti. La dittatura doveva per Lenin durare fino alla repubblica socialista in Europa: dopo, questa si abolirà perché si abolirà lo Stato, e quando questo si abolirà, cesserà con esso ogni democrazia, e suffragio.
Lo studio della nuova costituzione in rapporto al codice civile vale a mostrare quante forme sopravvivono, il cui contenuto è di profitto non da lavoro, e quindi di quello «sfruttamento» che si afferma soppresso.
Gli articoli base dichiarano che, dopo la liquidazione del sistema capitalista dell'economia, vige una doppia forma di «proprietà socialista» (conosciamo una sola forma socialista: la non-proprietà): una statale; l'altra cooperativa-colcosiana (dei singoli colcos).
Sono proprietà dello Stato la terra, il sottosuolo, le acque, le fabbriche ed officine, le banche, le grandi aziende agrarie statali (sovcos) e «il complesso fondamentale del patrimonio edilizio nelle città e nelle aree industriali». Sono (si spiega) «patrimonio del popolo intero». Ora, fino a che esisterà lo Stato operaio, vi sarà un patrimonio dello Stato; ma non sarà patrimonio di popolo, bensì di classe. Quando non vi saranno classi non vi saranno proprietà e patrimoni. Le parole hanno il loro peso: ove trovi popolo, trovi sistema borghese.
La terra anche del colcos è statale; proprietà del colcos è l'azienda cooperativa, con le scorte vive o morte e gli immobili sociali. Questo è chiamato proprietà socialista, laddove è proprietà, di un capitale e di più degli immobili (fabbricati), nemmeno statale, ma di una privata cooperativa.
Inoltre ogni famiglia appartenente al colcos non ha in proprietà ma in godimento la terra. Ha poi in proprietà personale (art. 7) l'impresa ausiliaria impiantata sul suo appezzamento: casa di abitazione, bestiame produttivo, animali da cortile, e un piccolo inventano agricolo.
Né basta; è all'art. 8 ratificata la proprietà privata personale dei piccoli contadini, e degli artigiani, con esclusione di lavoro altrui.
Fermiamoci ora sul peso della proprietà statale, sia pure con forma non socialista ma di capitalismo di Stato. Si ammette che nell'industria dei manufatti (con grave riserva per l'edilizia in generale) essa sia totale, trascurando quanto può esservi di piccole industrie private, e ammettendo anche che in Russia la produzione artigiana non ha mai avuto un peso rilevante.
Ma che cosa è proprietà statale vera nell'agricoltura, intendendo parlare qui non della terra-patrimonio ma del capitale investito sulla terra? Solo il settore dei sovcos e delle stazioni di macchine. Ora si ammette che questo abbia ben piccola parte, forse un decimo, rispetto al settore «colcos».
Un altro decimo è in forma contadina, tra naturale e mercantile, ancora privata-personale, e deve naturalmente ancora salire al capitalismo, anche statale.
Resta il settore imponente dei colcos. Quanta terra è delle unità-colcos, quanta delle aziende familiari libere? Poniamo (in questo studio sommario) metà, metà il lavoro, metà il capitale mobile. Evidentemente molto più della metà della forza lavoro agraria della popolazione si svolge ancora in forme che sono o naturali o mercantili libere, e meno di metà nella forma cooperativa del colcos, che è sempre una forma di azienda privata capitalista sia pure collettiva, che pur versando imposte allo Stato dispone del suo prodotto ed ha il suo bilancio fondato sul profitto di azienda.
L'agricoltura russa è dunque per oltre metà sotto il livello del capitalismo privato, per meno di metà a questo livello, per un decimo forse al livello del capitalismo di Stato. Poiché tutti i prodotti si commerciano in moneta (vedi «Dialogato con Stalin») non è per nessuna parte al gradino «socialista».
Aggiungiamo il rapporto tra popolazione industriale ed agraria e vedremo quanto la Russia sia lontana dal capitalismo di Stato integrale: gradino da cui si può - salvo le condizioni politiche ormai barattate - salire al socialismo. A tempo verrà il confronto tra questi indici e quelli di paesi capitalisti, come Germania od America.
Questo è un punto delicato. Come in ogni paese moderno la più viva parte del potenziale capitalista si volge oggi all'edilizia privata e pubblica intesa non in rapporto ai soli edifici abitativi, ma ad ogni manufatto e servizio pubblico (strade, ferrovie, canali, centrali, dighe, ecc.). Come in Russia funziona tale meccanismo? Per soli organi statali, e per sole aziende, imprese, che rispondono del loro guadagno allo Stato?
Per risolvere tale quesito va rilevato che in tutto il mondo in questo campo la intrapresa privata capitalista è ormai interamente mimetizzata. Non ha proprietà immobiliare titolare, non ha stabilimenti e fabbriche, non ha sedi fisse, non ha titolari certi, ha cantieri volanti e macchinario relativamente insignificante rispetto ai colossali movimenti di affari. Non ha nemmeno capitale finanziario, che lo Stato e per esso la Banca mette a sua disposizione sulla sola base della «commessa». In essa avviene l'idillio moderno più dolce tra l'iniziativa privata e il monopolismo statale. Per i nove decimi è in questa forma che in pace e in guerra oggi il capitale, più che mai anonimo come Marx lo descrisse, infesta l'umanità.
Dobbiamo notare che nel diritto civile russo, mentre lo Stato dà la terra agraria in godimento anche perpetuo, circa i suoli urbani e i manufatti urbani la forma è più complessa. Vi è un settore municipalizzato, che collima con una vecchia forma capitalista di riforma urbanistica. Ma anche da questo settore si fanno lunghe concessioni di costruzione che, come quelle borghesi nei demani, coste, porti, ecc., comportano una lontana restituzione alla pubblica amministrazione dopo ampio «ammortamento».
La più larga disamina di questo punto varrà a stabilire che in questo campo, che assorbe i massimi investimenti del capitale accantonato dallo Stato industriale e datore di lavoro a carico di un proletariato a scarso consumo, avviene una larga generazione di plusvalore e profitto privato sotterraneo.
D'altro canto il diritto civile consente il possesso privato di tutta una vasta gamma di beni individuali: case, ville, parchi, oggetti d'arte, mobilia, collezioni e raccolte, e inoltre titoli fruttiferi di Stato, conti correnti di risparmio, denaro liquido accumulato e così via [10].
Quando lo Stato ha la proprietà titolare ed il controllo di terra, suoli, fabbriche, manufatti di ogni genere, giacimenti, ecc., e ne concede a vari stadi il godimento conservandone una proprietà teorica e simbolica, non abbiamo affatto un sistema socialista.
Anche nel diritto comune e nell'economia finanziaria è facile mostrare che proprietà e godimento collimano: il fatto reale è il secondo, si risale alla prima con un semplice processo quantitativo.
Il godimento rispetto alla proprietà è ciò che è il reddito rispetto al capitale, l'interesse rispetto al denaro messo a frutto. Proprietà, capitale e denaro scritto in un titolo e serbati sotto una campana di vetro non sfamano nessuno. Sono appetibili in quanto se ne abbia un godimento: rendita, profitto, interesse. Hanno un valore stimabile in quanto il calcolo parta da un cumulo di godimenti acquisibili in un futuro certo. Ricordate Petty? Perché la terra vale venti rendite (capitalizzando la rendita al medio 5 per cento)? Perché, diceva, questo è il tempo di vita tra due generazioni di lavoratori manuali. Oggi con le solite formule di interesse composto sappiamo che il capitale cento deriva dall'interesse cinque non perché si abbiano venti anni di interesse, ma perché gli anni sono tanti e tanti, a perdita d'occhio, e le rate di cinque lire valgono tanto meno quanto più lontane: sommate tutte viene cento.
Questo vuol dire: Tenetevi la proprietà e datemi il godimento: avrò tutto ottenuto. Con la «nuda proprietà» voi donatore, o lo Stato donatore, restate a zero. Tanto è vero anche per il godimento «vitalizio»: per un uomo giovane con le tabelle di probabilità si trova che vale più del 90 per cento: il resto è quanto si attribuisce alla goduta proprietà (ah; tu me l'hai goduta, Giannettaccio! urla nella Cena delle beffe Neri impazzito). Togliere la proprietà, e distribuire godimenti, è una Cena delle Beffe del socialismo. Spiegammo che abolire la proprietà dei mezzi di produzione, come i russi vantano di aver fatto, non ha altro senso che abolire la proprietà dei prodotti. Ma i mezzi sono proprietà, i prodotti godimenti. Il socialismo in tanto è abolizione di proprietà giuridica in quanto sia davvero abolizione di fisico godimento appena proiettato nel domani. Godimento altro non è che consumo senza lavoro. Vogliamo togliere la proprietà agli sfruttatori perché non se la godano. Nel 1918 scrivemmo di meglio: li dovevamo sterminare. Oggi li trattiamo a godimento... socialista [11].
Essa che vanta d'essere nel socialismo va, a rotta di collo, al capitalismo. Ha secoli da riguadagnare. Due cifre sole possiamo in questa sintesi richiamare: in piena guerra civile era ad un terzo della efficienza 1914, nel 1936 si dichiarava che era a sette volte tanto. Dunque in 16 anni circa il capitale era andato a ventuno volte la partenza, al duemilacento per cento. Un ritmo (ignoto alla storia) di accumulazione progressiva, che indubbiamente si è mantenuto ed accresciuto fino alla guerra 1939-45 e dopo. Questo capitale di Stato investe tanto più, quanto meno consuma una borghesia ormai come persone dataci per assente. Il plusvalore non si divide tra consumo della classe possidente e reinvestimento nella produzione; è tutto, salvo quelle ville, quei quadri e quelle collezioni, nuovo investimento. Resta, per tale motivo, inchiodato il tenore di vita e il tempo di lavoro del proletariato. Costruire, armare, ricostruire, industrializzare, inghiottono tutto. Al sacrificio del tenore di vita il proletariato russo ha aggiunto quello della vita stessa, che è un potenziale plusvalore scontato alla banca della guerra, regalato agli alleati dell'imperialismo democratico.
Negli anni eroici uccidemmo i borghesi, ma non per fare socialismo: per fare più e più presto capitalismo. La storia sa le sue vie. Se avessimo saputo che la Rivoluzione russa doveva essere così, nel suo percorso futuro, parimenti l'avremmo propugnata e plaudita.
Il fenomeno oggi controrivoluzionario non è questa corsa alla industrializzazione e questa tremenda velocità di accumulazione; non è tanto meno, il suo rilancio sull'Asia. Il fenomeno controrivoluzionario sta nella maschera di conquistato socialismo sovrapposta a tutto, sta nella distruzione della potenzialità proletaria mondiale verso l'autentica conquista socialista, sta nella possibilità data a tutti i capitalismi di persistere sotto le ondate dei terremoti storici e ribadita nelle campagne pacifiste, nelle vergognose gare emulative.
Dovremo, e dovranno le generazioni proletarie che vengono, affrontare il capitalismo di occidente in una battaglia cui spetta, prima che di armi, essere di teoria. Mentre quello di Oriente vanta il «pieno impiego» in città e campagna di semi-digiunatori, i satrapi dell'Occidente e dell'Oltreatlantico vantano, rubandoci il segreto ed il linguaggio marxista, di essere giunti - moltiplicando la produttività del lavoro fino all'automatismo (che essi scoprono oggi dalle nostre pagine di un secolo prima, ove fu sinonimo di capitalismo), e moltiplicando ancora più con bisogni artificiali e folli il volume dei consumi, perfino a credito e non pagati da nessuno - ad esaltare il benessere ed il tenore di vita, a decurtare il tempo di lavoro. Il «boom», che conduce al giorno nero.
Ma non è di troppo una generazione, perché la classe operaia rivendichi di nuovo tutto il campo dell'esaltata produttività, di una organica produzione con un razionale consumo, di una ben drastica decurtazione del lavoro, e travolga le mostruose macchine di Oriente ed Occidente. Non è di troppo una generazione di validità lavorativa, i venti anni del vecchio Petty. [da ora, 1955] [12].
Note:
1. Numeri 1- 4 del 1952 de «Il programma comunista», poi raccolti in volumetto col titolo «Dialogato con Stalin», Edizioni Prometeo, Milano, 1953.
2. Corrispondenti ai paragrafi 1- 46 della la parte di «Struttura economica e sociale della Russia d'oggi».
3. Poiché all'inizio della «Premessa» si allude a trattazioni
precedenti che coinvolgevano l'analisi della struttura economica e sociale
russa, ricordiamo in particolare - oltre ai testi citati in tutto il volume (ma
è solo una piccola scelta):
Terra acqua e sangue, Socialismo da
coupons, La controrivoluzione maestra, Chioccia russa e cuculo capitalista, Bussole impazzite, Nel vortice della
mercantile anarchia, Le gambe ai cani, nei nr. 22/1950, 11, 18, 19, 20 /
1951, 9 e 11/ 1952 del quindicinale «Battaglia comunista»; Capitalismo
classico - socialismo romantico, L'orso e il suo grande romanzo, Fiorite
primavere del capitale, Anima del cavallo-vapore, Malenkov-Stalin: toppa, non
tappa, Vulcano della produzione o palude del mercato?, nei nr. 2, 3, 4, 5,
6 / 1953 e 12-19 / 1954 de «Il programma comunista», e la lunga serie
sulla questione agraria dal nr. 21/1953 al nr. 12/1954, ivi.
4. La 1° parte di «Russia e rivoluzione nella teoria marxista» riporta le fondamentali citazioni dai testi ora raccolti in Marx - Engels, «India, Cina e Russia», Milano, II° ediz., 1965. L'espressione «Cose sociali di Russia» nel titolo del capitoletto successivo ricalca l'engelsiano «Soziales aus Russland» del 1875.
5<. In «Il programma comunista», nr. 4-8/1955, II° parte di «Russia e rivoluzione nella teoria marxista», rapporto svolto a Bologna il 31 ottobre - 1 novembre 1954, soprattutto ai paragrafi 28-59.
6. L'articolo del 24-5-1918, «Le direttive della rivoluzione russa in una fase decisiva», si legge insieme ad altri in «Storia della Sinistra Comunista», 1912-1919, Reprint «Il programma comunista», Milano 1973, pagg. 319-326.
7. Cfr. il resoconto della riunione di Milano, 17-18 dic. 1955, su «L'opposizione di sinistra nella III Internazionale comunista», ne «Il programma comunista», nr. 1 del 1956 Per le origini, vedi la nostra «Storia della Sinistra Comunista», 1919-1920, Milano, 1973.
8. Cfr. in particolare «Ripiegamento e tramonto della rivoluzione bolscevica», più oltre.
9. Si veda lo sviluppo del tema ai paragr. 74 e segg. della II° parte de «La struttura economica e sociale della Russia d'oggi», più oltre, dove sono pure date le principali citazioni.
10. Su questo tema in particolare, cfr. «Proprietà e capitale» nei numeri 10-14/I° serie e 1-4/II° serie della rivista «Prometeo», 1948-1952, ma soprattutto la puntata nel nr. 1 della II° serie.
11. Sul «vecchio Petty» e il «valore del suolo», cfr. «Stregoneria della rendita fondiaria» e «Lui, lei e l'altro (la terra, il denaro e il capitale)» nei nr. 22 e 23/1953 de «Il programma comunista».
12. L'intero tema delle «grandi questioni storiche ecc.» sarà ripreso nel nr. 21/ 1957 de «Il programma comunista», nel 40° anniversario dell'Ottobre, in «Quarant'anni di organica valutazione degli eventi di Russia nel drammatico svolgimento sociale e storico internazionale».
Ultima modifica 23.12.2003